Oggi, 9 ottobre 2016, nel 53° anniversario della tragedia del Vajont è utile ricordare come la giornalista Tina Merlin si batté strenuamente per prevenirla; ma non solo non fu ascoltata, fu addirittura processata per "allarmismo", nell'indifferenza complice della stampa. Lei, donna, ex-partigiana (eccola nella foto con altre 2 staffette), non era considerata attendibile dalle autorità e tantomeno dai colleghi maschi.
Ricordare oggi la battaglia (persa) di Tina Merlin è particolarmente importante perché, oggi, si torna a vaneggiare di Ponte sullo stretto. Il senno di poi non può ridare vita alle vittime del Vajont, ma può prevenirne altre future: eppure si pretende di costruire un ponte assurdo, sullo stretto di Messina, senza tenere conto dell'urgenza di investire fondi, invece, nel sistema ferroviario esausto e obsoleto, e dunque pericoloso [vedi recente tragedia di Andria-Corato], per buttare cifre immense in un progetto che comporta ulteriori immensi rischi per la sicurezza.
Nel 1953 la Merlin fu la sola a mettere in luce, con determinata ostinazione, la verità sulla costruzione della diga del Vajont, e a dare voce alle denunce degli abitanti della valle sui pericoli che correvano i paesi di Erto e Casso, che furono in effetti spazzati via quando la famigerata diga fu messa in funzione. Inascoltata da tutti, fu accusata del reato di diffusione di notizie false e tendenziose atte a turbare l'ordine pubblico. Anche dopo il disastro fu isolata, mentre i colleghi maschi commentavano il fatto accusando la natura matrigna.
Ricordare oggi la battaglia (persa) di Tina Merlin è particolarmente importante perché, oggi, si torna a vaneggiare di Ponte sullo stretto. Il senno di poi non può ridare vita alle vittime del Vajont, ma può prevenirne altre future: eppure si pretende di costruire un ponte assurdo, sullo stretto di Messina, senza tenere conto dell'urgenza di investire fondi, invece, nel sistema ferroviario esausto e obsoleto, e dunque pericoloso [vedi recente tragedia di Andria-Corato], per buttare cifre immense in un progetto che comporta ulteriori immensi rischi per la sicurezza.
Nel 1953 la Merlin fu la sola a mettere in luce, con determinata ostinazione, la verità sulla costruzione della diga del Vajont, e a dare voce alle denunce degli abitanti della valle sui pericoli che correvano i paesi di Erto e Casso, che furono in effetti spazzati via quando la famigerata diga fu messa in funzione. Inascoltata da tutti, fu accusata del reato di diffusione di notizie false e tendenziose atte a turbare l'ordine pubblico. Anche dopo il disastro fu isolata, mentre i colleghi maschi commentavano il fatto accusando la natura matrigna.
Poi scrisse un libro-inchiesta sulla vicenda, ma nessuno glielo pubblicò per altri 20 anni: "Sulla pelle viva. Come si costruisce una catastrofe. Il caso del Vajont" trovò un editore solo nel 1983.
Venendo ai giorni nostri, e al ponte sullo stretto, come scrive Mario Tozzi (ricercatore CNR-Igag) non si comprende il motivo per cui si continui a vagheggiare come un sogno un progetto che ha, invece, tutti i connotati per essere un incubo. Niente da fare: nessuno sa chiarire quanto si tratti di una grande opera inutile, diseducativa, tecnicamente e geologicamente altamente pericolosa.
Un progetto meramente dimostrativo; quando la sola cosa da iniziare a dimostrare sarebbe un vero rispetto per il territorio ormai martoriato. Riguardo ai pericoli: ancora non esiste al mondo un ponte di lunghezza così spropositata; la campata di quello di Akashi a Kobe (attualmente il più lungo del mondo, con campate di 1.900 metri) non solo è più corta di un terzo, ma soprattutto non porta una ferrovia. Dunque nessuna prova sorregge l'ipotesi che la struttura potrà resistere a 166.000 tonnellate di carico sotto tensione ed esposto a vibrazioni continue; per giunta in un luogo a grave rischio sismico, la sede stessa del terremoto più devastante che si sia mai presentato in Italia (il terrificante terremoto di Messina del 1908). Ma, anche in assenza di sismi, un cantiere del genere sarebbe già un catastrofico terremoto lui stesso, che si abbatterebbe sul fragile equilibrio di un territorio ormai devastato e che richiede ben altra cura e attenzioni.
Un progetto meramente dimostrativo; quando la sola cosa da iniziare a dimostrare sarebbe un vero rispetto per il territorio ormai martoriato. Riguardo ai pericoli: ancora non esiste al mondo un ponte di lunghezza così spropositata; la campata di quello di Akashi a Kobe (attualmente il più lungo del mondo, con campate di 1.900 metri) non solo è più corta di un terzo, ma soprattutto non porta una ferrovia. Dunque nessuna prova sorregge l'ipotesi che la struttura potrà resistere a 166.000 tonnellate di carico sotto tensione ed esposto a vibrazioni continue; per giunta in un luogo a grave rischio sismico, la sede stessa del terremoto più devastante che si sia mai presentato in Italia (il terrificante terremoto di Messina del 1908). Ma, anche in assenza di sismi, un cantiere del genere sarebbe già un catastrofico terremoto lui stesso, che si abbatterebbe sul fragile equilibrio di un territorio ormai devastato e che richiede ben altra cura e attenzioni.
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