giovedì 25 aprile 2019

Il 25 aprile festa della libertà ritrovata. Non perdiamo coscienza che la dobbiamo sempre difendere

di Liliana Segre • Per me il 25 aprile del 1945 non fu il giorno della Liberazione. Non poteva esserlo perché io quel giorno ero ancora prigioniera nel piccolo campo di Malchow, nel Nord della Germania. C’era un grande nervosismo da parte dei nostri aguzzini, ma non sapevamo nulla di quel che accadeva in Europa. A darci qualche notizia furono dei giovani francesi prigionieri di guerra mentre passavano davanti al filo spinato. «Non morite adesso!», scongiurarono alla vista delle disgraziate ombre che eravamo.


«Tenete duro. La guerra sta per finire. E i tedeschi stanno perdendo sui due fronti: quello occidentale con gli americani e quello orientale con i russi». Nelle ultime ore da prigioniere assistemmo alla storia che cambiava. Fuori dal lager ci costrinsero all’ennesima orribile marcia ma niente era uguale a prima. La mia personale festa di liberazione fu quando vidi il comandante del campo mettersi in abiti civili e buttare a terra la sua pistola. Era un uomo terribile, crudele, che a ogni occasione picchiava selvaggiamente le prigioniere. La vendetta mi parve a portata di mano, ma scelsi di non raccogliere quell’arma. All’improvviso realizzai che io non avrei mai potuto uccidere nessuno e questa era la grande differenza tra me e il mio carnefice. Fu in quel momento che mi sentii libera, finalmente in pace.
Il 25 aprile del 1945 fu quindi un’esplosione di gioia che mi sarebbe arrivata più tardi filtrata dai racconti di amici e famigliari. Avevo avuto bisogno di una tregua prima di tornare in Italia. E dovevo guarire da troppe ferite per riuscire a fare festa insieme agli altri. Ero stata ridotta a un numero, costretta a vivere in un mondo nemico e costantemente con il male altrui davanti a me, come diceva Primo Levi. Ci vollero anni perché riscoprissi il sentimento della felicità collettiva.
Poi quel momento è arrivato. E il 25 aprile è diventata una festa famigliare, la festa della libertà ritrovata. Simboleggiava la caduta definitiva del nazifascismo e la liberazione. E rendeva omaggio al sacrificio di partigiani e militari, ai resistenti senz’armi, ai perseguitati politici e razziali. Era la festa del popolo italiano ma anche una festa celebrata in famiglia insieme a mio marito Alfredo, che era stato un internato militare in Germania per aver detto no alla Rsi. Avevamo patito entrambi la privazione della libertà e potevamo capire il significato profondo di quella data che poneva le fondamenta della democrazia e della carta costituzionale. Ogni 25 aprile sventolavamo idealmente la nostra bandiera.
Non ho mai smesso di sventolare quella bandiera. E ancora oggi mi ostino a spiegare ai ragazzi perché è una festa fondamentale. Ma è sempre più difficile combattere con i vuoti di memoria. Solo se si studia la storia si comprende cosa è stato il depauperamento mentale di masse di italiani e tedeschi indottrinate dai totalitarismi fascista e nazista. Bisogna raccontare alle giovani generazioni cos’è stata la dittatura, soprattutto ora che il saluto romano non stupisce più nessuno. Mi chiedo se a una parte della politica non convenga questa diffusa ignoranza della storia. Chi ignora il passato è più facilmente plasmabile e non oppone “resistenza”.
In anni non lontani, c’è stato anche chi ha proposto di abolire il 25 aprile dal calendario civile. Temo che prima o poi si arriverà a cancellarlo. Perché il tempo è crudele: livella i ricordi e confonde la memoria, mentre le persone muoiono e le generazioni passano. Qualche anno fa ci siamo illusi che intorno a questa data fosse stata raggiunta l’unanimità delle forze politiche. Oggi leggo con preoccupazione che alla festa della Liberazione si preferisca una cerimonia di altro genere. Se devo dire la verità, rimango esterrefatta. In tarda età assisto a degli atti che non avrei mai immaginato di vedere: soprattutto avendo vissuto cosa volesse dire essere vittime prima del 25 aprile, quando la democrazia non c’era, e dissidenti e minoranze venivano imprigionati, torturati e anche uccisi.
Così come rimango tristemente stupita di fronte alla cancellazione della prova di storia alla maturità. La mancanza di memoria può portare a episodi come quello che ha coinvolto pochi giorni fa un istituto alberghiero di Venezia. Un insegnante su Facebook ha offeso la Costituzione con parole che preferisco non ripetere. E si è augurato che Liliana Segre finisca in «un simpatico termovalorizzatore». Questa non l’avevo ancora sentita: probabilmente il «simpatico termovalorizzatore » è la forma aggiornata del forno crematorio.
Preferisco però concentrarmi sui moltissimi italiani che mi vogliono bene. E insieme ai quali festeggerò il 25 aprile, un rito laico che continua a emozionarmi. E a portarmi via con sé. Perché la libertà è una condizione assoluta, irrinunciabile. E non importa se qualche ministro resterà a casa. Sono sicura che domani saremo in tanti a provare la stessa emozione civile. Buon 25 aprile a tutti.
Fonte: Il 25 aprile, la mia nuova Resistenza 

martedì 2 aprile 2019

Il Congresso delle Famiglie a Verona, le donne, gli oppressi

di Giuliana Nuvoli • Il Palazzo dei Congressi, a Verona, ha chiuso i battenti; le camionette della polizia e dei carabinieri si sono allontanate; i turisti sono tornati i signori di piazza dell’Arena. La tre giorni del Congresso delle famiglie ha lasciato strascichi fastidiosi e un profondo senso di disagio. Per molti motivi: una informazione superficiale; una moltitudine di racconti viziati; concetti arbitrariamente deformati; linguaggi impropri, offensivi e inopportuni.

In primo luogo è falso che vi siano state due diverse visioni del mondo e della famiglia a confronto: una delle due parti condannava l’altra, senza alcuna forma di comprensione o di rispetto. Se non sei come me andrai all’Inferno: la diversità non era contemplata. E la zona laica, dove ogni credenza è accettata e dove tutti sono dialoganti alla pari; quella zona laica, che dovrebbe coprire l’intero globo terracqueo, semplicemente non esisteva.
L’ ”Avvenire” ha pubblicato queste parole: “Se la questione famiglia è diventata divisiva […] è evidente che qualcuno ha sbagliato a dosare toni e parole, non ha avuto cura di costruire alleanze di pace ma solo piani di battaglia […] privilegiando scelte oltranziste ed estremiste”. Le scelte oltranziste ed estremiste di cui parla non appartengono solo a questo Congresso: sono un’ombra nera che sta prendendo corpo in modo consistente nei cinque continenti, e con modalità disparate. Due macro-sistemi sono entrati in crisi: il potere patriarcale e il capitalismo. E stanno arrivando i colpi di coda del dragone che muore: velenosi, violenti, disperati. E la disperazione è, non di rado, letale.


A Verona la vera novità è stata la forza del “trans-femminismo”, che ha visto la presenza di attiviste dalla Croazia, dalla Polonia, dall’Argentina, e da altri paesi ancora, che hanno sfilato sabato con almeno 100.000 persone, e che si sono riunite in assemblea domenica, per tirare le somme di tre giorni di dibattiti, in cui ricercatrici da Berlino, Belgrado, Varsavia e Parigi, hanno tenuto panel di discussioni non solo di stampo femminista. 

La liberazione del genere femminile (ancora lontana!) è la liberazione di tutti gli oppressi. E saranno le donne a compiere questa trasformazione necessaria per la sopravvivenza del genere umano: e lo dico con serena certezza e senza retorica, ormai da decenni.
I penosi tentativi di chi ha cercato di bollare la manifestazione di sabato come “presenza di femministe pagate” e “turismo organizzato” (parlo del ministro Salvini) non possono intaccare in alcun modo la bellezza e l’intensità di quella festa. C’era un sole caldo e una Verona festante. Dal giorno precedente polizia e carabinieri presidiavano il Palazzo dei Congressi; alle 14 la piazza era stata chiusa per l’arrivo di esponenti di governo e di leader politici. Poco importava: il corteo avrebbe percorso un’altra strada, partendo dalla stazione di Porta Nuova. Eravamo una marea, che si muoveva fra gli applausi e i sorrisi della gente sui marciapiedi; chi era alle finestre cantava e ballava; e bambini, disabili in carrozzina, coppie anziane, studenti dei due sessi, signore composte dal passo deciso seguivano le ragazze (venti? trenta?)  variamente dipinte che, danzando, aprivano il corteo.
E il corteo era composto da decine di migliaia di persone che erano società civile, lì, sotto il sole, a difendere i diritti di tutti. Di ogni singolo individuo perché potesse essere ciò che desiderava, nelle modalità che gli erano necessarie e nel territorio di sua appartenenza.
Nel pomeriggio di domenica c’è stato il corteo dei sostenitori del Congresso: molto meno numeroso e certo non altrettanto ben accolto dai cittadini. 
E’ questo che conforta: dietro le finestre abbiamo visto una città che pareva svegliarsi dal torpore di provincia benestante, per aprirsi su un mondo dove tutti abbiano spazio e accoglienza.
“Non una di meno. Insieme siam venute, insieme torneremo”. Le donne sapranno cambiare il mondo. Tutte, insieme. Perché tutti possano avere una vita vera, insieme.
Giuliana Nuvoli