mercoledì 6 maggio 2020

COVID19: rapporto con allevamenti intensivi e polveri sottili

Le cosiddette polveri sottili sono l’inquinante atmosferico che provoca i maggiori danni alla salute umana in Europa. Il particolato PM10, costituito da particelle solide e liquide con diametro aerodinamico fra 0,1 e circa 100 μm (micrométro o micron), è così leggero che viene respirato con l’aria. Il particolato fine PM2,5, con diametro inferiore a 2,5 μm, ha particelle solide e liquide così piccole che non solo penetrano in profondità nei nostri polmoni, ma entrano anche nel nostro flusso sanguigno, proprio come l’ossigeno: per avere un'idea delle loro dimensioni si consideri che il diametro dei globuli rossi è oltre 3 volte più grande. Coronavirus: qual è il nesso?



Dopo due mesi di lockdown per epidemia ci chiediamo: come è possibile che nella sola Lombardia si conti la metà delle morti in Italia e ben il 7% di quelle mondiali? E che, aggiungendo l’Emilia-Romagna, addirittura il 64% dei decessi in Italia si concentri in queste sole aree?
Quando la comunità scientifica ha iniziato a raccogliere dati che potessero spiegarlo i pochi giornalisti di inchiesta che vi hanno prestato attenzione sono stati duramente attaccati come mentitori, boicottatori irresponsabili di un sano indotto industriale. Ma non è una invenzione mediatica: indagando l’aria inquinata come possibile co-fattore della gravità dell’epidemia nel nord Italia, diversi studi hanno ipotizzato che siano proprio le polveri sottili, peggiorando l’infiammazione, ad alzare la mortalità causata dal virus; e altrettanto inquietanti sono i dati su quali sono le attività che più producono queste polveri. Uno studio pubblicato su ScienceDirect già a fine marzo dice: “l’elevato livello di inquinamento in nord Italia dovrebbe essere considerato un co-fattore addizionale dell’alto tasso di mortalità di questa zona”. Una successiva ricerca dell’Università di Harvard nota come “un piccolo aumento dell’esposizione a lungo termine al PM2,5” potrebbe portare “a un grande aumento del tasso di mortalità da Covid-19”. ISPRA conferma che “l’esposizione prolungata al particolato determina che la salute della popolazione può essere più a rischio qui che in altre aree” (Riccardo De Lauretis). Arpa Lombardia (Guido Lanzani) ricorda anche che, poiché la Pianura Padana è chiusa su tre lati da montagne, la sua conformazione “non permette agli inquinanti atmosferici di disperdersi” come invece avviene altrove [Arpa Lombardia, La qualità dell’aria nel 2019]. E ora anche l’Unità Investigativa di Greenpeace Italia e Arpae Emilia-Romagna confermano l’ipotesi di “un ruolo del PM nel rendere più severo lo stato di infiammazione dei pazienti Covid-19”. 


Le regioni del nord-Italia, note per trainare l’economia, accettano il corollario delle ricadute ambientali, ma oltre un certo limite l’inquinamento diventa pericoloso per gli abitanti: questa è appunto la situazione attuale di Lombardia ed Emilia-Romagna (e in misura minore Piemonte), regioni in cui il livello di particolato è il peggiore in Italia e tra i peggiori in Europa.
E quali sono le cause principali di questo inquinamento? 
al secondo posto tra le cause in Italia, con l’incidenza più rilevante in Lombardia, c’è l’allevamento, per giunta con un trend in continua ascesa. In Italia gli allevamenti causano il 75% delle emissioni di ammoniaca; in Lombardia addirittura l’85%; questa ammoniaca “concorre in media a un terzo del PM, superando durante gli episodi acuti il 50% del totale” (Guido Lanzani di Arpa Lombardia). Anche un accurato studio di Arpae Emilia-Romagna fa emergere che l’allevamento intensivo è la seconda causa di emissioni di PM10 equivalente (primario e secondario) della regione.
Quindi non si può più ignorare che, per affrontare i picchi, non basta bloccare il traffico: si deve agire anche sugli allevamenti, dice l'esperto ISPRA Mario Contaldi.
Cosa ci dicono i dati aggiornati al 2018? che i settori più inquinanti sono climatizzazione e allevamenti (54% del PM2,5 in Italia), seguiti solo per il 14% da trasporti stradali e solo per il 10% dall’industria. Ma si noti che negli ultimi 18 anni, mentre la percentuale di PM2,5 causata da traffico su strada e industria continuava a scendere, quella degli allevamenti ha continuato a crescere (dal 7% al 17%).
Come mai, in tendenza contraria agli altri settori, gli allevamenti hanno incrementato i loro inquinanti del 142%? E come è possibile che gli allevamenti intensivi concorrano a questo inquinamento per ben il 66% in più rispetto a tutta l'industria? 
Il fatto è che l’industria deve rispondere a limiti precisi, dotandosi di sistemi adeguati per rispettarli; invece gli allevamenti sono pochissimo controllati: decine di migliaia di attività zootecniche disperdono inquinanti, spargendo i liquami, senza adeguati contenimenti. Se questi ci fossero, dice Ispra, gli allevamenti potrebbero ridurre drasticamente le emissioni di ammoniaca e quindi il particolato. 

Ecco i dati 2018 sulla partecipazione dei vari settori al particolato PM2,5:
36,9% :  Climatizzazione (residenziale, commerciale, industriale)
16,6% :  Allevamenti 
14,0% :  Trasporti su strada (incluse merci) 
10,0% :  Attività industriali 
7,8% :    Altri mezzi di trasporto (ad es. aerei) 
7,8% :    Altri settori vari (inclusi fuggitive, solventi, rifiuti)
4,4% :    Agricoltura esclusi allevamenti 
2,5% :    Produzioni energetiche varie (quali combustioni per produrre energia e trasformare prodotti energetici)
Avendo appurato che gli spandimenti di reflui zootecnici causano alte emissioni di ammoniaca (che a loro volta incrementano il particolato e quindi lo smog nell’aria; con l’aggiunta di una varietà e quantità di virus, batteri e super-batteri), secondo Ispra (ma anche secondo il buon senso) “i Comuni dovrebbero stabilire qual è il numero massimo di allevamenti e capi allevati che è possibile avere sul proprio territorio, perché altrimenti i danni si ripercuotono sui cittadini”.
Invece questi impianti continuano a crescere, e rappresentano ormai la quasi totalità delle attività di allevamento, lasciando al biologico solo una piccola fetta. Ah si, e non lasciamoci ingannare da operazioni di puro marketing come le etichette "benessere animale": per lo più specchietti per le allodole; le diciture ingannevoli aggiungono la beffa al danno.

In conclusione, sotto gli occhi abbiamo un quadro sconcertante: 
1. da un lato : alti profitti privati e ridotta occupazione
i sistemi intensivi di allevamento aumentano a dismisura i loro profitti a spese di immani sofferenze animali e riducendo invece l’occupazione. Infatti, "più l’allevamento è intensivo, più gli animali soffrono e meno addetti sono richiesti: per i polli industriali ad esempio è sufficiente 1 addetto ogni 100.000 animali” (dalla fabbrica alla forchetta)
2. dall’altro : gravissimi danni collettivi
più l’allevamento è intensivo e più abnormi sono i suoi costi ambientali, i quali (al contrario dei profitti) ricadono interamente sulla collettività.
Però, anziché contestare un sistema malato, fondato sulla sfruttamento estremo e sulla malattia, anziché agire per mitigarne gli effetti sul territorio e sulle persone (oltre che sugli animali), lo si sostiene, addirittura lo si incoraggia, con l’indulgenza dei non-controlli e con una gran quantità di soldi pubblici, che ad esempio tramite i sussidi della Politica Agricola Comune (PAC), coprono addirittura importi tra il 18% e il 20% del budget annuale complessivo dell’Ue
Ma se c'è una cosa che l'emergenza sanitaria ci insegna, è che se dei soldi vanno investiti, è il momento di farlo nella direzione di riconvertire questi mostri di inquinamento, malattia e dolore; se non per ragioni etiche, almeno per preservare il clima e la salute pubblica
Dice Carlo Modonesi, del Comitato scientifico di ISDE Italia (International Society of Doctors for the Environment): "L'esposizione ripetuta nel tempo ai sospesi nell’aria, da parte delle comunità umane residenti nelle vicinanze di impianti zootecnici, può portare a disturbi respiratori, effetti tossici di diversa natura, problemi della funzione polmonare, malattie infettive, infiammazioni croniche respiratorie e asma". Secondo ISDE inoltre, può aumentare il rischio di insorgenza di gravi broncopneumopatie cronico-ostruttive. E anche tutti i costi per la sanità che ne derivano, si badi bene, ricadono poi solo sullo Stato e sui cittadini; così come quelli causati da virus, batteri resistenti agli antibiotici ecc. veicolati da queste polveri. 
A proposito di salute pubblica e del pianeta, non possiamo dilungarci qui su tutti i gravissimi problemi causati da questo settore (già sviscerati per decenni da centinaia di studi rimasti inascoltati). Ma dal vertiginoso utilizzo di antibiotici e altri farmaci (e quindi selezione e diffusione di superbatteri) fino ai salti di specie, per non parlare poi del contributo al riscaldamento globale dato dall’impatto in CO2 e metano (e riduzione di foreste) che gli allevamenti hanno, si tratta di un mix che rende gli allevamenti intensivi dei veri e propri distruttori del Pianeta nonché incubatori di malattie potenzialmente letali anche su larga scala. Pericolosi in primis per gli stessi dipendenti (vedi anche: in Usa e in Canada aziende della carne costretti alla chiusura per coronavirus).
È una lunga catena collegata in un processo fatale - come un domino che parte da una tessera di pochi millimetri: la tua bistecca, e finisce per tirare giù un muro spesso dieci metri - la salute di noi tutti.
Facciamo di necessità virtù: è ora di agire; a partire dal trasformare radicalmente, in meglio, un settore importante nell'interesse di tutti.
Fonti dei dati: sono riportate nei link disseminati lungo l'articolo. Vedi anche: "Allevamenti intensivi, polveri sottili e Covid-19" di Elisa Murgese





Bisogna iniziare a ragionare in termini di #salutecircolare: solo se comprendiamo che non esiste salute delle persone senza salute del Pianeta, inizieremo a comprendere che anche il Coronavirus non è un "fatto isolato": ma è una malattia circolare. Solo partendo da qui sapremo realizzare una guarigione e una prevenzione, e quindi un futuro.


1 commento:

  1. Ottimo documento, preciso e puntuale. Sottoscrivo tutto, specialmente la riconversione degli allevamenti intensivi.

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