venerdì 8 dicembre 2017

Libere e differenti davvero, ma anche presenti; è possibile un partito delle donne?

Nel suo post “libere e differenti ma fuori dalle istituzioni e dalla politica?”, che invitiamo a visitare e a commentare, Laura Cima constata che le “alternative” a sinistra restano maschili, e si interroga su come superare un immobilismo politico e femminile in cui ci sentiamo impantanate.

  
Alla domanda: “cari maschi di Liberi e Uguali perché avete escluso le donne?” lei stessa tenta di rispondere:
“perché le amiche delle formazioni che si sono riunite sotto lo stesso tetto almeno fino alle prossime politiche”, scrive, “hanno lasciato i loro leader maschi a guidarle senza fiatare, e questi devono farsi rieleggere per esistere. O sbaglio? Naturalmente (sul Manifesto) Fratoianni cerca di recuperare interloquendo con Norma Rangeri e Nadia Urbinati e, tirando in mezzo Nudm, la Colau e Olympe de Gouge, giura di essere “pronto a fare collettivamente la sua parte”. Ma se lasciamo solo uomini nelle istituzioni, siamo contente che gestiscano tutti i nostri soldi come gli pare e che non facciano mai passare leggi che ci interessano? (…) Almeno recuperiamo la petizione alla Camera dei Comuni nel 1832 d di Mary Smith: ”No taxation without representation”, principio già presente nella Magna Charta (1215) [e molto prima ancora! aggiungiamo noi, sancito nel 42 A.C. dalla storica orazione di Ortensia, cancellata dalla storia, ndr] e facciamo lo sciopero delle tasse. 
Poi valutiamo se iscriverci ai circoli anarchici e lavorare per far cadere lo Stato… Perché il nuovo partito più a sinistra del Pd ci riporta a prima della rivoluzione francese e non ci dice nemmeno come pensa di garantirci almeno l’habeas corpus - visto che, come risponde candidamente un partecipante “il maschile ci include” linguisticamente parlando; ma, gli ho ricordato, in tutto il mondo ci stupra, ci riempie di botte e ci uccide, oltre ad escluderci dalla cittadinanza”.
Il riepilogo che poi fa Laura Cima (a cui di nuovo rimandiamo), sulle lotte femministe degli anni Settanta, dice molto sulla capacità che hanno avuto le donne di cambiare le cose e di essere “protagoniste, nonostante il riflusso, della grande rivoluzione pacifica del Novecento che ha cambiato totalmente costumi e società”.
Ma allora appunto tumultuavano in tutte le scuole e le fabbriche ambiti di aggregazione quotidiana fisica, e non solo virtuale, e ancora non si erano cristallizzate, fra le donne, metodologie di lavoro omologhe a quelle degli uomini, con l’eterno corredo di sabbia negli ingranaggi che producono le relative rivalità.
La semplice e umile proposta fatta dallo strumento della politicafemminile [con l’invito che trovate qui] dal 2013 tenta di introdurre il concetto di un metodo nuovo (come quello abbozzato dalla breve esperienza di lavoro di Josefa Idem, e subito stroncato), senza il quale non si va da nessuna parte.
Il metodo del riconoscersi reciproco e di fare tesoro di tutto il lavoro delle altre donne, anziché ignorarlo (o addirittura svilirlo), in una sorta di coazione a ripetere del silenziare maschile.
Moltissime donne si sono abilitate a scrivere in autonomia e direttamente, su questo strumento orizzontale che si dà il compito di rilanciare tutte, di aiutare a fare girare idee e far conoscere i singoli ambiti di impegno di quelle che sono disposte ad usarlo, ma poi in pochissime lo sfruttano; e questo è solo uno, fra tanti esempi che si potrebbero fare, per non parlare astrattamente.
Tornando a Laura Cima: lei conclude che, poiché le ministre giovani e non, cooptate da Renzi, non hanno di certo migliorato la situazione del nostro paese, del loro partito e neanche di Renzi stesso, “non aspettiamo più nessun Ulisse che ci conduca in un mondo più giusto perché sappiamo che non esiste. E allora cosa aspettiamo a prendere il coraggio che le nostre sorelle nordiche hanno avuto dando vita a Feminist initiative? che donne di movimento come Ada Colau e professioniste affermate come Manuela Carmena, hanno mostrato, assumendosi la responsabilità di guidare le due più grandi città spagnole? visto che non è solo di pari opportunità che abbisogna il nostro paese ma di protagonismo di femministe capaci di guidare processi di cambiamento in Italia”.  
Vero; non solo in Svezia e in Norvegia ci provano, ma anche in Danimarca un partito femminista ha recentemente debuttato, per esempio; servirebbe forse un “partito delle donne” anche in Italia, capace di fare, finalmente, qualcosa di totalmente nuovo. Cosa aspettiamo, chiedi, cara Laura; forse di capire che per fare cose nuove serve anche un nuovo metodo. 
Tutte le donne e le associazioni (e anche questo blog) hanno sostenuto con forza nonunadimeno dal suo primo apparire; ma, anche qui, vediamo il metodo un tantino autistico che appare sempre il solito. Qual è la differenza? molto dialogo con i maschi delle realtà di ultra-sinistra e con l’universo queer, ma nella pratica moltissime donne se ne sentono escluse perché lo trovano impositivo: perché dà la linea
Peraltro, una linea troppo fiduciosa riguardo a posizioni presentate come “libertarie”, su argomenti cruciali come la prostituzione e la GPA, senza sviscerarne i pericoli che al movimento delle donne sono sempre stati chiari (vedi ad esempio gli insegnamenti di Françoise Héritier, saltati a piè pari, come tanti altri della storia del femminismo). 
Per quelle che hanno voglia di avvedersene, benché a nonunadimeno aderiscano in tante, pare che ancora di più si perdano per strada: in mille rivoli di commenti spiegano il perché ma lamentano anche di non  ricevere risposte; invece sarebbe il caso di iniziare a parlare anche di questo. 
Tornando al nocciolo: crediamo serva un metodo inedito capace di declinare una nuova inclusività; che sappia che la determinazione nelle lotte non deve implicare per forza ideologia e violenza, ma anzi il contrario: generosità e tenerezza, parole che ai più fanno ridere. Fa ridere soprattutto quelli che non sanno che il contrario della paura non è il “coraggio”, ma l’amore
Ma chi ha coscienza profonda di come, davvero, si produce la realtà dei fatti (e dunque della Storia e della biologia stessa), non ride; sa anche che - parlando in termini filosofici e perché no, quantistici, la realtà è prodotta da energie sottili molto più complesse di quanto appare in superficie. Le verità invisibili agli occhiE' un'ovvietà che in qualunque situazione di carenza si debba contrapporre quello che manca, e non aggiungere quello che abbonda. E’ in virtù di ciò che i Lepen, i Trump e i trumpettini de noàntri, i salvini meloni & co, sono i perfetti alleati degli estremisti islamici. 
Dunque in un mondo che brucia di calore e di violenza serve alimentare la corrente dell’indulgenza e dell’unione, della cura per ogni più piccola cosa che ha vita nel mondo, azzerare le risse; specie fra chi vuole cambiare. Contrapporre, in positivo, azioni nuove, ma poggiando su questo solido terreno.
Astratto? può darsi; o forse per niente. Si decida qualche donna, che abbia la personalità e la convinzione per farlo, a lanciare un partito al femminile capace di trasmettere questo: senza aspettare nessuno, come invitasse tutte e tutti a una festa chi-c’è-c’è-e-chi-non-c’è-non-c’è - e chissà, forse vedremmo che qualcosa di mai visto può diventare concreto.


mercoledì 6 dicembre 2017

Dedicato a tutti quelli che "la violenza non è di genere"

Se oggi mi suicidio non è per ragioni economiche, ma per rispedire ad Patres le femministe che mi hanno rovinato la vita. 

Dopo 7 anni in cui non succede niente di buono ho deciso di mettere i bastoni fra le ruote a queste viragoAnche se i media mi definiranno uno ‘sparatore folle’, mi ritengo invece una persona razionale ed erudita, che solo la forza della Morte ha costretto a intraprendere atti estremi. E dato che, scienza a parte, sono per natura un conservatore, le femministe hanno da sempre la speciale facoltà di farmi infuriare. Mentre pretendono di mantenere i vantaggi che derivano dall’essere donne (come assicurazioni più economiche, o il diritto a una lunga maternità preceduta da una lunga aspettativa) cercano anche di arraffare quelli degli uomini. Per esempio, è ovvio che se si eliminasse la distinzione maschile/femminile alle Olimpiadi, non ci sarebbero più donne, salvo che negli eventi decorativi. Perciò si guardano bene dal cercare di rimuovere quella barriera. Sono talmente opportuniste che non trascurano certo di trarre vantaggio dalle conoscenze accumulate dagli uomini attraverso i secoli. E ogni volta che possono cercano sempre di rappresentarli negativamente. (dalla dichiarazione suicida di Marc Lépine)

6 dicembre 1989: il tizio di cui sopra, di 25 anni, irrompe armato di legale carabina nel Polytechnique di Montreal; un bel ragazzo; una faccia da bravo ragazzo. Separa i maschi dalle femmine e inizia la fucilazione di massa delle colpevoli: donne che hanno osato iscriversi alle facoltà di ingegneria. Prima della fucilazione, la sentenza: “siete femministe, e io odio le femministe”; e falciò 27 ragazze. Quattordici persero la vita; erano:
Geneviève Bergeron (nata nel 1968), facoltà di Ingegneria civile;
Hélène Colgan (nata nel 1966), facoltà di Ingegneria meccanica;
Nathalie Croteau (nata nel 1966), facoltà di Ingegneria meccanica;
Barbara Daigneault (nata nel 1967), facoltà di Ingegneria meccanica;
Anne-Marie Edward (nata nel 1968), facoltà di Ingegneria chimica;
Maud Haviernick (nata nel 1960), facoltà di Ingegneria dei materiali;
Barbara Klucznik-Widajewicz (nata nel 1958), scuola infermieristica;
Maryse Leclair (nata nel 1966), facoltà di Ingegneria dei materiali;
Anne-Marie Lemay (nata nel 1967), facoltà di Ingegneria meccanica;
Sonia Pelletier (nata nel 1961), facoltà di Ingegneria meccanica;
Michèle Richard (nata nel 1968), facoltà di Ingegneria dei materiali;
Annie St-Arneault (nata nel 966), facoltà di Ingegneria meccanica;
Annie Turcotte (nata nel 1969), facoltà di Ingegneria dei materiali.

Poi il maschio giustiziere si spara a sua volta. In tasca ha la dichiarazione di cui sopra, con un allegato: una lista di 19 donne colpevoli di aver intaccato, con i loro successi, il legittimo rango maschile. 
Le superstiti si laurearono, battendosi da quel momento contro il sessismo e gli stereotipi. Successivamente al massacro, le iscrizioni femminili alla facoltà di Ingegneria crebbero rapidamente dal 13% al 19%.

Dedicato a tutti quelli che “la violenza è una sola”, la violenza “non è di genere”, “esiste anche la violenza delle donne contro gli uomini”.

A questa tremenda vicenda Denis Villeneuve dedicò il film "Politechnique". L'autore della recensione che trovate QUI conclude così: 
Consiglio la visione del film a un pubblico rigorosamente maschile. Parla di noi. Non sono cose belle.
Anzi, sono cose che mi fanno vergognare, che mi fanno male, perché le grandi tragedie sono figlie delle piccole concessioni: "Ma si! Scherziamo sui gay! Ma certo! Le donne? Cazzi e cazzotti! I negri? A casa loro!” Affidatevi alle ruspe, all’odio dei frustrati. Un giorno qualcuno dirà che siete voi "il problema”. Un giorno riceverete l’odio che avete seminato, l’indifferenza che avete propagandato, e nessuno vi piangerà.





venerdì 1 dicembre 2017

Invidia del pene? no, dell'utero. La vera origine del dominio maschile

Ricordando Françoise Héritier, scomparsa in questi giorni dopo una lunga vita di studi
Se non tutte, davvero in tante crediamo che le donne, fin da bambine e ovunque, non si siano mai sognate di avere alcuna “invidia del pene”. Semmai, con buona pace di Freud, la cosa che le femmine umane da sempre “Invidiano” ai loro maschi è la libertà, con l’autodeterminazione che ne deriva. Quindi nulla che esista nel corpo e in natura, ma solo nella sovrastruttura: quella imposta nelle società umane dal dominio maschile. 
Ma il mito dell'invidia del pene è, appunto, parte di quella narrazione maschile che da sempre ci spiega come stanno le cose. Infinitamente più recente è l'emergere di un punto di vista integrato da quello femminile, nonché della coscienza che negli uomini esista “l’invidia dell’utero”. Coscienza che peraltro fatica a farsi strada e viene contrastata, forse perché è proprio questo il vero fattore all’origine della suddetta sovrastruttura di dominio. 
Una delle pensatrici che meglio ha illuminato questa relazione è l’antropologa Françoise Héritier. 


Ho più volte proposto di inserire nei programmi scolastici l'insegnamento dell’antropologia. C’è ancora chi crede che questa disciplina studi popoli esotici e sia rivolta al passato; invece essa parla proprio al presente. Conoscere le regole e i meccanismi attraverso cui si costituiscono le società è importante quanto sapere che la terra gira intorno al sole. (F. Héritier)

Allieva di Claude Lévi-Strauss e, dopo di lui, direttrice del Laboratoire d'anthropologie sociale del Collège de France, aveva messo il dominio maschile al centro delle sue ricerche, focalizzando proprio nella paura e nell’invidia del potere generativo femminile l’ossessione degli uomini, fin dai tempi più antichi, a sottomettere e possedere il corpo delle donne. 
Il suo lavoro era naturalmente sfociato in un attivismo femminista e sempre al fianco delle battaglie omosessuali, incluse quelle per il diritto all'adozione per le coppie omosessuali, e per la procreazione medicalmente assistita. Pur respingendo la pratica dell’utero in affitto a causa del relativo corollario di rischi di (ulteriore) mercificazione del corpo delle donne.  
A chi non avesse avuto finora la fortuna di incontrarla e conoscerne il pensiero, suggeriamo alcuni libri tradotti anche in italiano:

domenica 26 novembre 2017

26 novembre 2017: le donne nuovamente in assemblea nazionale #nonunadimeno

Dopo la grande manifestazione di ieri, le donne si riuniscono nuovamente a Roma in assemblea nazionale: per fare il punto e discutere il piano contro la violenza maschile. Se non potete esserci, potete però seguire la diretta degli interventi! li trovate qui.



Crediamoci, partecipiamo... crediamo l'una all'altra, riconosciamoci. Sosteniamoci a vicenda!


sabato 25 novembre 2017

25 Novembre tutti i giorni: contro la violenza maschile

Torna il #25Novembre. Anche chi di attenzione non ne presta mai, in questi giorni un pochino si sveglia. E' costretto a sentire, guardare, a volte a partecipare.
h. 14,00 Piazza della Repubblica a Roma: corteo nazionale e piano contro la violenza #nonunadimeno
h. 10,30 al teatro la Fenice di Venezia: presentazione del #ManifestodiVenezia
Restituiamo senso alle parole: appello.
Aula di Montecitorio aperta a sole donne; in 1300 da tutta Italia.
Rapporto Eures 2017 sui femminicidi.



venerdì 13 ottobre 2017

Le parole hanno un sesso?

di Se non ora, quando? Lodi • Abbiamo letto questo articolo, interessante ma che ci trova in disaccordo: "la manomissione delle parole manomette l'identità di una donna?"

Non ci trova d'accordo  la contrapposizione fuorviante che suggerisce. Infatti quella per il linguaggio rispettoso del genere è una battaglia che non preclude quella per il rispetto e la dignità della donna 'persona'. Ancora una volta pare si affermi (politicamente corretto??) che noi donne possiamo essere 'digerite' solo nel momento in cui accettiamo i ruoli che la società 'patriarcale' ha cucito con i nostri corpi e le nostre menti. Forse ancora non è chiaro che non si tratta di questioni politicamente e grammaticalmente corrette, ma di potere.
Vogliamo ricordare che il prossimo 25 novembre sarà presentato il 'Manifesto di Venezia' che nasce dalla collaborazione anche di Cpo Usigrai e GiULiA Giornaliste su proposta del Sindacato dei Giornalisti Veneto, aperto alle adesioni di tutte/i i/le giornaliste e giornalisti. Al punto 3 recita: adottare un linguaggio declinato al femminile per i ruoli professionali e le cariche istituzionali ricoperti dalle donne e riconoscerle nella loro dimensione professionale, sociale, culturale.
Inoltre fa specie quando una giornalista sottovaluta il potere della parola. E non è neppure a conoscenza del fatto che la corretta applicazione dell'uso dei generi previsto dalla lingua italiana (come per operaia e infermiera) è sostenuto tramite i corsi di aggiornamento professionale anche dall'Ordine dei giornalisti (quello della Lombardia ha inviato a tutti gli iscritti anche un piccolo vocabolario): siamo già penalizzate dal neutro inclusivo al maschile, applichiamo almeno la grammatica base!
Secondo la logica dell'articolo dovremmo riprendere a dare del negro ai neri o agli afroamericani perché il politicamente corretto è solo un contentino ma il razzismo esiste ancora, o delle serve alle collaboratrici domestiche non riconoscendo la dignità del loro lavoro.
E’ importante declinare al femminile le professioni più remunerate e gratificate socialmente per orientare le giovani donne a credere di poter essere non solo operaie commesse maestre o contadine, ma anche sindache ministre assessore avvocate, senza dover essere viste come uomini! Le parole hanno un valore fortemente simbolico ed aiutano le nuove generazioni a immaginarsi un mondo in cui ci potranno essere tante primarie di qualche reparto ospedaliero.
Tutto questo era già stato scritto 30 anni fa da Alma Sabatini per il Governo nelle Raccomandazioni per un uso non sessista della lingua italiana, rimaste inapplicate perché per i politici, come per alcuni giornalisti/e, il corretto uso del linguaggio e della grammatica è un optional... proprio come il rispetto per le donne. Chissà a che punto saremmo oggi nell'emancipazione femminile e nel contrasto al patriarcato, se fossero state subito applicate. A partire da chi lavora tutti i giorni con le parole.
Seguite, se volete, la discussione su facebook.

giovedì 12 ottobre 2017

Solidarietà ad Asia Argento e un memo ai giudicanti

A tutti quelli che attaccano le donne che denunciano molestie e violenze: è colpa di persone come voi se le donne hanno paura di parlare. Risultato che precisamente si prefiggono i misogini conclamati.
Ma ci chiediamo come venga in mente a persone adulte senza ambizioni machiste, addirittura donne, come una stilista affermata o una che è anche una trans che potremmo definire “di successo”, di puntare l'indice contro altre donne con frasi tipo “se ti vesti in un certo modo forse stai dicendo che è quello che vuoi”, e “avresti dovuto dire no, un semplice no”. Semplice?? 
Really?  
Molti uomini e peggio ancora alcune donne, questi adulti giudicanti puntano il fallico e imperdonabile ditino del patriarcato più tossico contro delle ragazzine. Perché, allora, erano tutte giovanissime le attrici che oggi denunciano questa storia di marce consuetudini (che non ammorbano solo lo star system ma tutti gli ambienti).
A modo suo Asia aveva già denunciato narrando in un film, già 17 anni fa (solo 3 anni dopo il fatto), quello che non aveva saputo e potuto denunciare esplicitamente.


In quella scena c'era un messaggio chiaro non solo al colpevole, che l'ha riconosciuto, ma a un mondo intero, che in genere glissa. Cose che succedono, si sa. D'altronde, se ti vesti in un certo modo... se invece di tirargli uno schiaffone stai lì impalata... la vera colpevole sei tu, no? 



Ora che il segreto di Pulcinella viene a galla, ora che anche Asia, e le altre, sono donne abbastanza forti da non avere paura di parlare, si vergognino quelli che questi messaggi non raccolgono mai, per inciso. Anche dopo tanto tempo, da adulte e ormai affermate, il loro venire allo scoperto richiede ancora coraggio; come dimostrano i violenti attacchi che ora stanno subendo. 
A quelli che oggi dicono “denunciare dopo 20 anni è vigliacco, sei complice” si può rispondere solo: no, i complici siete voi, sempre. Complici degli sponsor instancabili della cultura dello stupro; perché le ex-ragazzine che denunciano adesso sono troie-vigliacche. Se avessero denunciato allora sarebbero state troie-in-cerca-di-visibilità, non è vero?








venerdì 6 ottobre 2017

Manifesto di Venezia. Per una informazione paritaria

Riportiamo di seguito il testo del Manifesto di Venezia, varato in vista del prossimo 25 Novembre; invitando ad aderire, e dando anche un suggerimento: per una corretta informazione cambiamo [anche] immagini! basta lividi per favore.
nb: l'immagine sopra è uno screenshot (da noi corretto con la frase sulla foto) della notizia sul sito della Federazione Giornalisti; che però (purtroppo) riporta l'ennesima foto di donna terrorizzata (o piena di lividi).

La violenza di genere è una violazione dei diritti umani tra le più diffuse al mondo: lo dichiara la Convenzione di Istanbul, approvata dal Comitato dei Ministri del Consiglio d'Europa nel 2011 e recepita dall’Italia nel 2013, che condanna «ogni forma di violenza sulle donne e la violenza domestica» e riconosce come il raggiungimento dell’uguaglianza sia un elemento chiave per prevenire la violenza. 

Sistematica, trasversale, specifica, culturalmente radicata, un fenomeno endemico: i dati lo confermano in ogni Paese, Italia compresa. La violenza di genere non è un problema delle donne e non solo alle donne spetta occuparsene, discuterne, trovare soluzioni. Un paese minato da una continua e persistente violazione dei diritti umani non può considerarsi “civile”. 
Impegno comune deve essere eliminare ogni radice culturale fonte di disparità, stereotipi e pregiudizi che, direttamente e indirettamente, producono un’asimmetria di genere nel godimento dei diritti reali. 
La Convenzione di Istanbul, insiste su prevenzione ed educazione. Chiarisce quanto l’elemento culturale sia fondamentale e assegna all’informazione un ruolo specifico richiamandola alle proprie responsabilità (art.17). Il diritto di cronaca non può trasformarsi in un abuso. “Ogni giornalista è tenuto al rispetto della verità sostanziale dei fatti”. Non deve cadere in morbose descrizioni o indulgere in dettagli superflui, violando norme deontologiche e trasformando l’informazione in sensazionalismo. 

Noi, giornaliste e giornalisti firmatari del Manifesto, ci impegniamo per una informazione attenta, corretta e consapevole del fenomeno della violenza di genere e delle sue implicazioni culturali, sociali, giuridiche. La descrizione della realtà nel suo complesso, al di fuori di stereotipi e pregiudizi, è il primo passo per un profondo cambiamento culturale della società e per il raggiungimento di una reale parità. Riteniamo prioritario: 
1. inserire nella formazione deontologica obbligatoria quella sul linguaggio appropriato anche nei casi di violenza sulle donne e i minori; 
2. adottare un comportamento professionale consapevole per evitare stereotipi di genere e assicurare massima attenzione alla terminologia, ai contenuti e alle immagini divulgate; 
3. adottare un linguaggio declinato al femminile per i ruoli professionali e le cariche istituzionali ricoperti dalle donne e riconoscerle nella loro dimensione professionale, sociale, culturale; 
4. attuare la “par condicio di genere” nei talk show e nei programmi di informazione, ampliando quanto già raccomandato dall’Agcom; 
5. utilizzare il termine specifico “femminicidio” per i delitti compiuti sulle donne in quanto donne e superare la vecchia cultura della “sottovalutazione della violenza”: fisica, psicologica, economica, giuridica, culturale; 
6. sottrarsi a ogni tipo di strumentalizzazione per evitare che ci siano “violenze di serie A e di serie B” in relazione a chi sia la vittima e chi il carnefice; 
7. illuminare tutti i casi di violenza, anche i più trascurati come quelli nei confronti di prostitute e transessuali, utilizzando il corretto linguaggio di genere come raccomandato dalla comunità LGBT; 
8. mettere in risalto le storie positive di donne che hanno avuto il coraggio di sottrarsi alla violenza e dare la parola anche a chi opera a loro sostegno
9. evitare ogni forma di sfruttamento a fini commerciali (più copie, più clic, maggiori ascolti) della violenza sulle le donne; 
10. nel più generale obbligo di un uso corretto e consapevole del linguaggio:
a) evitare espressioni che anche involontariamente risultino irrispettose, denigratorie, lesive o svalutative dell’identità e della dignità femminili;
b) evitare termini fuorvianti come “amore” “raptus” “follia” “gelosia” “passione” accostati a crimini dettati dalla volontà di possesso e annientamento;
c) evitare l’uso di immagini e segni stereotipati o che riducano la donna a mero richiamo sessuale” o “oggetto del desiderio” (e immagini piene di lividi, per favore, ndr);
d) evitare di suggerire attenuanti e giustificazioni all’omicida, anche involontariamente, motivando la violenza con “perdita del lavoro”, “difficoltà economiche”, “depressione”, “tradimento” e così via.
d) evitare di raccontare il femminicidio sempre dal punto di vista del colpevole, partendo invece dalla vittima nel rispetto della sua persona. 
Aderite scrivendo a: cpo.fnsi@gmail.com • Prime adesioni da:
Sindacato Giornalisti Veneto, Commissione Pari Opportunità FNSI, Commissione Pari Opportunità Usigrai, GiULiA Giornaliste, Sindacato Unitario Giornalisti della Campania, Associazione Stampa Friuli Venezia Giulia, Associazione Ligure dei Giornalisti, Associazione Stampa Subalpina, Associazione della Stampa di Basilicata, Associazione della Stampa Sarda, Associazione Stampa Toscana, Associazione Stampa Emilia Romagna Giovanna Pastega, Alessandra Addari, Domenico Affinito, Antonella Alba, Michele Albanese, Alida Amico, Raffaella Ammirati, Rosa Amorevole, Monica Andolfatto (segretaria Sindacato giornalisti Veneto), Federica Angeli, Flavio Bacchetta, Giannetto Baldi, Ida Baldi,Alessandra Ballerini, Roberta Balzotti (coordinatrice Cpo Usigrai), Emmanuela Banfo, Antonella Benanzato, Serena Bersani (segretaria Assostampa Emilia Romagna), Laura Berti, Daniela Binello, Marino Bisso, Paolo Borrometi, Sandra Bortolin, Stefano Buda, Paolo Butturini, Laura Calfapietra, Mimma Caligaris, Stefanella Campana, Valerio Cataldi, Roberta Celot, Gegia Celotti, Mara Cinquepalmi, Carmina Conte, Marina Cosi (presidente GiULiA Giornaliste), Iolanda Corradino, Stefano Corradino, Danilo Cretara, Riccardo Cristiano, Beatrice Curci, Emma D’Aquino, Graziella Di Mambro, Vittorio Di Trapani (segretario Usigrai), Lorenzo Dolce, Poljanka Dolhar, Luciana Esposito, Roberta Ferri, Tiziana Ferrario, Annamaria Ferretti, Vittorio Fiorito, Silvia Garambois, Annamaria Ghedina, Piergiorgio Giacovazzo, Benoit Girod (presidente Assostampa valdostana), Giuseppe Giulietti (presidente Fnsi), Desirée Klain, Maria Teresa Laudando, Rosa Leanza, Maria Lepri, Cristina Liguori, Natalia Lombardo, Gianpaolo Longo, Raffaele Lorusso (segretario Fnsi), Ivano Maiorella, Paolo Mainiero, Alessandra Mancuso (presidente Cpo Fnsi), Pina Manente, Maria Teresa Manuelli, Giuseppe Manzo, Marco Marincic, Elisa Marincola (potavoce Art 21), Alessandro Martegani (segretario Assostampa FVG), Giuseppe Martellotta (segretario Assostampa Puglia), Fabiana Martini, Enza Massaro, Marilù Mastrogiovanni, Roberto Mastroianni, Rossella Matarrese, Rita Mattei, Marco Mele, Andrea Melodia, Gioia Meloni, Carla Monaco, Nadia Monetti, Mattia Motta, Carlo Muscatello (presidente Assostampa FVG), Antonella Napoli, Silvia Neonato, Enzo Nucci, Gian Mario Nucci, Fabiola Paterniti, Patrizia Pennella, Giovanna Pezzuoli, Monica Pietrangeli, Salvatore Andrea Porcu, Ivo Prandin, Silvia Resta, Andrea Riscassi, Giovanni Romano, Susi Ronchi, Massimiliano Saggese, Silvia Savi, Anna Scalfati, Barbara Scaramucci (presidente Art 21), Roberto Secci, Roberta Serdoz, Luisella Seveso, Claudio Silvestri (segretario Sindacato giornalisti Campania), Danilo Sinibaldi, Raffaella Soleri, Paola Spadari, Claudia Stamerra, Francesco Strippoli, Loredana Taddei (responsabile politiche di genere Cgil), Michela Trevisan, Carlo Verna, Enrico Veronese, Sara Verta, Laura Viggiano, Francesca Visentin, Arianna Voto, Maria Zagarelli, Luciana Zenobio, Susanna Zirizotti 








mercoledì 27 settembre 2017

28 settembre #nonunadimeno torna in piazza

Le mobilitazioni italiane si connettono a una più ampia mobilitazione internazionale; qui i dettagli.
Il 28 settembre 2017 torniamo in piazza tra donne e con le donne perché:
• rifiutiamo la violenza maschile e la sua strumentalizzazione;
• rifiutiamo di essere considerate inferiori, deboli, subalterne per natura.


Questo vogliono farci credere nelle corsie degli ospedali, quando schiere di obiettori ci impediscono di scegliere quando, come e se diventare madri.
Questo ci ripetono nelle aule dei tribunali, quando nei processi per stupro diventiamo noi le imputate.
Questo scontiamo senza indipendenza economica, con i salari più bassi dei nostri colleghi, con le molestie sul lavoro, con la cura della famiglia sempre più sulle nostre spalle.
Questo fa della famiglia, della coppia e del luogo di lavoro i luoghi più pericolosi per le donne.
Uno stupro è uno stupro e a stuprare sono gli uomini, al di là della loro nazionalità, provenienza o estrazione sociale.
Non accettiamo il ricatto della paura. Le strade sicure le fanno le donne che le attraversano.


Obiezione Respinta! sui nostri corpi e della nostra vita decidiamo solo noi, donne, trans, queer, migranti e native.
Iniziative in tutta Italia, cercate il più vicino a voi; a questo LINK la mappa con tutti gli appuntamenti

Vi ricordiamo qui in particolare Roma, Milano e Torino:
Roma: 28 settembre - piazza dell' Esquilino dalle ore 18
Milano: corteo dalle 18,30, partenza dal grattacielo Pirelli
Torino: piazza Castello ang. Via Garibaldi - h. 16,30-18 

La guerra contro le donne continua, noi continueremo a rispondere. 

#Velasietecercata
Portate cartelli, parole e musica.

giovedì 10 agosto 2017

Lea Melandri: perché gli uomini uccidono le donne

Scrive Lea Melandri che non dovremmo meravigliarci che gli uomini uccidano le donne, finché queste sono identificate con la sessualità e la maternità quali doti femminili al servizio dell'uomo stesso (o a lui finalizzate). Essenzialmente corpi; a disposizione
Qualcosa che il femminismo ha iniziato a scalfire, ma che ancora lavora profondamente ed è costantemente incoraggiato dalla cultura mediatica. Tanto da far notare a qualcuno che del concetto "io sono mia" nemmeno si sente più l'eco...
Se questa è la percezione che l'uomo ha della donna, è scontato che, nel momento in cui le donne decidono (separandosi) di non essere più quel corpo a disposizione, esploda la possessività. Scrive Melandri: 
E' questa idea della donna, posta a fondamento della nostra, così come di tutte le civiltà finora conosciute, che va scalzata in modo radicale, dalla cultura alta, come dal senso comune, e da quella rappresentazione di sé e del mondo forzatamente fatta propria anche dal sesso femminile. E' sulla normalità, dentro cui la violenza è meno visibile, ma per questo più insidiosa, che va portata l’attenzione. Di che altro parlano i pensatori che ancora fanno testo nelle nostre scuole?
L’educazione delle donne, dice Rousseau nell’Emilio, deve essere in funzione degli uomini:  La prima educazione degli uomini dipende dalle cure che le donne prodigano loro; dalle donne infine dipendono i loro costumi, le loro passioni, i loro gusti, i loro piaceri, la loro stessa felicità. Così tutta l’educazione delle donne deve essere in funzione degli uomini. Piacere e rendersi utili a loro, farsi amare e onorare, allevarli da piccoli, averne cura da grandi, consigliarli, consolarli, rendere loro la vita piacevole e dolce (…) L’uomo deve essere attivo e forte, l’altra passiva e debole. E’ necessario che l’uno voglia e possa, è sufficiente che l’altra opponga poca resistenza. Il più forte è apparentemente il padrone ma di fatto dipende dal più debole.”
Tanto meno le donne possono sentirsi parte della vita sociale, da cui sono state escluse per secoli, essendo stata fin dall’inizio appannaggio esclusivo di una comunità di uomini.
Oggi si parla molto di educazione di genere, ma si potrebbe dire che la scuola ne ha sempre fatta, con la differenza che lo statuto di “genere”, appartenenza a un gruppo pensato come omogeneo, un tutto coeso - è stato a lungo applicato, anche nelle più qualificate dottrine pedagogiche, soltanto al sesso femminile. 
Ne è un esempio l’analisi di Erik H. Erikson, autore di un testo, Infanzia e società (Armando Editore, Roma 1966), rimasto a lungo riferimento importante per chi insegnava. Nonostante gli vada riconosciuto il merito di aver sostenuto la necessità di un’analisi che non separasse dati biologici, storia sociale e sviluppo dell’individuo, quando si tratta di definire ruoli e “competenze” di “genere”, sono di nuovo le diversità anatomiche e fisiologiche ad avere il sopravvento. Gli attributi della “mobilità” e della “staticità”, che differenzierebbero il comportamento maschile da quello femminile, sono presentati come “reminiscenze”, “modi strettamente paralleli alla morfologia degli organi sessuali”. 
Se il “fare sociale”, che è dell’uomo, comporta “l’attacco, il piacere della competizione, l’esigenza della riuscita, la gioia della conquista”, quello della donna appare legato unicamente alla seduzione, al “desiderio di essere bella e di piacere”, ma soprattutto alla “capacità di assecondare il ruolo procreativo del maschio”, capacità che fa della donne una “compagna comprensiva ed una madre sicura di sé”.

Rendersi indispensabili, “far trovare buona la vita all’altro” è stato a lungo il modo alienante con cui le donne hanno cercato di riempire il vuoto apertosi all’origine nell’amore di sé. Nell’illusione di “foggiare se stesse” hanno impegnato tutte le loro energie nello sforzo di aiutare l’altro a divenire se stesso. La dedica che Andrè Gorz scrive nel libro dedicato alla moglie, Lettera a D. Storia di un amore, dice: “A te, Kay che, dandomi te, mi hai dato Io”.  

Per capire quanto sia profonda la convinzione che il dovere della donna è di rendere buona la vita all’uomo, basta leggere i giudizi che due uomini illustri, Benedetto Croce ed Emilio Cecchi, danno dell’Aleramo. “Non faccio il moralista a buon mercato; e intendo e scuso perfino – dice Croce – il fallo commesso nell’impeto della giovinezza sensuale e fantastica, quando avete abbandonato vostro marito e vostro figlio (…) Comunque il fatto era fatto; e voi avevate avuto un’ottima occasione per formarvi una nuova vita; quando stavate col Cena. Ma voi volevate amare il Cena, quando il vostro dovere era invece di aiutarlo e sacrificarvi a lui”. E Cecchi: “Nessuna servitù materna, o dono incondizionato, che la faccia rivivere nell’altro, negandola. Non ha bisogno che di sé”.

Ma quanto è estesa la maternità delle donne se, oltre a bambini, malati, anziani sono chiamate a curare, sostenere psicologicamente e moralmente uomini in perfetta salute? Come si può pensare che questo corpo femminile presente nella vita dell’uomo dalla nascita alla tomba - passando per la scuola, l’assistenza nelle malattie, cioè attraverso i bisogni primari dell’umano - non alimenti, più o meno consapevolmente pulsioni di fuga, aggressività, fantasie omicide, in chi ne teme la stretta quanto l’abbandono? Lea Melandri

sabato 15 luglio 2017

Photo Vogue Festival. Riflessioni e cambiamento?

Bella, questa citazione di Vogue Italia: “It’s snobbish and provincial to dismiss fashion as mere frivolity. It occupies too great a place in the culture. It’s a language, a drama, an arena. Clothes speak. About power, beauty, pleasure, sex, money, class, desire, gender, age —the aspirations and desperations of millions of people.” Judith Thurman


E infatti, quello che distingue Vogue Italia dagli altri magazine (scrive di se stessa Vogue stessa, ndr) è la profonda comprensione della moda come linguaggio: è la nostra interfaccia visuale con il mondo, con cui comunichiamo e costruiamo la nostra identità – e nessun arte (senza accento nell’originale, ndr) l’ha raccontata meglio della fotografia. E, quando entrano in gioco i grandi maestri della fotografia di moda, il risultato è una testimonianza imprescindibile dei cambiamenti socio-culturali che hanno caratterizzato una data epoca.
Così apprendiamo che è per questo che nel 2016 è nato il Photo Vogue Festival, primo festival internazionale interamente dedicato alla fotografia di moda legato a un magazine autorevole… la seconda edizione del Photo Vogue Festival si terrà a Milano il prossimo novembre e coinvolgerà (ci informa Vogue stessa) l’intera città con talk, mostre ed eventi fotografici, anche grazie al contributo delle istituzioni culturali, delle scuole di fotografia e delle gallerie specializzate.  
Il festival prevede quest’anno una monografica del grande maestro della fashion photography Paolo Roversi …realizzata grazie al contributo incondizionato di Mediolanum farmaceutici SpA. Ottimo sponsor, senza malizia; perché oggi la moda è anoressia e l’anoressia è un business; della medicina, oltre che di tanti altri settori.
Vogue scrive ancora: La moda è intrinsecamente politica (vero, ndr). Per sua stessa natura deve confrontarsi costantemente con temi come il genere, il censo, la costruzione dell’identità, e con i desideri, i sogni e le interazioni di generazioni intere (confrontarsi con essi, o indirizzarli? ndr). La sua esistenza e la sua rilevanza dipendono proprio dalla capacità di captare i movimenti della società – anche i più microscopici, o  ancora in fase embrionale – e di portarli allo scoperto. La moda ha da sempre a che fare con queste questioni e, nonostante le controversie che a volte suscita, è per sua stessa essenza chiamata ad affrontarli (vero, ndr). Non esistono insomma argomenti che non possa trattare: esistono modi che funzionano e modi che non funzionano, e lo scarto tra questi due poli è molto sottile e difficile da definire. (…) In questa edizione del Photo Vogue Festival abbiamo deciso di analizzare come la fotografia di moda abbia saputo veicolare contenuti che vanno molto oltre i semplici intenti pubblicitari. Sarà un modo di guardarsi allo specchio e di riflettere su qualcosa che il nostro magazine fa da quando esiste: capire cosa c’è intorno, cosa sta per cambiare, e come abbracciare, accelerare o influenzare questo cambiamento.”
Bene, e allora riflettiamo, cari tipi di Vogue: nel mio piccolo vi invito a farlo ri-scrivendo per voi una lettera che era, in origine, per la “guru della moda” Paola Pollo. Non serve farne una nuova; dovrei dire solo le stesse, identiche cose; tanto vale dunque riciclarla in buona parte, cambiando solo i dettagli essenziali, in relazione al nuovo destinatario.  

Cari signori di Vogue, io non vi conosco, e sul piano personale siete di sicuro brave persone; sul piano professionale, però, voi siete come tutti quelli che, parlando di moda, irresponsabilmente alimentano messaggi che fanno male alle persone. Voi lo sapete, su questo non c'è alcun dubbio; l'informazione che vorrei darvi è che lo sappiamo anche noi. Fatevene una ragione: tutto questo fomentare stilisti (o fotografi) che sparano tendenze delinquenziali come un pazzo spara dalla finestra con un bazooka, non solo è colpevole, ma lo è oramai smaccatamente, sotto gli occhi di tutti. Dopo anni e anni di questo andazzo, che ha contribuito notevolmente a fare dell’anoressia una piaga sociale, tutto quel che sapete fare è infiorare i proiettili con qualche occasionale boutade superficiale e ipocrita, addirittura ammantata di impegno per il cambiamento, senza cambiare mai niente. L’occasione attuale, addirittura, con la prima foto scelta per rappresentare il Festival, pretendeva di “denunciare” la violenza contro le donne in Libia (?) prendendo a vessillo una foto che mostra una donna brutalizzata da autorità maschili, che la immobilizzano a terra schiacciandola sotto ai piedi, con il tacco nel collo. Una foto glamour sulla violenza maschile.


Scusate, ma mi sono arrabbiata; mi sembra che, al contrario di quel che dichiarate, come uno zerbino voi vi sdraiate  nel comodo alveo della cultura dello stupro, da cui siamo (letteralmente) nati, e nella quale la moda si trova  tradizionalmente benissimo. 
E’ un bello schifo, signori di Vogue, il nocciolo è questo. Lo fanno tutti, certo. Ma voi meglio di tutti gli altri. Basti pensare alla “campagna contro l’anoressia” che anni fa vi siete inventati, il cui nobile scopo era criminalizzare i blog  pro-ana (in gran parte creati da indifese ragazzine autolesioniste), quando il maggior blog pro-ana della storia siete sempre sempre stati voi.  Di questa evidenza, c'è  anche qui una carrellata abbastanza eloquente.
Ma insomma, di che mi lagno? Non chiedetemi che c'è di male, a nutrire da decenni la perfetta immagine di quella donna-pegggio-che-oggetto da cui noi donne cerchiamo disperatamente di difenderci da sempre, ma senza successo, grazie anche alle politiche editoriali di “giornali” come il vostro; che è ben più di un giornaletto, è una potenza.
Un vero cambiamento nella moda sarebbe incoraggiare le ragazze ad accettarsi anche se non hanno BMI inferiore a 16, e veder accettare anche modelle che non siano vessilli dell’anoressia, perché sapete: relegare quelle dal BMI da 17 in su nella categoria “curvy” (meglio ancora se intente a sdraiarsi su un piatto di pasta) è un messaggio ancor peggiore che ignorarle. 

Ma la recente esperienza francese insegna che, perfino di fronte alle migliori intenzioni di un governo di far passare una legge, ci pensano i “colossi della moda” (di cui non si può negare Vogue faccia parte) a impedirne l’efficacia. 
Una testata conscia del potere che ormai avete, invece, e intenzionata a usarlo bene, inizierebbe a sottolineare che questa ossessione ha francamente stufato: hanno stufato le sue conseguenze che si pagano in termini di perdita di dignità delle donne, ma anche di dolore: di malattie e lacrime. 
E invece a cosa assistiamo? All’ennesima incoronazione dei soliti stereotipi, mentre contro la vera violenza non si fa nulla, e tantomeno contro quella sua terribile espressione che è l’anoressia; alla faccia nostra, e delle centinaia di migliaia di famiglie che continuano ad esserne devastate nell’indifferenza generale. 





Ma se poi aggiungiamo presunti “messaggi contro la violenza”, che sono esattamente il contrario, non pretendiamo che la cosa passi anche inosservata.
Tutto questo è colpevole, signori di Vogue, e lo è alla luce del sole. 

E questo è tutto. Cordiali saluti. Mari, e le altre

PS - seguono esempi di donne bollate come "curvy"; che per tutte le ragazzine in cerca di modelli da imitare sta per "ciccione": e non ditemi che il messaggio non è chiaro. A quanto pare, nella visione promossa Vogue, questa categoria-ghetto include anche tutte le donne semplicemente non gravemente sottopeso.