martedì 11 agosto 2020

Pubblicato nuovo studio sulla relazione fra la produzione di carne e le epidemie umane

Una ricerca appena pubblicata su Biological Conservation analizza il rapporto tra incremento dell'allevamento di animali “da carne” nel mondo, perdita di biodiversità e rischi per la salute umana.

È noto come l'aumento degli allevamenti (intensivi ma anche estensivi) abbia come corollario la perdita di biodiversità. Lo studio ha approfondito l’argomento e ha messo a fuoco il collegamento tra questi due fenomeni e l'aumento delle malattie infettive nell'uomo e negli animali, incrociando diversi database sui temi salute umana e animale, aumento del bestiame e perdita di biodiversità, e comparando i dati relativi a epidemie umane e capi di bestiame risalenti agli anni Sessanta (e fino agli anni Quaranta per le epidemie). 
Dal 1960 l’umanità è stata colpita da 17.000 epidemie (16.994 registrate fino al 2019) per circa 255 malattie infettive, in un intensificarsi direttamente proporzionale alla perdita locale di biodiversità e all'aumento della densità di animali allevati per alimentazione.
Secondo i dati FAO, dal 1960 ad oggi il numero degli animali allevati, in condizioni sempre più penose e sempre più geneticamente modificati, è cresciuto costantemente, giungendo a  incrementi impressionanti:
1) i bovini da 1 miliardo a 1,6 miliardi 
2) i suini da 500 milioni a 1,5 miliardi di oggi
3) il pollame da 5 miliardi a 25 miliardi.
In una tendenza che è assolutamente da invertire, in quanto già ora insostenibile; cosa sarà fra pochi anni? Le proiezioni parlano chiaro, e sono sconvolgenti.


Contestualmente alla crescita dei capi allevati (e macellati), "le epidemie umane sono aumentate da circa cento all'anno nel 1960 a da 500-600 all'anno nel 2010, mentre le epidemie animali aumentano ancora più rapidamente: da meno di cento all’anno, nel 2005, a oltre 300 nel 2018.
Dice Serge Morand, che ha diretto la ricerca: "studiando i database, constatiamo che la cosa che meglio spiega l'aumento del numero di malattie infettive è proprio l’incremento degli allevamenti”. La seconda correlazione che emerge dallo studio è quella fra l'aumento delle malattie infettive e la perdita di biodiversità in ogni Paese.
La lista rossa regolarmente aggiornata dall'Unione Internazionale per la Conservazione della Natura mostra la biodiversità sempre più in pericolo. Deforestazione, monocolture (in gran parte destinate solo a cibo per animali da macellare) e urbanizzazione riducono sempre più gli ecosistemi e la loro biodiversità; e meno biodiversità significa più circolazione di agenti patogeni. 
"Anche una grande varietà di agenti patogeni può essere poco pericolosa in paesaggi molto diversificati, con elevata biodiversità, perché qui c'è molta regolamentazione. La concorrenza tra le specie e i grandi predatori, ad esempio, regolano il numero degli animali serbatoi di agenti patogeni”, dice Serge Morand; “viceversa, la semplificazione dei paesaggi riduce i fattori di controllo, aumentando le possibilità di passaggio all'uomo; appena qui accade qualcosa diventa epidemia. Inoltre tutto è collegato, la distruzione delle foreste, ad esempio, porta allo spostamento dei pipistrelli e altri animali selvatici verso le infrastrutture umane, allevamenti compresi, il che rende più facile la trasmissione di malattie agli animali allevati, che a loro volta le trasmettono all'uomo”.
Uno studio pubblicato su Nature nel 2008 mostrava che già allora, in totale, erano di origine animale il 60% delle malattie infettive e il 75% delle malattie emergenti; ma oggi le cose sono decisamente peggiorate, la diffusione di nuovi virus, di batteri pericolosi e di superbatteri antibiotico-resistenti è sempre più frequente; è notizia di questi giorni anche il primo lockdown, in Cina, per arginare contagi da peste bubbonica
Allora quali sono le soluzioni oggi per contenere questi pericoli?
Poiché il consumo di animali è il principale fattore determinante, c’è una sola soluzione: "dobbiamo ridurre il consumo di proteine ​​animali", afferma Serge Morand. 
Muriel Vayssier (che dirige l'Insititut Nationale de la Recherche Agronomique in Francia), ha commentato lo studio come “particolarmente importante, perché fra i pochi che analizza dati fattuali per trovare correlazioni positive tra questi tre elementi”, e lo fa su un periodo abbastanza ampio. “Molte malattie umane provengono da animali, perché condividiamo con loro molti dei nostri microbi. E se c'è poco contatto tra animali selvatici e umani, gli animali allevati sono spesso un anello della catena di contaminazione”, aggiunge. Però secondo Vayssier “le correlazioni positive ancora non dimostrano la relazione di causa ed effetto. Per dimostrare quale sia il fattore determinante bisognerà fare ulteriori studi affinando i parametri, ad esempio confrontando le pratiche agricole” e, oltre a queste, molti altri elementi quali esplosione demografica, cambiamento climatico o addirittura urbanizzazione.
Comunque si guardi la cosa, e per quanto si approfondiscano gli studi, resta fermo un insieme di dati noti da molti anni, su cui gli studiosi hanno lanciato ripetuti avvertimenti: la sola produzione della carne determina il 90% della distruzione dell’Amazzonia, ed è fra le prime cause di consumo di suolo e di risorse. È la seconda causa di produzione dell’inquinante più letale, le polveri sottili. È un grave moltiplicatore e incubatore di virus, batteri e superbatteri. È inoltre la seconda causa di surriscaldamento globale per produzione di gas serra; un surriscaldamento i cui rischi imminenti si stanno profilando come spaventosi per la sopravvivenza, e anche per l’economia.
Ora, al di là di ogni abitudine e di ogni pregiudizio, poniamoci onestamente una domanda: siamo sicuri che il piacere di consumare carni valga tutta la sofferenza che ci costa e il pericolo che determina? 
Anche i più privilegiati e protetti non si illudano: l'entità di questo prezzo sarà presto evidente per tutti.


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