giovedì 12 ottobre 2017

Solidarietà ad Asia Argento e un memo ai giudicanti

A tutti quelli che attaccano le donne che denunciano molestie e violenze: è colpa di persone come voi se le donne hanno paura di parlare. Risultato che precisamente si prefiggono i misogini conclamati.
Ma ci chiediamo come venga in mente a persone adulte senza ambizioni machiste, addirittura donne, come una stilista affermata o una che è anche una trans che potremmo definire “di successo”, di puntare l'indice contro altre donne con frasi tipo “se ti vesti in un certo modo forse stai dicendo che è quello che vuoi”, e “avresti dovuto dire no, un semplice no”. Semplice?? 
Really?  
Molti uomini e peggio ancora alcune donne, questi adulti giudicanti puntano il fallico e imperdonabile ditino del patriarcato più tossico contro delle ragazzine. Perché, allora, erano tutte giovanissime le attrici che oggi denunciano questa storia di marce consuetudini (che non ammorbano solo lo star system ma tutti gli ambienti).
A modo suo Asia aveva già denunciato narrando in un film, già 17 anni fa (solo 3 anni dopo il fatto), quello che non aveva saputo e potuto denunciare esplicitamente.


In quella scena c'era un messaggio chiaro non solo al colpevole, che l'ha riconosciuto, ma a un mondo intero, che in genere glissa. Cose che succedono, si sa. D'altronde, se ti vesti in un certo modo... se invece di tirargli uno schiaffone stai lì impalata... la vera colpevole sei tu, no? 



Ora che il segreto di Pulcinella viene a galla, ora che anche Asia, e le altre, sono donne abbastanza forti da non avere paura di parlare, si vergognino quelli che questi messaggi non raccolgono mai, per inciso. Anche dopo tanto tempo, da adulte e ormai affermate, il loro venire allo scoperto richiede ancora coraggio; come dimostrano i violenti attacchi che ora stanno subendo. 
A quelli che oggi dicono “denunciare dopo 20 anni è vigliacco, sei complice” si può rispondere solo: no, i complici siete voi, sempre. Complici degli sponsor instancabili della cultura dello stupro; perché le ex-ragazzine che denunciano adesso sono troie-vigliacche. Se avessero denunciato allora sarebbero state troie-in-cerca-di-visibilità, non è vero?








venerdì 6 ottobre 2017

Manifesto di Venezia. Per una informazione paritaria

Riportiamo di seguito il testo del Manifesto di Venezia, varato in vista del prossimo 25 Novembre; invitando ad aderire, e dando anche un suggerimento: per una corretta informazione cambiamo [anche] immagini! basta lividi per favore.
nb: l'immagine sopra è uno screenshot (da noi corretto con la frase sulla foto) della notizia sul sito della Federazione Giornalisti; che però (purtroppo) riporta l'ennesima foto di donna terrorizzata (o piena di lividi).

La violenza di genere è una violazione dei diritti umani tra le più diffuse al mondo: lo dichiara la Convenzione di Istanbul, approvata dal Comitato dei Ministri del Consiglio d'Europa nel 2011 e recepita dall’Italia nel 2013, che condanna «ogni forma di violenza sulle donne e la violenza domestica» e riconosce come il raggiungimento dell’uguaglianza sia un elemento chiave per prevenire la violenza. 

Sistematica, trasversale, specifica, culturalmente radicata, un fenomeno endemico: i dati lo confermano in ogni Paese, Italia compresa. La violenza di genere non è un problema delle donne e non solo alle donne spetta occuparsene, discuterne, trovare soluzioni. Un paese minato da una continua e persistente violazione dei diritti umani non può considerarsi “civile”. 
Impegno comune deve essere eliminare ogni radice culturale fonte di disparità, stereotipi e pregiudizi che, direttamente e indirettamente, producono un’asimmetria di genere nel godimento dei diritti reali. 
La Convenzione di Istanbul, insiste su prevenzione ed educazione. Chiarisce quanto l’elemento culturale sia fondamentale e assegna all’informazione un ruolo specifico richiamandola alle proprie responsabilità (art.17). Il diritto di cronaca non può trasformarsi in un abuso. “Ogni giornalista è tenuto al rispetto della verità sostanziale dei fatti”. Non deve cadere in morbose descrizioni o indulgere in dettagli superflui, violando norme deontologiche e trasformando l’informazione in sensazionalismo. 

Noi, giornaliste e giornalisti firmatari del Manifesto, ci impegniamo per una informazione attenta, corretta e consapevole del fenomeno della violenza di genere e delle sue implicazioni culturali, sociali, giuridiche. La descrizione della realtà nel suo complesso, al di fuori di stereotipi e pregiudizi, è il primo passo per un profondo cambiamento culturale della società e per il raggiungimento di una reale parità. Riteniamo prioritario: 
1. inserire nella formazione deontologica obbligatoria quella sul linguaggio appropriato anche nei casi di violenza sulle donne e i minori; 
2. adottare un comportamento professionale consapevole per evitare stereotipi di genere e assicurare massima attenzione alla terminologia, ai contenuti e alle immagini divulgate; 
3. adottare un linguaggio declinato al femminile per i ruoli professionali e le cariche istituzionali ricoperti dalle donne e riconoscerle nella loro dimensione professionale, sociale, culturale; 
4. attuare la “par condicio di genere” nei talk show e nei programmi di informazione, ampliando quanto già raccomandato dall’Agcom; 
5. utilizzare il termine specifico “femminicidio” per i delitti compiuti sulle donne in quanto donne e superare la vecchia cultura della “sottovalutazione della violenza”: fisica, psicologica, economica, giuridica, culturale; 
6. sottrarsi a ogni tipo di strumentalizzazione per evitare che ci siano “violenze di serie A e di serie B” in relazione a chi sia la vittima e chi il carnefice; 
7. illuminare tutti i casi di violenza, anche i più trascurati come quelli nei confronti di prostitute e transessuali, utilizzando il corretto linguaggio di genere come raccomandato dalla comunità LGBT; 
8. mettere in risalto le storie positive di donne che hanno avuto il coraggio di sottrarsi alla violenza e dare la parola anche a chi opera a loro sostegno
9. evitare ogni forma di sfruttamento a fini commerciali (più copie, più clic, maggiori ascolti) della violenza sulle le donne; 
10. nel più generale obbligo di un uso corretto e consapevole del linguaggio:
a) evitare espressioni che anche involontariamente risultino irrispettose, denigratorie, lesive o svalutative dell’identità e della dignità femminili;
b) evitare termini fuorvianti come “amore” “raptus” “follia” “gelosia” “passione” accostati a crimini dettati dalla volontà di possesso e annientamento;
c) evitare l’uso di immagini e segni stereotipati o che riducano la donna a mero richiamo sessuale” o “oggetto del desiderio” (e immagini piene di lividi, per favore, ndr);
d) evitare di suggerire attenuanti e giustificazioni all’omicida, anche involontariamente, motivando la violenza con “perdita del lavoro”, “difficoltà economiche”, “depressione”, “tradimento” e così via.
d) evitare di raccontare il femminicidio sempre dal punto di vista del colpevole, partendo invece dalla vittima nel rispetto della sua persona. 
Aderite scrivendo a: cpo.fnsi@gmail.com • Prime adesioni da:
Sindacato Giornalisti Veneto, Commissione Pari Opportunità FNSI, Commissione Pari Opportunità Usigrai, GiULiA Giornaliste, Sindacato Unitario Giornalisti della Campania, Associazione Stampa Friuli Venezia Giulia, Associazione Ligure dei Giornalisti, Associazione Stampa Subalpina, Associazione della Stampa di Basilicata, Associazione della Stampa Sarda, Associazione Stampa Toscana, Associazione Stampa Emilia Romagna Giovanna Pastega, Alessandra Addari, Domenico Affinito, Antonella Alba, Michele Albanese, Alida Amico, Raffaella Ammirati, Rosa Amorevole, Monica Andolfatto (segretaria Sindacato giornalisti Veneto), Federica Angeli, Flavio Bacchetta, Giannetto Baldi, Ida Baldi,Alessandra Ballerini, Roberta Balzotti (coordinatrice Cpo Usigrai), Emmanuela Banfo, Antonella Benanzato, Serena Bersani (segretaria Assostampa Emilia Romagna), Laura Berti, Daniela Binello, Marino Bisso, Paolo Borrometi, Sandra Bortolin, Stefano Buda, Paolo Butturini, Laura Calfapietra, Mimma Caligaris, Stefanella Campana, Valerio Cataldi, Roberta Celot, Gegia Celotti, Mara Cinquepalmi, Carmina Conte, Marina Cosi (presidente GiULiA Giornaliste), Iolanda Corradino, Stefano Corradino, Danilo Cretara, Riccardo Cristiano, Beatrice Curci, Emma D’Aquino, Graziella Di Mambro, Vittorio Di Trapani (segretario Usigrai), Lorenzo Dolce, Poljanka Dolhar, Luciana Esposito, Roberta Ferri, Tiziana Ferrario, Annamaria Ferretti, Vittorio Fiorito, Silvia Garambois, Annamaria Ghedina, Piergiorgio Giacovazzo, Benoit Girod (presidente Assostampa valdostana), Giuseppe Giulietti (presidente Fnsi), Desirée Klain, Maria Teresa Laudando, Rosa Leanza, Maria Lepri, Cristina Liguori, Natalia Lombardo, Gianpaolo Longo, Raffaele Lorusso (segretario Fnsi), Ivano Maiorella, Paolo Mainiero, Alessandra Mancuso (presidente Cpo Fnsi), Pina Manente, Maria Teresa Manuelli, Giuseppe Manzo, Marco Marincic, Elisa Marincola (potavoce Art 21), Alessandro Martegani (segretario Assostampa FVG), Giuseppe Martellotta (segretario Assostampa Puglia), Fabiana Martini, Enza Massaro, Marilù Mastrogiovanni, Roberto Mastroianni, Rossella Matarrese, Rita Mattei, Marco Mele, Andrea Melodia, Gioia Meloni, Carla Monaco, Nadia Monetti, Mattia Motta, Carlo Muscatello (presidente Assostampa FVG), Antonella Napoli, Silvia Neonato, Enzo Nucci, Gian Mario Nucci, Fabiola Paterniti, Patrizia Pennella, Giovanna Pezzuoli, Monica Pietrangeli, Salvatore Andrea Porcu, Ivo Prandin, Silvia Resta, Andrea Riscassi, Giovanni Romano, Susi Ronchi, Massimiliano Saggese, Silvia Savi, Anna Scalfati, Barbara Scaramucci (presidente Art 21), Roberto Secci, Roberta Serdoz, Luisella Seveso, Claudio Silvestri (segretario Sindacato giornalisti Campania), Danilo Sinibaldi, Raffaella Soleri, Paola Spadari, Claudia Stamerra, Francesco Strippoli, Loredana Taddei (responsabile politiche di genere Cgil), Michela Trevisan, Carlo Verna, Enrico Veronese, Sara Verta, Laura Viggiano, Francesca Visentin, Arianna Voto, Maria Zagarelli, Luciana Zenobio, Susanna Zirizotti 








mercoledì 27 settembre 2017

28 settembre #nonunadimeno torna in piazza

Le mobilitazioni italiane si connettono a una più ampia mobilitazione internazionale; qui i dettagli.
Il 28 settembre 2017 torniamo in piazza tra donne e con le donne perché:
• rifiutiamo la violenza maschile e la sua strumentalizzazione;
• rifiutiamo di essere considerate inferiori, deboli, subalterne per natura.


Questo vogliono farci credere nelle corsie degli ospedali, quando schiere di obiettori ci impediscono di scegliere quando, come e se diventare madri.
Questo ci ripetono nelle aule dei tribunali, quando nei processi per stupro diventiamo noi le imputate.
Questo scontiamo senza indipendenza economica, con i salari più bassi dei nostri colleghi, con le molestie sul lavoro, con la cura della famiglia sempre più sulle nostre spalle.
Questo fa della famiglia, della coppia e del luogo di lavoro i luoghi più pericolosi per le donne.
Uno stupro è uno stupro e a stuprare sono gli uomini, al di là della loro nazionalità, provenienza o estrazione sociale.
Non accettiamo il ricatto della paura. Le strade sicure le fanno le donne che le attraversano.


Obiezione Respinta! sui nostri corpi e della nostra vita decidiamo solo noi, donne, trans, queer, migranti e native.
Iniziative in tutta Italia, cercate il più vicino a voi; a questo LINK la mappa con tutti gli appuntamenti

Vi ricordiamo qui in particolare Roma, Milano e Torino:
Roma: 28 settembre - piazza dell' Esquilino dalle ore 18
Milano: corteo dalle 18,30, partenza dal grattacielo Pirelli
Torino: piazza Castello ang. Via Garibaldi - h. 16,30-18 

La guerra contro le donne continua, noi continueremo a rispondere. 

#Velasietecercata
Portate cartelli, parole e musica.

giovedì 10 agosto 2017

Lea Melandri: perché gli uomini uccidono le donne

Scrive Lea Melandri che non dovremmo meravigliarci che gli uomini uccidano le donne, finché queste sono identificate con la sessualità e la maternità quali doti femminili al servizio dell'uomo stesso (o a lui finalizzate). Essenzialmente corpi; a disposizione
Qualcosa che il femminismo ha iniziato a scalfire, ma che ancora lavora profondamente ed è costantemente incoraggiato dalla cultura mediatica. Tanto da far notare a qualcuno che del concetto "io sono mia" nemmeno si sente più l'eco...
Se questa è la percezione che l'uomo ha della donna, è scontato che, nel momento in cui le donne decidono (separandosi) di non essere più quel corpo a disposizione, esploda la possessività. Scrive Melandri: 
E' questa idea della donna, posta a fondamento della nostra, così come di tutte le civiltà finora conosciute, che va scalzata in modo radicale, dalla cultura alta, come dal senso comune, e da quella rappresentazione di sé e del mondo forzatamente fatta propria anche dal sesso femminile. E' sulla normalità, dentro cui la violenza è meno visibile, ma per questo più insidiosa, che va portata l’attenzione. Di che altro parlano i pensatori che ancora fanno testo nelle nostre scuole?
L’educazione delle donne, dice Rousseau nell’Emilio, deve essere in funzione degli uomini:  La prima educazione degli uomini dipende dalle cure che le donne prodigano loro; dalle donne infine dipendono i loro costumi, le loro passioni, i loro gusti, i loro piaceri, la loro stessa felicità. Così tutta l’educazione delle donne deve essere in funzione degli uomini. Piacere e rendersi utili a loro, farsi amare e onorare, allevarli da piccoli, averne cura da grandi, consigliarli, consolarli, rendere loro la vita piacevole e dolce (…) L’uomo deve essere attivo e forte, l’altra passiva e debole. E’ necessario che l’uno voglia e possa, è sufficiente che l’altra opponga poca resistenza. Il più forte è apparentemente il padrone ma di fatto dipende dal più debole.”
Tanto meno le donne possono sentirsi parte della vita sociale, da cui sono state escluse per secoli, essendo stata fin dall’inizio appannaggio esclusivo di una comunità di uomini.
Oggi si parla molto di educazione di genere, ma si potrebbe dire che la scuola ne ha sempre fatta, con la differenza che lo statuto di “genere”, appartenenza a un gruppo pensato come omogeneo, un tutto coeso - è stato a lungo applicato, anche nelle più qualificate dottrine pedagogiche, soltanto al sesso femminile. 
Ne è un esempio l’analisi di Erik H. Erikson, autore di un testo, Infanzia e società (Armando Editore, Roma 1966), rimasto a lungo riferimento importante per chi insegnava. Nonostante gli vada riconosciuto il merito di aver sostenuto la necessità di un’analisi che non separasse dati biologici, storia sociale e sviluppo dell’individuo, quando si tratta di definire ruoli e “competenze” di “genere”, sono di nuovo le diversità anatomiche e fisiologiche ad avere il sopravvento. Gli attributi della “mobilità” e della “staticità”, che differenzierebbero il comportamento maschile da quello femminile, sono presentati come “reminiscenze”, “modi strettamente paralleli alla morfologia degli organi sessuali”. 
Se il “fare sociale”, che è dell’uomo, comporta “l’attacco, il piacere della competizione, l’esigenza della riuscita, la gioia della conquista”, quello della donna appare legato unicamente alla seduzione, al “desiderio di essere bella e di piacere”, ma soprattutto alla “capacità di assecondare il ruolo procreativo del maschio”, capacità che fa della donne una “compagna comprensiva ed una madre sicura di sé”.

Rendersi indispensabili, “far trovare buona la vita all’altro” è stato a lungo il modo alienante con cui le donne hanno cercato di riempire il vuoto apertosi all’origine nell’amore di sé. Nell’illusione di “foggiare se stesse” hanno impegnato tutte le loro energie nello sforzo di aiutare l’altro a divenire se stesso. La dedica che Andrè Gorz scrive nel libro dedicato alla moglie, Lettera a D. Storia di un amore, dice: “A te, Kay che, dandomi te, mi hai dato Io”.  

Per capire quanto sia profonda la convinzione che il dovere della donna è di rendere buona la vita all’uomo, basta leggere i giudizi che due uomini illustri, Benedetto Croce ed Emilio Cecchi, danno dell’Aleramo. “Non faccio il moralista a buon mercato; e intendo e scuso perfino – dice Croce – il fallo commesso nell’impeto della giovinezza sensuale e fantastica, quando avete abbandonato vostro marito e vostro figlio (…) Comunque il fatto era fatto; e voi avevate avuto un’ottima occasione per formarvi una nuova vita; quando stavate col Cena. Ma voi volevate amare il Cena, quando il vostro dovere era invece di aiutarlo e sacrificarvi a lui”. E Cecchi: “Nessuna servitù materna, o dono incondizionato, che la faccia rivivere nell’altro, negandola. Non ha bisogno che di sé”.

Ma quanto è estesa la maternità delle donne se, oltre a bambini, malati, anziani sono chiamate a curare, sostenere psicologicamente e moralmente uomini in perfetta salute? Come si può pensare che questo corpo femminile presente nella vita dell’uomo dalla nascita alla tomba - passando per la scuola, l’assistenza nelle malattie, cioè attraverso i bisogni primari dell’umano - non alimenti, più o meno consapevolmente pulsioni di fuga, aggressività, fantasie omicide, in chi ne teme la stretta quanto l’abbandono? Lea Melandri

sabato 15 luglio 2017

Photo Vogue Festival. Riflessioni e cambiamento?

Bella, questa citazione di Vogue Italia: “It’s snobbish and provincial to dismiss fashion as mere frivolity. It occupies too great a place in the culture. It’s a language, a drama, an arena. Clothes speak. About power, beauty, pleasure, sex, money, class, desire, gender, age —the aspirations and desperations of millions of people.” Judith Thurman


E infatti, quello che distingue Vogue Italia dagli altri magazine (scrive di se stessa Vogue stessa, ndr) è la profonda comprensione della moda come linguaggio: è la nostra interfaccia visuale con il mondo, con cui comunichiamo e costruiamo la nostra identità – e nessun arte (senza accento nell’originale, ndr) l’ha raccontata meglio della fotografia. E, quando entrano in gioco i grandi maestri della fotografia di moda, il risultato è una testimonianza imprescindibile dei cambiamenti socio-culturali che hanno caratterizzato una data epoca.
Così apprendiamo che è per questo che nel 2016 è nato il Photo Vogue Festival, primo festival internazionale interamente dedicato alla fotografia di moda legato a un magazine autorevole… la seconda edizione del Photo Vogue Festival si terrà a Milano il prossimo novembre e coinvolgerà (ci informa Vogue stessa) l’intera città con talk, mostre ed eventi fotografici, anche grazie al contributo delle istituzioni culturali, delle scuole di fotografia e delle gallerie specializzate.  
Il festival prevede quest’anno una monografica del grande maestro della fashion photography Paolo Roversi …realizzata grazie al contributo incondizionato di Mediolanum farmaceutici SpA. Ottimo sponsor, senza malizia; perché oggi la moda è anoressia e l’anoressia è un business; della medicina, oltre che di tanti altri settori.
Vogue scrive ancora: La moda è intrinsecamente politica (vero, ndr). Per sua stessa natura deve confrontarsi costantemente con temi come il genere, il censo, la costruzione dell’identità, e con i desideri, i sogni e le interazioni di generazioni intere (confrontarsi con essi, o indirizzarli? ndr). La sua esistenza e la sua rilevanza dipendono proprio dalla capacità di captare i movimenti della società – anche i più microscopici, o  ancora in fase embrionale – e di portarli allo scoperto. La moda ha da sempre a che fare con queste questioni e, nonostante le controversie che a volte suscita, è per sua stessa essenza chiamata ad affrontarli (vero, ndr). Non esistono insomma argomenti che non possa trattare: esistono modi che funzionano e modi che non funzionano, e lo scarto tra questi due poli è molto sottile e difficile da definire. (…) In questa edizione del Photo Vogue Festival abbiamo deciso di analizzare come la fotografia di moda abbia saputo veicolare contenuti che vanno molto oltre i semplici intenti pubblicitari. Sarà un modo di guardarsi allo specchio e di riflettere su qualcosa che il nostro magazine fa da quando esiste: capire cosa c’è intorno, cosa sta per cambiare, e come abbracciare, accelerare o influenzare questo cambiamento.”
Bene, e allora riflettiamo, cari tipi di Vogue: nel mio piccolo vi invito a farlo ri-scrivendo per voi una lettera che era, in origine, per la “guru della moda” Paola Pollo. Non serve farne una nuova; dovrei dire solo le stesse, identiche cose; tanto vale dunque riciclarla in buona parte, cambiando solo i dettagli essenziali, in relazione al nuovo destinatario.  

Cari signori di Vogue, io non vi conosco, e sul piano personale siete di sicuro brave persone; sul piano professionale, però, voi siete come tutti quelli che, parlando di moda, irresponsabilmente alimentano messaggi che fanno male alle persone. Voi lo sapete, su questo non c'è alcun dubbio; l'informazione che vorrei darvi è che lo sappiamo anche noi. Fatevene una ragione: tutto questo fomentare stilisti (o fotografi) che sparano tendenze delinquenziali come un pazzo spara dalla finestra con un bazooka, non solo è colpevole, ma lo è oramai smaccatamente, sotto gli occhi di tutti. Dopo anni e anni di questo andazzo, che ha contribuito notevolmente a fare dell’anoressia una piaga sociale, tutto quel che sapete fare è infiorare i proiettili con qualche occasionale boutade superficiale e ipocrita, addirittura ammantata di impegno per il cambiamento, senza cambiare mai niente. L’occasione attuale, addirittura, con la prima foto scelta per rappresentare il Festival, pretendeva di “denunciare” la violenza contro le donne in Libia (?) prendendo a vessillo una foto che mostra una donna brutalizzata da autorità maschili, che la immobilizzano a terra schiacciandola sotto ai piedi, con il tacco nel collo. Una foto glamour sulla violenza maschile.


Scusate, ma mi sono arrabbiata; mi sembra che, al contrario di quel che dichiarate, come uno zerbino voi vi sdraiate  nel comodo alveo della cultura dello stupro, da cui siamo (letteralmente) nati, e nella quale la moda si trova  tradizionalmente benissimo. 
E’ un bello schifo, signori di Vogue, il nocciolo è questo. Lo fanno tutti, certo. Ma voi meglio di tutti gli altri. Basti pensare alla “campagna contro l’anoressia” che anni fa vi siete inventati, il cui nobile scopo era criminalizzare i blog  pro-ana (in gran parte creati da indifese ragazzine autolesioniste), quando il maggior blog pro-ana della storia siete sempre sempre stati voi.  Di questa evidenza, c'è  anche qui una carrellata abbastanza eloquente.
Ma insomma, di che mi lagno? Non chiedetemi che c'è di male, a nutrire da decenni la perfetta immagine di quella donna-pegggio-che-oggetto da cui noi donne cerchiamo disperatamente di difenderci da sempre, ma senza successo, grazie anche alle politiche editoriali di “giornali” come il vostro; che è ben più di un giornaletto, è una potenza.
Un vero cambiamento nella moda sarebbe incoraggiare le ragazze ad accettarsi anche se non hanno BMI inferiore a 16, e veder accettare anche modelle che non siano vessilli dell’anoressia, perché sapete: relegare quelle dal BMI da 17 in su nella categoria “curvy” (meglio ancora se intente a sdraiarsi su un piatto di pasta) è un messaggio ancor peggiore che ignorarle. 

Ma la recente esperienza francese insegna che, perfino di fronte alle migliori intenzioni di un governo di far passare una legge, ci pensano i “colossi della moda” (di cui non si può negare Vogue faccia parte) a impedirne l’efficacia. 
Una testata conscia del potere che ormai avete, invece, e intenzionata a usarlo bene, inizierebbe a sottolineare che questa ossessione ha francamente stufato: hanno stufato le sue conseguenze che si pagano in termini di perdita di dignità delle donne, ma anche di dolore: di malattie e lacrime. 
E invece a cosa assistiamo? All’ennesima incoronazione dei soliti stereotipi, mentre contro la vera violenza non si fa nulla, e tantomeno contro quella sua terribile espressione che è l’anoressia; alla faccia nostra, e delle centinaia di migliaia di famiglie che continuano ad esserne devastate nell’indifferenza generale. 





Ma se poi aggiungiamo presunti “messaggi contro la violenza”, che sono esattamente il contrario, non pretendiamo che la cosa passi anche inosservata.
Tutto questo è colpevole, signori di Vogue, e lo è alla luce del sole. 

E questo è tutto. Cordiali saluti. Mari, e le altre

PS - seguono esempi di donne bollate come "curvy"; che per tutte le ragazzine in cerca di modelli da imitare sta per "ciccione": e non ditemi che il messaggio non è chiaro. A quanto pare, nella visione promossa Vogue, questa categoria-ghetto include anche tutte le donne semplicemente non gravemente sottopeso.




mercoledì 12 luglio 2017

Stalking e riforma del diritto penale, il parere di D.i.Re Donne in rete

Una decina di giorni fa, il Governo Gentiloni ha incassato una dura contestazione da parte del movimento delle donne sulla riforma del diritto penale che riguarda anche il reato di stalking. 

A dare fuoco alle polveri sono state  Loredana Taddei, responsabile nazionale delle Politiche di Genere della Cgil, Liliana Ocmin, responsabile del Coordinamento nazionale donne della Cisl e Alessandra Menelao, responsabile nazionale dei Centri ascolto della Uil che hanno  firmato un comunicato stampa congiunto di denuncia della  pericolosa sottovalutazione del reato di stalking perchè nella riforma del diritto penale è stato inserito l’articolo 162 ter che prevede la possibilità di estinguere i reati procedibili a querela di parte (e per i quali si può rimettere la querela) con l’offerta  un risarcimento alla vittima. La somma pattuita potrà essere pagata anche a  rate e sarà  il giudice a decidere se il risarcimento sarà congruo perché la vittima non avrà diritto di parola e non potrà scegliere se accettare o rifiutare “la riparazione”.  Il problema è che nel 162 ter potranno rientrare anche le denunce per stalking a querela di parte che il legislatore reputa “lievi“. 

Dopo le proteste, Andrea Orlando, il ministro alla Giustizia, è intervenuto per dire che si sarebbe posto rimedio rendendo il reato di stalking, procedibile d'ufficio. e questo ha suscitato le preoccupazioni dell'associazione nazionale D.i.Re che è intervenuta mettendo a fuoco qual'è in sostanza il nodo del problema: "La  cosiddetta Riforma Orlando. ha introdotto nel nostro ordinamento uno strumento di giustizia riparativa. Per alcuni reati sarà possibile che l’indagato risarcisca o ripari il danno cagionato, con conseguente estinzione del reato. Questo meccanismo risulterebbe applicabile anche ai casi di stalking apparentemente meno gravi (procedibili a querela, gli stessi per cui si può richiedere l’ammonimento da parte del Questore). L’ipotesi ventilata di estendere la procedibilità per questi reati (nel caso dello stalking è graduata, dalla procedibilità a querela a quella d’ufficio, in base alla gravità delle condotte) a nostro parere non coglie il vero nodo del problema. Il nodo  non è la procedibilità del reato di stalking, quanto l’assenza nel nostro ordinamento di una norma che – in ossequio al disposto dell’art. 48 della Convenzione di Istanbul – vieti il ricorso a metodi alternativi di risoluzione dei conflitti tra cui la mediazione e la conciliazione nei casi di violenza di genere. Una semplice clausola di esclusione risolverebbe alla radice il problema".

La  Convenzione di Istanbul, infatti, prevede all’art. 45 che “i reati stabiliti conformemente alla presente Convenzione siano puniti con sanzioni efficaci, proporzionate e dissuasive” mentre la direttiva vittime, la  2012/29/EU,   impone ( articoli 12 e 22) una  particolare cautela nei casi di giustizia riparativa nelle  ipotesi di violenza di genere. Quando esiste un alto rischio di vittimizzazione secondaria come le intimidazioni e le ritorsioni si deve proteggere adeguatamente la vittima rispettandone la volontà.

 D.i.Re ha espresso anche preoccupazione per la proposta del ministro della Giustizia, Andrea  Orlando,  di rendere il reato di stalking procedibile d'ufficio ricordando che:" Il dibattito che ha preceduto e seguito la previsione normativa dello stalking si è concentrato sulla scelta di ritenerlo procedibile a querela della persona offesa e sulla possibilità di rimessione della stessa. Questo derivava dall’esigenza che è sempre  al primo posto nei Centri antiviolenza di  lasciare libere le donne di valutare se denunciare o no senza  considerare lo stalking un reato che coinvolge interessi strettamente individuali, né sottovalutare il pubblico interesse a reprimere condotte tanto lesive di beni e valori fondamentali valorizzando al massimo la libertà delle donne".  Insomma la toppa potrebbe essere peggio del buco.

L'auspicio è che si esca dal problema mantenendo coerenza tra le leggi italiane, la Convenzione di Istanbul e le normative europee in materia di violenza contro le donne e che  lo Stato non modifichi la riforma per rendere procedibile d’ufficio il reato di atti persecutori ma  escluda dalla applicabilità dell’art.162 ter c.p. il reato di atti persecutori e in ogni caso escluda ogni forma alternativa o riparativa nei processi che vedono le donne vittime della violenza da parte degli uomini, come sancito dalla Convenzione di Istanbul.

@nadiesdaa

giovedì 6 luglio 2017

Lo stupro non è una bambinata


"Come lo vogliamo chiamare, definire? Bambinata". Michele Palummo, il sindaco di Pimonte  ha commentato con queste parole lo stupro avvenuto nel 2016 nella sua città. Lo ha fatto rilasciando balbettanti dichiarazioni al microfono di un basito Roberto D'Antonio, giornalista del programma L'Aria che Tira (La 7), che lo ha incalzato domandandogli "Bambinata uno stupro di gruppo"?
Il commento del primo cittadino della piccola comunità di seimila abitanti, in provincia di Napoli,  ha suscitato la rabbia e l'indignazione di molte donne e attiviste femministe. Grazie ai social sono partite diverse iniziative per protestare contro affermazioni gravi che banalizzano una violenza gravissima in modo intollerabile e che offendono la giovanissima vittima di uno stupro di gruppo, i suoi familiari e anche  tutte le donne vittime di violenza. Alla email del sindaco di Pimonte sono arrivate numerosissime proteste con la richiesta di chiedere scusa e di dimettersi, Nel pomeriggio Palummo ha corretto il tiro: "Intendo prima di ogni altra cosa porgere le mie più sentite scuse alla nostra giovane concittadina, alla sua famiglia e all’intera cittadinanza per aver utilizzato, durante l’intervista a La 7, un’espressione infelice, assolutamente impropria e che non era affatto riferita a quanto le è purtroppo capitato".
I fatti risalgono ad un anno fa, quando una ragazza di 15 anni subì violenza di gruppo da parte di undici ragazzi, tutti, all'epoca dei fatti, minorenni. Dopo qualche mese, gli stupratori sono tornati in libertà e la ragazza e i suoi familiari hanno deciso di lasciare Pimonte e si sono trasferiti in Germania per cercare di ritrovare serenità. Una storia purtroppo già vista. Non è raro che le donne vittime di stupro lascino la città dove vivono e lavorano a causa di uno stupro. Lo fanno per evitare di incontrare i loro stupratori una volta usciti di prigione oppure per proteggersi dall'ostilità della comunità che solidarizza con gli stupratori perché   "lei ha rovinato dei bravi ragazzi", "perché lei ci stava"o "se l'è cercata". 
Così dopo la la violenza le donne devono fronteggiare talvolta l'ostracismo della gente come  fossero colpevoli e a violenza si aggiunge violenza. E' la cultura dello stupro che ri-vittimizza le donne, che le colpevolizza per aver parlato e denunciato invece di tacere. Gli abitanti di Pimonte omertosi e insofferenti per le domande del giornalista de La 7, ci hanno fatto capire dalla parte di chi stavano, ovvero dalla parte del branco.
Il garante per l’Infanzia della Campania, Cesare Romano ha detto che  a Pimonte “non si è fatto abbastanza per assicurare protezione alla giovane: i continui schemi e l’esclusione sociale che la ragazza ha dovuto subire hanno aggravato il suo disagio psicologico al punto che la famiglia ha deciso di abbandonare il paese di Pimonte e trasferirsi nuovamente in Germania dove, forse, la minore e la sua famiglia potranno riacquistare la tranquillità di cui ha bisogno”. 
No, lo stupro non è una bambinata nemmeno quando è commesso da minorenni e quando accade che gli stupratori abbiano meno di 18 anni,  il mondo degli adulti dovrebbe interrogarsi e capire dove sono le responsabilità della comunità, della società e della famiglia dove piccoli stupratori crescono.


Bambinata stupro

@nadiesdaa