Quella di Olga Ricci (uno pseudonimo) è la storia di un futuro rapinato. E’ una giovane donna che, come tante coetanee, coltiva il sogno di un lavoro appagante che coroni i suoi studi. Il suo è quello di fare l’inviata all’estero per qualche testata nazionale: studia, lavora sodo, incassa delusioni ma continua a sognare anche quando, in uno stillicidio quotidiano, vede procrastinarsi la realizzazione di tutti i suoi progetti. Non c’è un lieto fine nella sua storia perché tre bocche voraci le divorano presente e futuro. La prima bocca è il precariato che sfrutta e non concede nessun diritto. La seconda bocca è scavata in quel sistema di raccomandazioni, scambi di favori, piaggeria verso i potenti e i loro protetti dove non prevalgono le capacità ma l’essere figli di, amiche di, appoggiati da. Infine la terza bocca, la più avida che viscidamente sputa il più odioso dei ricatti, quello sessuale.
Nel buddismo c’è il detto trasforma il veleno in medicina ed è quello che fa Olga in Toglimi le mani di dosso, edito da Chiarelettere, consegnandoci la cronaca dolorosa e scomoda dello sfruttamento di giovani intelligenze e spreco di talenti. Le pagine raccontano, soprattutto, la condizione amara delle donne discriminate e penalizzate da rapporti di forza a favore degli uomini e tratteggiano il ritratto impietoso di una classe dirigente maschile gretta e meschina. Penosa nelle sue ansie e debolezze, odiosa nei quotidiani abusi di potere e incapace di assumersi ruoli con etica e senso di responsabilità. Ne risulta la denuncia dura e senza speranza di una generazione derubata del futuro.
Il libro, pubblicato da un editore importante come Chiarelettere (Riccardo Iacona e Michela Murgia hanno firmato la quarta di copertina con un commento sul libro) è ben scritto, eppure ha trovato poco spazio sulle pagine dei quotidiani nazionali. Almeno fino ad oggi. E’ vero che quello che avviene nelle redazioni avviene ovunque nel nostro Paese: in aziende, ospedali, uffici statali, piccole e grandi imprese e studi professionali ma le redazioni dei giornali sono luoghi che hanno l’ambizione di raccontarci la realtà e dovrebbero essere capaci di descrivere anche la loro.
Olga ha aperto il blog Il porco al lavoro per condividere la sua esperienza e raccontare in prima persona l’angoscia di una vittima di molestie sessuali sul lavoro e invitare le altre vittime a prendere parola sul problema. Mi ha detto: “Per anni sono stata una giornalista precaria. Poi un giorno, durante un colloquio, è arrivata la promessa: assunzione a tempo indeterminato. Non ci speravo più, dopo tutte le collaborazioni malpagate e i contratti rinnovati di mese in mese. Il direttore sembrava uno serio, interessato per davvero al mio curriculum. Già dai primi giorni di prova mi sono ritrovata a dovere gestire inviti a cena, telefonate ambigue, mani sui fianchi, complimenti non richiesti. Sono precipitata in un incubo”. Questo incubo è un fenomeno sommerso e poco indagato in Italia anche per una fitta coltre di pregiudizi che mina la credibilità delle vittime. I dati sono davvero pochi. L’unica indagine è quella Istat del 2008-2009 che ha stimato in un milione e 308 mila le donne che hanno subito nell’arco della loro vita molestie sessuali o ricatti. Il molestatore spesso è in una posizione di forza (capo, alto dirigente) rispetto alla vittima e ha il potere di sabotare carriere e obiettivi professionali o di ripagare il rifiuto con la disoccupazione. La ritorsione vigliacca per chi non cede al ricatto sessuale spesso è il mobbing: la vittima si licenzia dopo mesi o anni di violenze psicologiche mirate a distruggerne la credibilità e la professionalità.
Le donne che ne sono vittime e chiedono aiuto ai centri antiviolenza sono poche. Il reato è poco denunciato all’autorità giudiziaria e viene svelato con molta più difficoltà delle violenze nelle relazioni di intimità. Che cosa toglie voce a chi subisce molestie? La difficoltà di provarle perché si manifestano difficilmente con aggressioni fisiche o ricatti espliciti; la gamma di comportamenti molesti varia dai contatti imposti come pacche o mani che sfiorano seno e sedere, agli apprezzamenti volgari che i molestatori fanno passare “per scherzo” a modalità subdole e striscianti come allusioni, mezze parole e un comportamento manipolatorio che minaccia e nello stesso tempo confonde la vittima rendendola maggiormente vulnerabile e spesso incapace di reagire. Il muro di ostilità o indifferenza da parte colleghi e colleghe che ne sono testimoni non facilita lo svelamento. La vittima è sola, colpevolizzata e quindi tace.
In Italia il problema è particolarmente grave. Rosa Amorevole, esperta in materia di lavoro e contrasto alle discriminazioni e consigliera di Parità per l’Emilia Romagna, ha curato un paragrafo del libro dedicato al Decalogo contro le molestie sul lavoro dove spiega che la normativa vigente definisce molestie quei comportamenti indesiderati, posti in essere per ragioni connesse al sesso e aventi lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una lavoratrice o di un lavoratore e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante o offensivo. Tutto chiaro? No.
Fino ad oggi si è fatto poco o nulla per contrastare il problema. Occuparsene vorrebbe dire ficcare il naso dentro le dinamiche del potere e come queste si intreccino nelle relazioni tra i sessi quando la vittima è una donna. C’è chi ha domandato ad Olga perché pretendi di denunciare il problema delle molestie senza mostrarti? Ho trovato strana la domanda da parte di giornalisti perché molto spesso nei centri anti-violenza riceviamo richieste di interviste con donne vittime di violenza, anche anonime. E allora perché tanta resistenza? Non domandatevi chi sia Olga ma occupatevi del problema.
Il porco al lavoro, ovunque sia, come tutti i cialtroni ambisce a portare la corona ma poi sta con le chiappe scoperte. E’ un patetico re nudo e ci vuole una voce forte e chiara che glielo dica. Meglio un coro.
Pubblicato sul Fatto quotidiano il 30 settembre 2015
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