di Annamaria Barbato Ricci* • A bocce ferme, dopo le dimissioni di Giulio Leonardo Ferrara da ruoli che un pregiudicato non avrebbe potuto ricoprire ab origine dopo la condanna passata in giudicato, è il momento della riflessione.
Ci sarebbe sembrato disattendere le conseguenze della sentenza alla pena di due anni e sei mesi per violenza e abuso di posizione di soggezione comminatagli e confermatagli, se lo avessimo lasciato rimanere sulla sua poltrona, pascendosi della propria sostanziale immunità. E abbiamo considerato un dovere civico del nostro giornale indignarci e dare voce all’indignazione, raccolta anche con una petizione ai vertici istituzionali, promossa dal rassemblement femminile “Dalla Stessa Parte”. Ha raccolto le firme di uomini e donne, perché questa non è stata una resa dei conti al femminile, bensì la resurrezione dell’etica, sui luoghi di lavoro pubblici e privati. E l’etica non ha sesso. O ce l’hai o non ce l’hai: la lettera di dimissioni di Ferrara è l’icona di una mentalità padronale priva di etica di un reo riconosciuto in ben tre aule di Tribunale (fra cui la Suprema Corte di Cassazione) che addebita il proprio passo indietro non a questioni di opportunità e di coscienza (ma va’!), bensì ad una ‘violenta’ (lapsus freudiano?) campagna stampa.
Certo, ne uccide più la penna (o il pc) che la spada.
Il nostro intento, però, non era di uccidere proprio nessuno, sia pure metaforicamente, macchiandogli l’immacolata reputazione, ma di impedire che si accreditasse a un manager moralmente indegno una sostanziale impunità - non ha patito certo l’esecuzione della pena.
Il nostro intento, però, non era di uccidere proprio nessuno, sia pure metaforicamente, macchiandogli l’immacolata reputazione, ma di impedire che si accreditasse a un manager moralmente indegno una sostanziale impunità - non ha patito certo l’esecuzione della pena.
Nessuna conseguenza visibile per lui, qualora la vicenda non fosse stata portata alla luce, se non la traccia sulla sua fedina penale: il che gli consentiva di godere degli eguali privilegi di un omologo dalla morale specchiata. Non enfasi giustizialista, ma operazione verità; non campagna mediatica volta a denigrare immeritatamente, ma ristabilimento della autenticità dei fatti.
Da parte mia, un pensiero sovrastava tutti, mentre pestavo indignata la tastiera del pc: riflettevo sulla sofferenza profonda della parte offesa che, immagino, abbia affrontato un calvario nato dal momento della violenza traumaticamente subita e dipanatosi in tre sedi giudiziarie, con il dolore e l’umiliazione delle domande inquisitorie per stabilire se ‘davvero’ fosse stata oggetto di violenza.
Un’angoscia reiterata, da sbranare l’anima. E il peso, il terrore di continuare a lavorare in una situazione in cui l’orco era il dominus; e l’habitat sociale e lavorativo che non sempre è benevolo e può non crederti e trinciare istantanee sentenze inappellabili (mentre chi ti ha causato il vulnus può ricorrere a tre gradi di giudizio). E gli incubi, le lacrime, e il meccanismo di autocolpevolizzazione che spontaneamente sorge ed è spesso indomabile.
Della vittima nessuno ha parlato, io per prima. Di colei riguardo alla quale si può parlare realmente di violenza. E voglio farne ammenda, esprimendo considerazione e solidarietà.
Signori, tutti in piedi. Onore a una donna che è andata fino in fondo, senza recedere, senza farsi sconfiggere da paure, violenze morali estranee, diventando un simbolo per tutte le altre che non hanno avuto la sua forza d’animo, il suo coraggio.
Un esempio per quelle che hanno taciuto e lo sprone a non farlo mai più. Perché è lei stessa testimonianza che la giustizia vince sempre, se la facciamo vincere.
[Annamaria Barbato Ricci* su Il Quotidiano del Sud del 30/8/2020]
*già capo ufficio stampa della Commissione Nazionale per la Parità e le Pari Opportunità tra Uomo e Donna presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri
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