Con grande piacere, nel segnalarvi il nuovo trimestrale dell'Associazione Donne Magistrato Italiane, Giudice Donna, vi proponiamo un pezzo di Gabriella Luccioli, dal numero 2/2015 appena uscito:
Cosa vuol dire essere femminista oggi, ed in particolare che cosa significa per una generazione di giovani donne cresciute nel convincimento di non avere nulla da invidiare agli uomini e nulla per cui lottare, o quanto meno che questa lotta non è una priorità? Per molte di loro la parola
femminismo ha anzi finito per assumere una connotazione negativa, quasi sinonimo di sterile protesta, di lamentazione, di intollerabile vittimismo. Da qualche tempo negli Stati Uniti ha grande diffusione l’hashtag #
womenagainstfeminism, manifesto delle ultime generazioni di donne contrarie all’emancipazionismo delle loro madri, percepito come atteggiamento inutilmente rivendicativo.
Nella prospettiva delle sostenitrici di tale tendenza l’eguaglianza è già acquisita, e non vi è alcun bisogno di rivendicarla; ed è in ragione della definitività di tale traguardo che esse promuovono ed esaltano la libertà di ogni scelta di vita, come quella di dedicarsi alla casa e ai figli piuttosto che alla carriera, scrollandosi di dosso quel fastidioso fardello dell’impegno politico per la parità di genere tanto tenacemente coltivato dalle loro madri. La posizione delle giovani americane muove da un concetto di fondo: il femminismo pone le donne contro gli uomini, in una contrapposizione che non vogliamo e che non ci riguarda. Impostazione miope, a mio avviso: disparità salariale, sessismo, sfruttamento del corpo delle donne, disuguaglianza sociale
sono totalmente rimossi dall’ orizzonte critico. Impostazione che non solo denota una completa ignoranza della storia del femminismo e delle tante battaglie che negli anni Settanta [
e anche ben prima, ndr] hanno animato negli Stati Uniti e in Europa il dibattito politico e culturale, facendo emergere con forza i pensieri, i valori, la dignità ed i diritti violati delle donne, ma che appare altresì fondata sull’equivoco che donne e uomini rivestano gli stessi ruoli nella società, anche in quella statunitense.
Non risulta che tale movimento [
antifemminista, ndr], caratterizzato da un approccio estremamente empirico, proprio della cultura statunitense, ai problemi,
che disconosce provocatoriamente i frutti positivi, dei quali pur beneficia, delle lotte della generazione precedente, sia stato ripreso e conclamato nel nostro Paese. Sembra piuttosto di percepire nelle ragazze di casa nostra una lontananza inconsapevole dai problemi di genere, che non sfiorano il loro presente: una lontananza che le esonera da ogni impegno verso la parità, salvo più tardi sperimentare sul piano personale e ciascuna attraverso il proprio specifico percorso che la discriminazione esiste ancora nei luoghi di lavoro e tra le mura domestiche e che vi è un diverso prezzo da pagare per uomini e donne per la loro realizzazione professionale. Eppure recenti indagini e recenti statistiche dimostrano quanto sia ancora lungo il cammino da percorrere per una effettiva parità. Una delle donne più potenti del mondo,
Christine Lagarde, direttrice del Fondo Monetario Internazionale, ha affermato alcune settimane or sono che
il 90% delle nazioni ha almeno una legge che limita il potenziale femminile ed impedisce alle donne di essere economicamente attive ed ha aggiunto che “in un mondo che ha tanto bisogno di crescita le donne possono dare un contributo se solo hanno di fronte a sé delle pari opportunità, invece di una insidiosa congiura” , mentre i paesi che privano le donne di opportunità si impoveriscono, rinunciando a dinamismo e benessere. Le parole della Lagarde erano dirette a commentare un importante
studio realizzato dal FMN sui danni del sessismo, secondo il quale in oltre 40 nazioni, tra cui molte ricche ed avanzate, si perde più del 15% della ricchezza potenziale a causa delle discriminazioni contro le donne, con oscillazioni dal 5% del PIL perduto negli Stati Uniti al 34% in Egitto.
In questa classifica l’Italia si colloca in una posizione intermedia, scontando una perdita del 15% del PIL potenziale, ossia tripla rispetto agli Stati Uniti. Secondo l’ultimo
rapporto dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (ILO) le donne in Europa sono più istruite degli uomini, ma sono pagate di meno: la differenza di stipendio tra i sessi oscilla da un minimo di cento euro ad un massimo di settecento euro al mese. In particolare, con riguardo ai lavori non specializzati, le donne guadagnano cento euro in meno degli uomini con le stesse mansioni. Altre ricerche hanno evidenziato che corrisponde a novemila miliardi di dollari l’anno la ricchezza non realizzata nel mondo per essere tante donne e tante ragazze costrette a contentarsi di un piano B, ossia di una soluzione di ripiego non adeguata al loro talento ed alle loro capacità, ma ritenuta tanto più compatibile con i loro impegni di cura domestica.
Quanto al nostro Paese, ci si compiace del dimezzamento, nell’ultimo semestre, delle donne assassinate da 72 a 36, trascurando il dettaglio che quegli stessi numeri evidenziano la commissione di sei femminicidi al mese. È inoltre una realtà anche italiana, peraltro comune a moltissimi altri Stati,
il divario retributivo tra uomini e donne, a parità di responsabilità e di mansioni: si tratta di un fenomeno odioso, contro il quale si è di recente levata anche la voce di Papa Francesco. Le donne sono altresì più facilmente licenziate ed assunte con contratti a termine e dimissioni preformate per l’ eventualità di gravidanze. Il Parlamento europeo ha votato nello scorso marzo
una risoluzione sulla parità tra donne e uomini nell’ Unione Europea nel 2013 presentata dall’eurodeputato belga Tarabella, diretta a sollecitare un miglioramento delle politiche per il raggiungimento della parità di genere. Tale risoluzione prospetta alcune sfide e pone alcuni fondamentali obiettivi da conseguire nei prossimi anni, invitando la Commissione e gli Stati membri “a tenere conto della prospettiva di genere del diritto delle donne nell’ elaborazione delle loro politiche e nelle loro procedure di bilancio, in particolare nel quadro delle politiche di stimolo, procedendo sistematicamente a valutazioni di impatto secondo il genere”, evidenziando l’impellente necessità di ridurre il divario retributivo e pensionistico, richiedendo il migliore equilibrio tra vita lavorativa e vita privata, promuovendo il congedo di paternità retribuito di almeno dieci giorni, invocando misure volte ad incoraggiare e sostenere l’azione degli Stati membri sul piano della violenza contro le donne, ribadendo in relazione al diritto alla salute che le donne devono avere il controllo della loro salute sessuale e riproduttiva ed essere informate adeguatamente sui loro diritti e sui servizi disponibili. Un decalogo a tutto campo e di grande respiro politico,
del quale non appare traccia nel dibattito culturale che anima il Paese né nell’agenda degli impegni governativi e parlamentari. In questo quadro di riferimento non può non restare intatto, ed anzi si pone come necessità civile ineludibile, l’impegno delle donne a cambiare le tante cose che sono ancora da cambiare, rifuggendo da ogni trattativa al ribasso: dalla trasmissione obbligatoria del cognome paterno alla persistente violazione del corpo femminile, dalla pubblicità che offende le donne all’uso sessista del linguaggio, dalla declinazione sempre al maschile di termini che ben possono essere tradotti al femminile alla scarsa presenza delle donne nei centri di potere ed al vertice delle istituzioni. Su quest’ultimo punto è diffuso il convincimento, basato sul falso presupposto che donne e uomini sono uguali, che sia del tutto indifferente che a tenere le leve del comando sia una persona dell’uno o dell’altro sesso. È evidente l’erroneità di tale posizione, che da un lato non percepisce che la presenza femminile è una necessità democratica, e non un optional, dall’altro lato porta all’inaccettabile risultato di una macroscopica carenza di donne nei centri decisionali.
Questa carenza, che conferma con la forza inconfutabile dei numeri l’ insufficienza dell’uguaglianza meramente formale, ha indotto la politica ad intraprendere azioni dirette alla promozione di pari opportunità tra donne e uomini, così da raggiungere risultati di pari rappresentanza in tutte le cariche ed in tutte le istituzioni.
Eppure di tali strategie e di tali finalità pochi uomini sembrano essere consapevoli, anche all’ interno della magistratura. Le nostre diversità per biologia, per storia e per esperienza esigono che il concetto di eguaglianza sia declinato in modo includente le differenze non solo fisiche, ma anche di cultura, di stile, di valori di riferimento. E su tale fronte è necessario l’impegno delle magistrate, mettendo in campo quella attenzione e quella sensibilità affinate negli anni verso
tutti i segnali di sessismo che molte persone non vedono, denunciando gli stereotipi che tuttora ostacolano un corretto rapporto tra i sessi e contestando quelle pratiche che attraverso criteri di selezione apparentemente neutri finiscono con il penalizzare le donne nel loro percorso professionale. Ciò vale anche a dire che resta intatto l’impegno, nella sfera privata, a continuare a batterci perché le nostre figlie non soffrano i sensi di colpa per i tempi sottratti alla famiglia, le incertezze, le fragilità ed i timori che hanno accompagnato il nostro cammino, e perché d’altro canto i nostri figli conoscano la naturalezza della condivisione dell’attività di cura, alleggerendo le donne di quel pesante fardello ed aiutandole a sfuggire all’ eterno dilemma della distribuzione dei tempi tra il lavoro e la famiglia ed a sperimentare la diversa qualità di una vita che valorizzi in pieno i loro talenti.
Gabriella Luccioli