giovedì 17 dicembre 2015

Codice rosa: le donne non sono oggetti da tutelare

Ricorreremo al Consiglio d’Europa per la violazione della Convenzione di Istanbul e assisteremo le vittime di violenza presso la Corte Europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo qualora si sentano lese nei loro diritti dalle procedure dello Stato italiano.

I 73 centri antiviolenza D.i.Re non ci stanno e nemmeno Telefono Rosa, Udi, la Libera università delle donne di Milano, Ferite a morte, Fondazione Pangea, Be Free, Pari e Dispare, Uil, Le Nove e Giuristi democratici. Lo hanno detto forte e chiaro durante la conferenza stampa che si è svolta stamattina nella sala Cristallo dell’Hotel Nazionale a Montecitorio. Erano presenti molte donne, alcuni parlamentari,  Roberta Agostini, Marisa Nicchi, Giovanna Martelli e Delia Murer,  Pippo Civati e Andrea Maestri, unici uomini presenti, e molte attiviste femministe tra le quali Alessandra Bocchetti, che ha spiegato di essere presente perché “trova estremamente preoccupante la regressione a cui stiamo assistendo. Le donne vengono ricacciate in una sorta di “minorìa” della cittadinanza femminile, stanche di non essere mai nell’agenda politica di questo Paese e, quando ci sono, non vengono consultate”.

Le rappresentanti delle associazioni che hanno organizzato la conferenza stampa sono intervenute una ad una: Titti Carrano (D.i.Re),Vittoria Tola (Udi),Gabriella Moscatelli(Telefono Rosa), Oria Gargano (Be Free) per dire no! all’emendamento Giuliani che introduce il percorso di tutela delle vittime di violenza in tutti i pronto soccorso italiani, purtroppo approvato in Commissione Bilancio della Camera il 15 dicembre scorso. Le accuse contro l’emendamento sono durissime. E’ stato scritto con ignoranza e scarsa conoscenza di un fenomeno che ha bisogno di percorsi individuali e non standardizzati, è animato da vendetta da parte di chi ha cercato di imporre per anni un percorso di costrizione alle donne maltrattate senza riuscirci (fino all’emendamento) ed è inadeguato perché non prevede follow up dopo la visita al pronto soccorso che può salvare la vita delle donne.
A nulla sono serviti i ritocchini apportati al precedente testo nel tentativo di placare le proteste dei centri antiviolenza e delle associazioni impegnate sul tema dei diritti delle donne. Il testo, come già denunciato nei giorni scorsi da D.i.Re, “viola l’ordinamento nazionale e internazionale, innanzitutto la Convenzione di Istanbul, che prescrive un approccio di genere perché la violenza di genere contro le donne non è una questione privata, non è una questione di sanità o di ordine pubblico, ma ungrave problema sociale che ha radici nella nostra cultura e va affrontato con una coerente e seria guida politico istituzionale”.
Il codice Rosa Bianca sui percorsi a tutela delle vittime è sempre stato  contestato durante i tavoli di confronto per il Piano Nazionale Antiviolenza e non è l’unica esperienza realizzata in un pronto soccorso per aiutare le donne. Da diversi anni anni esistono le esperienze del Codice Rosa dell’Ausl di Napoli e quella dell’ospedale Umberto I di Roma, a cui partecipa Differenza Donna. Eppure non si è mai aperto alcun confronto o riflessione con i centri antivolenza per capire come costruire il migliore progetto per le donne.  E’ stato imposto il modello di Grosseto, nonostante le obiezioni. Perché?
Per farsi un’idea dell’impostazione del Codice Rosa Bianca andate sul sito dell’ausl di Grosseto: viene descritta una procedura che tra ambiguità e contraddizioni presenta una sorta diesercito della salvezzaanimato da un interventismo istituzionale che mette al centro del percorso le procedure invece che la consapevolezza, le risorse e la libertà delle donne che, fra l’altro, non sono nemmeno nominate. La lettura della violenza di genere, in violazione della Convenzione di Istanbul, viene inghiottita dalla neutralità di tante “vulnerabilità” mischiate un calderone che equipara diverse problematiche.
Snoq libere ha esultato dopo l’approvazione dell’emendamento, mentre le tifoserie del Codice Rosa Bianca, stizzite dalle contestazioni, si erano date da fare sui social attaccando i centri con una palla colossale: accusandoli di affrontare il problema della violenza come una loro questione privata. Negli anni in cui le istituzioni erano latitanti  e non avevano gli strumenti per riconoscere il problema, i centri antiviolenza sono stati i primi a divulgare dati, a rivelare le caratteristiche del fenomeno, a sensibilizzare, a realizzare progetti innovativi e a chiedere con forza il coinvolgimento delle istituzioni. Hanno creato reti di collaborazione con servizi sociali, pronto soccorso e forze dell’ordine in città e province dove c’era il deserto, ma sempre pensando a progetti che restituissero forza alle donne che sono soggetti di diritto e non oggetti di tutela. Questa è la differenza tra femminismo e patriarcato. Snoq libere riconosce la differenza? E chi ha votato l’emendamento?
Marina Terragni ieri ne  ha scritto sul suo blog definendo questo percorso un disastro simbolico e reale perché  le donne non sono minori deficienti da tutelare, ma persone da accompagnare in un percorso ogni volta diverso nei tempi e nei modi. Che la libertà non è una medicina che si può inoculare. Poi, appellandosi alle colleghe della stampa estera, ha denunciato interessi distanti dalla libertà delle donne e non poteva dirlo meglio.

sabato 12 dicembre 2015

Elvira Reale: non è il Codice Rosa in sè da respingere ma quello oggi adottato, che va cambiato nel rispetto della Convenzione di Istanbul

Dopo l ‘appello di D.i.Re e di altre associazioni contro l’emendamento Giuliani,  ospito una riflessione di Elvira Reale, psicologa, responsabile sportello antiviolenza degli ospedali San Paolo e Cardarelli di Napoli.  
L’esperienza di Napoli ha un retroterra culturale e tecnico molto corposo sia nella cultura delle donne (si riferisce in toto al percorso degli organismi internazionali su questo tema e oggi alla Convenzione di Istanbul), sia nella cultura della medicina di genere. Si è posta l’obiettivo di trasformazione delle prassi mediche e psicologiche per riconoscere la violenza come eziologia di molte patologie ad elevato impatto nella popolazione femminile. L’inserimento nel percorso rosa intra-ospedaliero ha una novità: il referto psicologico che costituisce un potente mezzo per le donne, persone offese del reato e spesso uniche testimoni di se stesse, per accreditare la loro attendibilità ed evitare la vittimizzazione secondaria nei processi (il non essere credute, l’essere considerate malate, il considerare la patologia come causa della violenza o  delle loro denunce, ecc.ecc.).Il pronto soccorso San Paolo ha costruito un percorso rosa sia interno (doppio referto medico e psicologico per la donna e per il minore vittima di violenza assistita),  che esterno che ha il suo centro di azione nella donna, a cui è consigliato di rivolgersi in primis aicentri anti-violenza con cui si è in rete e in connessione costante. La rete con le forze dell’Ordine è presente e precede l’andata presso il centro anti-violenza solo quando la donna lo richiede, per le emergenze, per la sua tutela. Le forze dell’Ordine con cui ci si collega sono quelle indicate per prossimità o per rapporto di conoscenza dalla donna stessa (non dimentichiamoci che il 40% delle donne che arrivano in pronto soccorso sono oggetto di violenza da parte di ex-partner e hanno già rapporti con le forze dell’Ordine locali). L’esperienza del pronto soccorso San Paolo si muove all’interno della Convenzione di Istanbul con cui condivide ogni presupposto, e di cui ha condiviso l’istanza di fornire servizi istituzionali sanitari, specializzati e innovativi formati all’accoglienza delle vittime di violenza di genere e dei loro figli. L’esperienza di Grosseto non si muove nell’alveo della Convenzione di Istanbul ed è inappropriata proceduralmente nel percorso rosa rispetto alle donne. Non è dedicata alle donne vittime di violenza di genere e quindi non condivide il background culturale su cui poggia la Convenzione nel considerare la violenza di genere, quella maschile, contro le donne. La sua esperienza si è stagliata sull’organizzazione e settorializzazione del lavoro delle Procure che al loro interno hanno il settore fasce deboli che include ogni persona ‘vulnerabile’ per le proprie caratteristiche (si è ritornati a considerare le donne “fasce deboli”) alla violenza (donne, anziani, bambini, handicappati).
Il codice che Grosseto si è dato è appunto quello di ‘Rosa Bianca’, per indicare che il suo oggetto non sono le donne vittime di violenza di genere, ma ogni persona donna e uomo intrinsecamente vulnerabile alla violenza per le sue caratteristiche (handicap, età anziana, sesso debole!). Da queste premesse distorte rispetto a un’ottica di violenza di genere nasce una procedura non condivisibile: nessuna innovazione e modifica delle prassi sanitarie è stata introdotta, se non la riservatezza nell’introdurre nella ‘stanza rosa’, la donna o l’uomo che parla di violenza dove far confluire una equipe multidisciplinare. Nessuna procedura per la violenza di genere è stata codificata ma le donne sono state inserite, come voluto dalla procura e per assimilarsi a loro, nel calderone delle persone vulnerabili.
Grosseto ha arrecato un danno alla lotta contro la violenza di genere confondendo i problemi delle donne vittime di violenza (persone di ogni livello e profilo di personalità, persone anche socialmente forti) con quelle delle persone vulnerabili (dizione usata anche nell’emendamento che non si riferisce mai alla Convenzione di Istanbul!), come indicato nel linguaggio delle procure o nella cultura giuridica. Le donne in questo modo nel codice “Rosa bianca” (e non codice Rosa, come erroneamente detto) sono escluse dal diritto (inserito nella Convenzione) di essere rappresentare come vittime e non come persone vulnerabili, rinviando con questo a loro caratteristiche personali, che invece niente hanno a che vedere con la violenza di genere che colpisce ogni tipo di donna.
Dall’impostazione di Grosseto, plasmata sull’organizzazione delle procure rispetto ai reati contro le fasce deboli, discende anche la soluzione ai problemi da loro prospettata e riversata sia nel Piano nazionale antiviolenza, che ha preso Grosseto come modello, sia nell’emendamento alla legge di Stabilità: raccogliere nella stanza rosa di un ospedale intorno alla donna o all’uomo una equipe multidisciplinare in rappresentanza di tutte le istituzioni (fin quando si tratta di un piccolo paese è ancora immaginabile una cosa del genere anche se non corretta, pensiamo a Napoli dove ci sono per un milione di abitanti almeno 5 grandi pronto soccorso che chiamano la procura, le forze dell’Ordine, altri servizi per accorrere tutti immediatamente  in ospedale bloccando tutte le attività!) e ottenere la messa in sicurezza secondo un piano istituzionale rispetto al quale il consenso o i desiderata della vittima (o meglio persona vulnerabile, uomo o donna che sia, ritenuta incapace di agire in proprio) non sono presi in considerazione.
E’ chiaro quindi che, rispetto all’esperienza di Grosseto, esistono modelli alternativi di Codice Rosa che sostengono il processo di uscita dalla violenza e danno alla donna strumenti da utilizzare in prima persona (ma anche con il sostegno dei centri) nell’attraversare il mondo giudiziario (civilistico e penalistico) e che le rafforzino nella loro credibilità.
Va quindi criticato non il codice rosa in sé ma il codice rosa bianca di Grosseto, assunto a modello nazionale, e va invece proposto un altro modello di percorso rosa che rispetti la Convenzione di Istanbul e serva a rafforzare i percorsi di uscita delle donne dalla violenza.
Va da sé, in conclusione, che i centri anti-violenza non solo gli unici oggi a praticare la lotta alla violenza di genere: è necessario che essi riconoscano i partner nelle altre istituzioni e sappiano criticare le prassi istituzionali quando queste debordano da principi comuni. La convenzione di Istanbul impone allo stato di intervenire: lo stato e le istituzioni, comprese quelle sanitarie, devono usare le procedure corrette al loro interno (diagnosi, prognosi e referti corretti), saper modificare le loro prassi per andare incontro alle varie esigenze di violenza e saper lavorare in rete. Nessuno da solo ce la può fare, perché il problema della violenza attraversa tutti i settori della nostra società.

venerdì 11 dicembre 2015

Violenza contro le donne: perché i Centri Antiviolenza bocciano l'emendamento Giuliani sui codici rosa

Da giorni i centri antiviolenza italiani stanno contestando l'emendamento Giuliani alla legge di Stabilità che vorrebbe introdurre il cosiddetto Codice Rosa in ogni ospedale italiano. E' stato anche lanciato un appello firmato da D.i.Re,  Udi, LeNove, Ferite a morte, Casa Internazionale delle Donne, Telefono Rosa, Fondazione Pangea, e Be Free per chiedere il ritiro delle firme dei deputati e delle deputate all'emendamento. 
Il Codice Rosa è un percorso attivato nel 2010 all'Ausl di Grosseto, eppoi esteso nel 2014 in tutta la Toscana, che prevede percorsi rigidi nel caso una donna si rivolga al pronto soccorso a causa delle violenze. L'emendamento prevede "l'istituzione di un Gruppo interdisciplinare coordinato tra le procure della Repubblica, le regioni e le Aziende Sanitarie locali (ASL) finalizzato a fornire assistenza giudiziaria e sanitaria riguardo ad ogni aspetto legato alla violenza o all'abuso" e  anche "l'istituzione di un Coordinamento di Gruppi presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri, con il Ministro della Giustizia, il Ministro dell'Interno e il Ministro della Salute". In parte è fuffa perché ci sono già leggi che prevedono la procedibilità d'ufficio rispetto a determinati reati e in parte è pericoloso perché espone le donne a rischi. L'emendamento punta a rafforzare l'azione penale in tutto il Paese senza preoccuparsi che ci siano  in ogni territorio dove verrà applicato, luoghi idonei  che  possano accogliere le donne con i loro figli, come le  Case Rifugio. L'emendamento non si preoccupa nemmeno che  esistano reti collaudate tra centri antiviolenza e istituzioni che agevolino i difficili percorsi di uscita dalla violenza e che sostengano le donne per il tempo necessario a costruire una autonomia economica o ad individuare altre risorse. 
La denuncia penale, si stenta a capirlo, non è lo strumento principe con il quale affrontare il problema della violenza e da solo non mette al sicuro le donne. Le associazioni che hanno lanciato l'appello contestano fra l'altro un testo che ritiene le donne vittime di violenza: appartenenti a fasce di soggetti vulnerabili che possono facilmente essere psicologicamente dipendenti e per questo vittime dell'altrui violenza". Sparisce completamente una lettura di genere del fenomeno della violenza maschile anche in violazione di quanto dice la Convenzione di Istanbul. Non è certo la dipendenza affettiva delle donne, ammesso che in ogni caso di violenza ci sia davvero  quel problema,  a commettere stupri, stalking e femminicidi ma la violenza maschile. Quando il governo ci stupirà positivamente occupandosi di sostegno all'autonomia economica delle donne e del rispetto delle direttive europee che vorrebbero 5700 posti letto per le vittime di violenza invece delle attuali 500? E quando finalmente si lanceranno programmi nelle scuole, nei licei, nelle università per occuparsi della prevenzione della violenza?
@nadiesdaa