Di Luisa Betti • Il tribunale dei minori di Milano colloca il figlio di Martina Levato in istituto e rispedisce la madre a San Vittore, in attesa di valutare il nucleo familiare entro il 30 settembre.
Intanto Alexander Boettcher, il padre del piccolo che ha riconosciuto il figlio, dichiara di pentirsi “del proprio passato stile di vita”, di partecipare “al dolore delle vittime di quegli atti che, seppure in parte, sono anche a lui attribuiti” e quindi di volersi far carico delle “responsabilità di padre nel modo più completo possibile”, fino al punto di far trapelare l’intenzione di sposare Martina. Nel frattempo i nonni paterni potranno vedere il bambino parcheggiato in Istituto dai giudici, e forse anche i genitori potranno incontrare il figlio. Insomma il bambino sottratto-non sottratto sarà parcheggiato in un istituto, con i traumi che questo comporta, non verrà allattato (anche se è un suo diritto) ma potrà incontrare i genitori e i nonni creando così comunque un legame sebbene si sia più volte affermata l’intenzione di darlo in affidamento a una famiglia estranea alla vicenda. Tutto ciò che senso ha? Quello che si prospetta è quindi una battaglia legale i cui effetti ricadranno inevitabilmente sul bambino.
Sul caso di Martina Levato, la 23enne
condannata a 14 anni per aver acidificato un uomo insieme al suo compagno, Alexander Boettcher, e che a ferragosto ha partorito, si è parlato a sproposito, formando quasi due partiti pro o contro. Il caso, di cui non parlava più nessuno, è tornato a far discutere dopo che la pm Annamaria Fiorillo ha separato dalla donna il piccolo affidandolo al Comune di Milano e in attesa di aprire un’istruttoria sull’adozione. Il bambino è stato tolto alla madre subito dopo il parto e questo è stato ritenuto da alcuni un atteggiamento
disumano e da altri una
tutela nei confronti del piccolo nella convinzione che in questo modo possa avere una vita migliore, dato che la madre è stata dichiarata una borderline pericolosa. I
magistrati hanno giudicato con la frase “irreversibile inadeguatezza” non solo i genitori, ma anche l’intero contesto familiare, soprattutto i genitori di Boettcher, ma è stata la perizia delle psichiatre Erica Francesca Poli e Marina Carla Verga che escludendo qualsiasi forma di incapacità di intendere e di volere dei due genitori, hanno determinato il giudizio di inadeguatezza genitoriale, perizia in cui Martina Levato è stata giudicata nel processo penale come “soggetto borderline e pericoloso socialmente”, raffiguardola inoltre come anaffettiva e in ipercontrollo.
Martina Levato aveva chiesto in realtà di essere trasferita con il figlio nella comunità di Don Mazzi o in un Icam (Istituto a custodia attenuata per madri detenute e i loro figli da 0 a 3 / 6 anni).
Come le è consentito dalla
legge italiana (legge su cui ancora adesso le associazioni che lavorano con i bambini in carcere con le mamme, chiedono modifiche per l’inadeguatezza delle norme apportate alcuni anni fa); ma i giudici, non ritenendola idonea, una volta uscita dal Mangiagalli l’hanno rispedita in carcere sottraendole il figlio e riservandosi di decidere sul suo destino dopo averlo parcheggiato in istituto.
Il fatto interessante che riguarda questa delicata vicenda è stata però la reazione dell’opinione pubblica, soprattutto sui social, e sui media che hanno messo al centro più che la notizia il giudizio sulla donna e quindi su come deve essere una “madre” degna di essere ritenuta tale, con un accanimento
visto solo quando a delinquere è una donna e per giunta madre. Al di là del fatto se sia opportuno o meno dare in affidamento il bambino, cosa che deciderà il Tribunale dei Minori di Milano, chiunque si è preso la briga di mettersi su in cattedra per giudicare come sia “cattiva” una cattiva madre e come deve essere invece una buona madre, sparlando di istinto materno, parlando di superiore interesse del bambino senza nemmeno saperne il significato, avventurandosi in sproloqui senza conoscere né cosa consente la legge italiana, né dei rischi che questo bambino corre per esempio parcheggiato in istituto, o anche dei rischi che correrebbe nel caso di permanenza dei primi anni di vita in carcere con la mamma o in Icam, e di come attualmente quella stessa legge che dovrebbe tutelare madri detenute con bambini piccoli in Italia,
sia ancora carente in Italia.
Cioè
non si parla del caso, ma di
quanto sia brutta e cattiva questa Martina Levato che essendo una reietta si è anche permessa di mettere al mondo un figlio. Al di là della storia, brevemente riassunta qui, è interessante quindi osservare l’accanimento dei media, degli “opinionisti” ma anche della gente comune verso una donna che in quanto madre colpevole di un crimine (
senza nulla togliere a quello che ha fatto, per cui è stata già condannata a scontare 14 anni di prigione), diventa stigma del male assoluto: un trattamento che allo stesso livello diciamo di reato,
non è neanche immaginato per gli uomini.
Quante donne vengono sfigurate, torturate, stuprate nel mondo da uomini senza che sulla base di questo reato venga pesata la loro capacità di fare il padre? Di rado viene giudicata la capacità genitoriale di un uomo su questo, in quanto non è ritenuto probabilmente importante per la comunità. A questo proposito è chiarificatrice la lettera che segue, di Ilaria Boiano (avvocata di Differenza Donna), che spiega in maniera precisa e dettagliata
lo stigma che colpisce le donne che delinquono, compresa Martina Levato:
Il doppio standard e il principio di legalità che salta quando a delinquere sono le donne
(di Ilaria Boiano)
Le rappresentazioni delle donne nella nostra società rimangono molto limitate: alle donne proposte come oggetto sessuale si contrappone l’immaginario della donna accudente e madre “in essenza”.
Uscire da questo dualismo significa deviare dalla norma, una deviazione che per il sentire comune sembra ancora meritare una pena (anche solo sociale) più afflittiva: se le donne non accettano passivamente il ruolo di oggetto sessuale, ma si pongono come soggetto attivo e desiderante, allora si presume che vadano in giro in uno stato di consenso costante all’attività sessuale e dunque la loro parola diviene “non attendibile”. Anche rifiutare la maternità, o solo modificarne l’articolazione tradizionale, comporta una stigmatizzazione delle donne che provano a reinventarsi. L’idealizzazione della maternità ha cominciato ad essere scalfita da quando le donne non sacrificano più la propria dimensione esistenziale, e la propria vita nei casi di violenza maschile, sull’altare della “sacra famiglia” da tenere unita, ma scelgono di percorrere la strada della libertà e della realizzazione personale: la punizione sociale per aver rotto i vincoli familiari è la rappresentazione come ex moglie avida e vendicativa o “madre alienante”.
Se poi le donne sono pure straniere e per di più senza risorse, perché tali non sono considerati il coraggio e la determinazione che hanno consentito la fuga da persecuzioni e violenze e la realizzazione del progetto migratorio, il diritto alla piena realizzazione personale, anche attraverso la maternità, è fortemente compromesso da strutture sociali che, in luogo di “rimuovere gli ostacoli al pieno sviluppo della personalità”(art. 3 Costituzione Italiana), ne producono di nuovi e spesso insormontabili che negano i più basilari diritti, compreso il diritto al rispetto della vita privata e familiare (art. 8 CEDU).
Infine, la deviazione diviene socialmente intollerabile se le donne commettono reati: alla rappresentazione di uomini colti da raptus o criminali “per professione”, si contrappone l’immaginario di donne criminali promiscue, fredde dal cuore spietato, soggetti ‘doppiamente devianti’ dal comportamento innaturale perché non solo hanno infranto la legge, ma hanno anche trasceso le norme sociali e le aspettative connesse ad un comportamento femminile accettabile. La prevalenza di queste narrazioni delle donne ci parla di una società ancora refrattaria al principio di uguaglianza sia sul piano sostanziale su quello formale.
Ancora la legge non è uguale per tutte: dalla lettura di recenti sentenze in materia di violenza sessuale, ma anche dei provvedimenti in materia di responsabilità genitoriale, sempre di più ratifica delle conclusioni dei “professionisti della genitorialità”, con buona pace dei principi di terzietà e imparzialità della funzione giurisdizionale, emerge immediatamente come il senso comune intriso di convincimenti ingiustificati e narrazioni discriminatorie che ruotano intorno al sesso e ai ruoli di genere guidi anche il ragionamento giuridico con esiti in palese violazione dei diritti fondamentali. Diviene secondario così verificare se quanto stabilito dalla legge, sia a livello sostanziale sia a livello procedurale, caso per caso sia stato rispettato.
Dinanzi alla vicenda del figlio di Martina Levato, per il quale, come è noto, è stato disposto l’allontanamento immediato dalla madre al momento della nascita ed è stato aperto un procedimento di adottabilità dinanzi al Tribunale per i Minori di Milano a seguito di ricorso del PM, questione da considerare in uno Stato di diritto, prima di ogni considerazione, per altro intrisa di retorica, sull’importanza del primo contatto madre-figlio o della forza “rieducativa” dell’esercizio della maternità per una donna condannata, ancora non in via definitiva, per reati gravi, è se le autorità hanno agito nel pieno rispetto dei diritti fondamentali della donna in stato di privazione della libertà personale, cioè nelle mani dello Stato. Oggetto di vaglio dovrà essere quindi l’apparato motivazionale dei provvedimenti delle autorità al fine di assicurare, insieme all’interesse e benessere del bambino, che qualsiasi decisione assunta non sia fondata su pregiudizi e rappresentazioni discriminatorie.
In particolare, ciò che desta più perplessità nella vicenda di Marina Levato, almeno in base alle informazioni rese note dai media, è l’immediato allontanamento del neonato dalla madre dopo il parto: giustificato con la finalità di tutelare il benessere psicofisico del minore, ritenuto a rischio in caso di allontanamento successivo, tale atto appare di fatto un arbitrio commesso ai danni di una donna privata della libertà personale, atto per di più eseguito prima ancora dell’avvenuta notifica del provvedimento di allontanamento alla diretta interessata, che ha provocato sofferenza e dolore di tale gravità da configurare un trattamento inumano e degradante vietato dall’articolo 3 Cedu.
Il “superiore interesse” del minore, anziché prevalere, finisce così per cedere il passo innanzi alla pretesa punitiva dello Stato, pretesa punitiva che si è manifestata al di fuori dei limiti stabiliti dalla legge e in modo esacerbato perché l’interessata dal provvedimento ha violato non solo la legge, ma una norma sociale di genere: Marina Levato è doppiamente colpevole per il delitto commesso perché donna e dunque ancora più esemplare deve essere la reazione pubblica.
Dato di fatto, che conferma la natura discriminatoria per motivi di genere dell’allontanamento del neonato da sua madre, è che la medesima solerzia delle autorità a disporre l’allontanamento dal genitore non si rileva quando sono le donne a segnalare comportamenti pregiudizievoli dei padri ai danni dei figli minori: in questi casi, l’argomentazione con la quale si giustifica la mancata adozione di misure di protezione dei minori è che gli eventuali comportamenti violenti commessi nei confronti di terzi (magari proprio della ex compagna madre del proprio figlio) non può essere di per sé ritenuto indice di inadeguatezza genitoriale.
In definitiva, nel nostro ordinamento il principio di legalità è minacciato da un doppio parametro di valutazione che guida l’applicazione della legge in direzione discriminatoria delle donne. E questo non è solo un problema nostro, di noi donne, ma riguarda la società tutta: quando vacilla il principio di legalità, è a rischio la libertà di tutti e tutte.