sabato 31 dicembre 2016

La conaca di violenza contro le donne sui giornali: il Consiglio Nazionale dell'Ordine dei Giornalisti si muove

Che linguaggio usare? come riportare obiettivamente e correttamente le notizie di violenza contro le donne? Ci sono voluti quasi 5 anni, ma finalmente, anche in Italia, il Consiglio Nazionale dell'Ordine dei Giornalisti ha fatto proprie e condiviso le Linee Guida della Federazione Internazionale dei Giornalisti (IFJ Guidelines for Reporting on Violence against Women).


Un documento a sua volta ispirato alla Dichiarazione dell'Onu sull'eliminazione della violenza contro le donne che risale nientemeno che al 1993. Altri 20 anni ci vollero per la Convenzione del Consiglio d'Europa sulla prevenzione e lotta alla violenza contro le donne e alla violenza domestica (o Convenzione di Istanbul, del 2013). Sulla carta, benché dopo infinite lotte e attese di secoli, i progressi si ottengono, ma perché poi, nella pratica, tutto questo progresso tende a restare lettera morta? perché le resistenze alla parità sono altissime; e per la stessa ragione si assiste a continue recrudescenze di quella mentalità maschilista, tesa a ricacciare le donne in un ruolo subalterno e bloccato, che è anche all'origine della violenza stessa.
Sappiamo bene come la narrazione sia in gran parte terreno della realtà che viviamo. Ed ecco in breve come viene narrata la violenza sui media:

L'adozione di questo documento è dunque un nuovo passo non trascurabile. Ne manca un altro: in tutto il farraginoso sistema degli "aggiornamenti" obbligatori per il giornalisti, inserire qualcosa di obbligatorio, e di serio, su questo tema. Per non parlare di eventuali sanzioni in caso di comportamenti inaccettabili: in questi casi, l'Ordine dei Giornalisti che fa??? al momento un bel niente, praticamente.

Ma partiamo da qui; come scrive il Consiglio Nazionale dell'Ordine dei Giornalisti stesso, il documento richiama i giornalisti all'uso di un linguaggio corretto, cioè rispettoso della persona, scevro da pregiudizi e stereotipi, ad una informazione precisa e utile alla comprensione delle vicende e della loro dimensione sociale: adottando nei casi di femminicidio anche il punto di vista delle vittime (anziché centrarlo sulla personalità dell'omicida) e salvaguardando la loro privacy; fornendo dati e pareri di esperti utili a collocare gli atti di violenza nel loro contesto storico e culturale, contro la convinzione che "la violenza sulle donne sia una tragedia inesplicabile e irrisolvibile".

Riportare notizie sulla violenza: Linee Guida della Federazione Internazionale dei Giornalisti
1. Identificare la violenza inflitta alla donna in modo preciso attraverso la definizione internazionale contenuta nella Dichiarazione delle Nazioni Unite del 1993 sull'eliminazione della violenza nei confronti delle donne. 

2. Utilizzare un linguaggio esatto e libero da pregiudizi. Per esempio, uno stupro o un tentato stupro non possono venire assimilati a una normale relazione sessuale; il traffico di donne non va confuso con la prostituzione. I giornalisti dovranno riflettere sul grado di dettagli che desiderano rivelare. L'eccesso di dettagli rischia di far precipitare il reportage nel sensazionalismo. Così come l'assenza di dettagli rischia di ridurre o banalizzare la gravità della situazione. Evitare di suggerire che la sopravvissuta è colpevole o che è stata responsabile degli attacchi o degli atti di violenza subiti.

3. Le persone colpite da questo genere di trauma non necessariamente desiderano essere definite "vittime", a meno che non utilizzino esse stesse questa parola. Venir etichettati può infatti far molto male. Un termine più appropriato potrebbe essere "sopravvissuta".

4. La considerazione dei bisogni della sopravvissuta quando la si intervista consente di realizzare un reportage responsabile. Può trattarsi di un dramma sociale. Permettere alla sopravvissuta di essere intervistata da una donna, in un luogo sicuro e riservato, fa parte della considerazione di questo dramma. Si tratta di evitare di esporre le persone intervistate ad abusi ulteriori. Certi comportamenti possono mettere a rischio la loro vita e la loro posizione in seno alla comunità d'appartenenza.

5. Trattare la sopravvissuta con rispetto; rispettando la sua privacy e informandola in maniera completa e dettagliata sugli argomenti che saranno trattati nel corso dell'intervista e sulle modalità d'uso dell'intervista stessa. Le sopravvissute hanno il diritto di rifiutarsi di rispondere alle domande e di divulgare più informazioni di quanto non desiderino. Rendersi disponibile per un contatto ulteriore con la persona intervistata e lasciare le proprie generalità le permetterà di restare in contatto con il/la giornalista se lo vuole o ne ha bisogno.

6. L'uso di statistiche e informazioni sull'ambito sociale permette di collocare la violenza nel proprio contesto, nell’ambito di una comunità o di un conflitto. I lettori e il pubblico devono ricevere un'informazione su larga scala. L’opinione di esperti, come quelli dei DART (Centri post-traumatici), permette di rendere più comprensibile al pubblico l’argomento, fornendo informazioni precise e utili. Ciò contribuirà ad allontanare l'idea che la violenza contro le donne sia una tragedia inesplicabile e irrisolvibile.

7. Raccontare la vicenda per intero: a volte i media isolano incidenti specifici e si concentrano sul loro aspetto tragico. La violenza potrebbe inscriversi in un problema sociale ricorrente, in un conflitto armato o nella storia d'una comunità.

8. Preservare la riservatezza: fra i doveri deontologici dei giornalisti c'è la responsabilità etica di non citare i nomi e non identificare i luoghi la cui indicazione potrebbe mettere a rischio la sicurezza e la serenità delle sopravvissute e dei loro testimoni. Una posta particolarmente importante allorché i responsabili della violenza sono forze dell'ordine, forze armate impegnate in un conflitto, funzionari di uno stato o d'un governo o infine membri di organizzazioni potenti.

9. Utilizzare le fonti locali. I media che assumono informazioni da esperti, da organizzazioni di donne o territoriali su quali possano essere le migliori tecniche d'intervista, le domande opportune e le regole del posto, otterranno buoni risultati ed eviteranno situazioni imbarazzanti o ostili; come accade quando un cameraman o un giornalista s'introducano in spazi privati o riservati senza alcuna autorizzazione. Da qui l'utilità d'informarsi precedentemente su costumi e contesti culturali locali.

10. Fornire informazioni utili: un reportage che citi i recapiti di  persone qualificate da contattare, così come le generalità delle organizzazioni e dei servizi d'assistenza, sarà d’aiuto fondamentale alle sopravvissute, ai testimoni e ai loro familiari, ma anche a tutte le altre persone che potranno venire colpite da un'analoga violenza.


sabato 17 dicembre 2016

Sugli attacchi a Valeria Fedeli

Scrive Luciana Castellina: Io non so come siano andate le cose per quanto riguarda i titoli di studio di Valeria Fedeli. Penso si sia probabilmente trattato di definizioni imprecise che spesso vengono date ai diplomi da scuole o corsi anomali come quello che Valeria ha frequentato a suo tempo a Milano. E che dunque non ci sia stato, da parte sua, alcun dolo nel recepire quel documento.


Per la cronaca, il linciaggio mediatico di omofobi che contesta alla Fedeli di non aver conseguito nemmeno il diploma di istruzione secondaria superiore, gioca in modo sporco sulle terminologie: avendo lei infatti conseguito il diploma di abilitazione all'insegnamento nelle scuole materne, titolo magistrale istituito negli ordinamenti di studio italiani di scuole o istituti magistrali di durata triennale vigenti fino al 1997. Tale titolo magistrale (che (nel previgente ordinamento dava accesso alla formazione per le professioni sanitarie, sociali ed educative, come alle scuole per infermieri, assistenti sociali e educatori professionali) è infatti riconosciuto in Italia di istruzione secondaria superiore, benché allo stato attuale non consenta il proseguimento degli studi universitari.
A prescindere da tutto questo, da parte nostra ci troviamo perfettamente d'accordo con quanto scrive ancora la Castellina: Sono però scandalizzata per il dibattito che ne è seguito, segno – questo sì davvero – del regresso civile e politico del nostro paese, purtroppo anche di qualche pezzo della sua sinistra. Ma come sarebbe: parlamentari e ministri devono essere tutti laureati? E cioè la rappresentanza politica dovrebbe esser circoscritta ai ceti che per tradizione (e generalmente non per merito) hanno completato il curriculum degli studi fino all’ultimo grado? Ma vi rendete conto di cosa c’è dietro questa orrenda polemica? Uno dei vanti dei comunisti, che tutt’ora rivendico, è di aver avuto parlamentari operai e braccianti, che spesso non avevano neppure completato le elementari. Ne ricordo molti. Con rimpianto. In particolare l’ultimo con cui ho parlato (per via di un libro che stavo scrivendo), solo un paio di anni fa, scomparso ormai come quasi tutti: Riccardo Di Corato, senatore e bracciante, protagonista di storiche lotte pugliesi.
Valeria Fedeli non appartiene a quella generazione e dunque immagino che di scuole ne abbia frequentate ben più di Riccardo. Ma è scandaloso che si sia sviluppata una campagna come quella che infuria ora sui giornali, col contributo anche di qualcuno che così pensa di attaccare il governo.
Ma  Fedeli – immagino l’obiezione – non è solo parlamentare, è Ministro proprio dell’Istruzione, che ha dunque competenza sull’Università di cui non può occuparsi visto che non l’ha frequentata. Ebbene, proprio questo a me pare un dato positivo: mi piace pensare che sulla formazione universitaria venga rivolto finalmente lo sguardo di chi ne è stato escluso. In un tempo in cui il valore della competitività a tutti i costi sta diventando il valore centrale del nostro sistema, e si vorrebbero trasformare ovunque le università – secondo l’orribile modello britannico – in macchine per selezionare una élite prestigiosa (e privilegiata), lasciando che gli altri si arrangino e vengano via via marginalizzati, ben venga chi per propria storia terrà conto che quel che serve è l’inclusione. Che, cioè, un buon sistema educativo è quello che tiene conto dell’ultimo e non solo del primo. (La mia, sia chiaro, non è la difesa di questo governo, né delle posizioni politiche di Valeria Fedeli, compagna con cui in passato ho persino condiviso un partito, ma da cui oggi sono politicamente assai distante. La mia è rabbia per il tipo di posizioni che sono emerse attorno alla vicenda dei suoi titoli di studio). [Fonte: "A proposito della ministra Valeria Fedeli", Il Manifesto del 16/12/2106]

L'esperienza delle donne è che Valeria Fedeli sia una persona seria, equilibrata e preparata, politicamente e giuridicamente; quasi un'eccezione, in un panorama di politici totalmente analfabeti sulle questioni più banali. Come scrive Valentina Santarpia sul Corrierein realtà la ministra è stata presa di mira in particolare per il suo curriculum dagli organizzatori del Family Day per la sua militanza femminista e la sua lotta alle discriminazioni di genere. La Fedeli intanto ha commentato: «Va bene sostenere i migliori ma mai dimenticarsi di chi non ha avuto le condizioni per poter partecipare e studiare fino al percorso universitario». Alla sua prima uscita pubblica da ministra per l’inaugurazione della nuova residenza per studenti fuori sede dell’università Lumsa di Roma, ha risposto implicitamente così agli attacchi che le erano stati rivolti. «Credo che il diritto allo studio sia la chiave indispensabile per moltiplicare il benessere creativo e intellettuale, per rendere la società inclusiva. Affronterò con umiltà e dedizione il mio nuovo incarico, mettendo testa e cuore e pensando sempre agli studenti e alle attese delle loro famiglie. Obiettivo importante del mio mandato sarà innovare senza escludere, ascoltare e dialogare senza urlare, procedere senza dividere».

Ci auguriamo che la ministra abbia modo di dimostrare le sue capacità nella pratica, potendo svolgere il mandato che le è stato affidato, e che pensiamo sia perfettamente in grado di rispettare.
Questa disgustosa storia, aggiungiamo, assomiglia troppo al disgustoso fuoco incrociato che colpì la ministra Josefa Idem non appena fu presentato il suo ottimo progetto di lavoro per le donne,  e che l'abbatté prima ancora che potesse muovere un passo. Con il solito metodo da sempre efficace contro le donne: quello dei 2 pesi e 2 misure.
Lasciandoci, da allora e come sempre, SENZA un ministero né una ministra per le Pari Opportunità.

domenica 11 dicembre 2016

Uccisa da un raptus? No, da un uomo. Lettera all’ordine dei giornalisti

L’ultimo rapporto di monitoraggio mondiale dei media GMMP2015 (Gender Media Monitoring Project), registrando la preoccupante persistenza del sessismo (e di conseguenza di modalità sessiste nel rappresentare le notizie), nel giornalismo e negli organi di stampa di ogni Paese, raccomanda di tracciare politiche e pratiche mediatiche tese a promuovere una comunicazione più gender-equal.


Cioè egualitaria, più aderente alla realtà dei fatti, più attenta alla rappresentazione e alla rappresentanza femminile. Un invito raccolto dalla WACC (Associazione mondiale per la comunicazione cristiana) che, proprio il 10 dicembre, nella Giornata internazionale dei diritti umani (nonché giornata conclusiva dei "16 giorni per vincere la violenza contro le donne”) lancia una campagna per l’eliminazione del sessismo nei media entro il 2020. Contemporaneamente, in Italia, per iniziativa delle attiviste di Rebel Network, parte una lettera sul tema rivolta all’Ordine dei Giornalisti; ecco il testo:
Le Attiviste di Rebel Network chiedono all’Ordine Nazionale dei Giornalisti di intervenire con una potente azione di moral suasion affinché nel dare le notizie relative ai femminicidi si abbandonino espressioni fuorvianti e sminuenti della gravità del reato quali “delitto passionale”, “raptus”, “pista sentimentale”, “gelosia”. Questa terminologia induce di fatto a giustificare azioni criminali e violenze reiterate, non solo ostacolando il superamento di una cultura misogina ma rendendosene inconsapevolmente complice. Chiediamo inoltre che l’Ordine inserisca tra i suoi obiettivi prioritari del 2017 la scrittura e ratifica di una “Carta del Rispetto della dignità delle donne”. Una carta che sappia, come la “Carta di Treviso” per i minori (si pensi all’ uso del termine “baby-squillo”), dare indicazioni deontologiche definitive su come rispettare l’immagine e la dignità delle donne. Crediamo che questo documento potrà essere una fondamentale dimostrazione di quanto l’Ordine vorrà contribuire, con tutte le donne e gli uomini di questo Paese, a fare la sua preziosa parte in quel cambiamento culturale necessario e non più rinviabile per contrastare il femminicidio e porre fine alla violenza maschile contro le donne. Rebel Network, con le giornaliste associate, è a disposizione dell’Ordine per eventuali confronti e approfondimenti in merito, nonché per contribuire a giornate formative sul linguaggio e le modalità di comunicazione.

Una lettera che in poche ore ha raccolto oltre 200 firme. A tutte e a tutti raccomandiamo di sostenere questa istanza, su cui da tanti anni le donne si battono senza ottenere risposte. Per i giornalisti, ad esempio, sono previsti corsi obbligatori annuali di aggiornamento: possibile che non contemplino anche qualche aggiornamento obbligatorio sul tema del linguaggio sessista? aggiornamenti che consentano loro di conoscere studi come quelli messi a punto dal GMMP? e che trattino della capacità di rappresentare correttamente la cronaca sulle violenze contro le donne? Una cura non più rimandabile, per una vera #scuoladigiornalismo.


Per consultare i rapporti GMMP 2015: