Scrive Stefano Mancuso che per capire da dove provengano e come si originino pandemie come la Covid 19 (acronimo di Corona Virus Disease 2019) e per scongiurare il rischio che il nostro futuro sia costellato di orribili sigle analoghe è urgente comprendere il legame stretto che esiste fra l'insorgenza di nuove epidemie e la riduzione della biodiversità del pianeta dovuta all'azione dell'uomo.
Ecco il suo testo completo:
La biodiversità - ossia la diversità a qualunque livello degli esseri viventi - è, infatti, uno dei fattori fondamentali da cui dipende la sopravvivenza e la prosperità della nostra specie. Maggiore è la ricchezza di biodiversità, migliori sono le nostre possibilità di sopravvivenza. Ora, che la biodiversità della Terra, a causa dell'opera dell'uomo, stia velocemente deteriorandosi è risaputo. Ma quanto velocemente, non è affatto chiaro. Nel 2014, un gruppo di ricerca coordinato da Stuart Pimm della Duke University stimò il normale tasso di estinzione sulla Terra, prima dell'apparizione dell'uomo, pari a 0,1 specie estinte per milione di specie per anno; il tasso odierno sarebbe 1.000 volte superiore, mentre i modelli per il prossimo futuro indicherebbero tassi di estinzione fino a 10.000 volte più alti. È un dato che non si fa fatica a definire apocalittico. A fine 2017, 15.364 scienziati di 184 paesi firmarono una dichiarazione dal titolo World Scientists' Warning to Humanity: A Second Notice [il primo avvertimento degli scienziati all'umanità, firmato da 1700 scienziati fra qui quasi tutti i premi Nobel per le Scienze, era invece del 1992; e, ovviamente inascoltato, avvisava che l'umanità è in rotta di collisione con il resto della vita sul pianeta; ndr], in cui si affermava: «Abbiamo scatenato un evento di estinzione di massa, il sesto in circa 540 milioni di anni, in cui molte forme di vita attuali potrebbero essere annientate o sulla via per l'estinzione entro la fine di questo secolo». È un segnale di pericolo che non possiamo ignorare. Ne abbiamo già ignorati molti e i risultati non sono stati buoni.
Si potrebbe essere tentati di ritenere che questo allarme non riguardi direttamente la conservazione della nostra civiltà e tantomeno la sopravvivenza della specie. Benché sia triste che il 12% di uccelli, il 23% di mammiferi, il 32% di anfibi e circa il 50% delle piante da fiore siano minacciate di estinzione, sono in molti a ritenere che questa carneficina non avrà alcuna conseguenza su noi umani. Una convinzione largamente condivisa a giudicare dalla assoluta irrilevanza che i dati sull'estinzione delle specie hanno sulle nostre decisioni, se paragonati ad altri indici quali il Pil, l'Euribor, il Nasdaq. Questi davvero ritenuti in grado di far crollare la nostra civiltà.
Non voglio sminuire l'importanza dei dati economici, ma si tratta di scale d'importanza diverse. Apparirà chiaro anche ai più accaniti sostenitori del mercato, che senza le persone non esiste un mercato. Primum vivere.
Scrive Rodolfo Dirzo, professore a Stanford ed esperto di interazione fra le specie: «I nostri dati indicano che la Terra sta vivendo un enorme episodio di declino ed estinzione, che avrà conseguenze negative a cascata sul funzionamento degli ecosistemi e sui servizi vitali necessari a sostenere la civilizzazione». Sono appunto queste «conseguenze negative a cascata» il motivo per cui dovremmo immediatamente correre ai ripari. L'annientamento biologico dovuto al nostro impatto sugli ecosistemi modifica, infatti, le relazioni nella rete degli esseri viventi. Un effetto domino, simile a quello che ha bloccato, oggi, le nostre economie. Perché esse siano prospere bisogna che i trasporti, i consumi, la produzione, la fornitura di materie prime, la comunicazione ecc. funzionino al meglio delle loro possibilità. Se un solo anello della catena si inceppa, tutto si ferma.
Ebbene, gli ecosistemi non sono certo meno complessi dei mercati. La modifica di un qualunque nodo della rete può portare a squilibri generali, non prevedibili.
Prendiamo il caso delle malattie infettive.
Per definizione le malattie comportano interazioni tra le specie: come minimo includono un ospite e un agente patogeno. Confidare nel fatto che i cambiamenti nella composizione dei nostri sistemi naturali non influenzi queste relazioni è, ovviamente, una vana speranza. In un documento del 2015, la Lancet Commission on planetary health ci ricordava come i cambiamenti ecologici siano la causa di un significativo aumento del numero di nuove malattie e del riemergere di altre. Le infezioni da hantavirus, da virus Nipah, Ebola, Marburg, la malattia di Chagas, la febbre gialla, solo per citarne un esiguo numero, sono state associate alla perdita di foreste primarie a seguito di operazioni di disboscamento, per lasciare spazio a nuove piantagioni o all'estrazione di minerali, petrolio e gas. Si ritiene che all'incirca la metà degli eventi globali di malattie infettive di origine zoonotica, registrati tra il 1940 e il 2005, siano la diretta conseguenza di cambiamenti nell'uso del suolo a favore di attività ad alto impatto che riducono drasticamente la biodiversità degli ecosistemi. Così, il più alto rischio per l'insorgenza di malattie zoonotiche infettive, ci ricorda sempre il Lancet, «si verifica in aree in cui la crescita della popolazione è elevata, lo sviluppo ecologicamente distruttivo e le popolazioni umane e animali sono sostanzialmente sovrapposte».
Ad oggi, non abbiamo ancora alcun vero modello che ci permetta di prevedere in modo accurato l'influenza dei cambiamenti ambientali ed ecosistemici sulle malattie. Sappiamo tuttavia, con certezza, che è la continua e crescente domanda di risorse la causa principale del consumo del suolo, della deforestazione e della perdita di biodiversità da cui dipende direttamente un aumento delle epidemie. Essere consapevoli del disastro che i nostri consumi stanno creando dovrebbe renderci tutti più attenti ai comportamenti individuali, ma anche critici verso un modello di sviluppo così irragionevolmente pericoloso.
Stefano Mancuso, da Repubblica del 15/4/2020
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