Eccola, Lucia Ottobrini; che ieri se ne è andata, a 91 anni, dopo una vita d'amore con il suo Mario.
Di lei si diceva che, per sensibilità alle ingiustizie e coraggio, aveva il Vangelo nel cuore e la pistola dei GAP in pugno. Era nata nel 1924 a Roma, il 2 ottobre (giorno in cui nacque anche Gandhi, e consacrato agli Angeli Custodi). Ma quando, dopo la Liberazione, per le azioni condotte durante la Resistenza le fu assegnata una medaglia al valore militare, l'allora Ministro della Difesa Paolo Emilio Taviani, trovandosi di fronte a una donna non trovò di meglio che domandarle: “Lei è la vedova del decorato?”; al che lei risponde: “no! la decorata sono io”. Concetto ostico da accettare, se perfino l'onorificenza ascrive le motivazioni al suo possedere qualcosa che non è delle donne, e cioè un coraggio virile [con coraggio virile non esitava ad impugnare le armi battendosi a fianco dei compagni di lotta, sempre dando esempio di impareggiabile ardimento e facendosi ricordare tra le figure rappresentative della Resistenza romana]. E qui ci andrebbe il video che con paziente lavoro avevamo confezionato sulle donne della Resistenza, ma che (poiché utilizzava anche contenuti Rai) la Rai ha solertemente provveduto a fare oscurare. Grazie.
E lei: seconda di nove figli, vissuta fino a 15 anni in Alsazia (dove i bisnonni materni avevano una solida attività commerciale), a contatto con un ambiente di minatori e operai, su cui pesavano sfruttamento e ingiustizie, ma cosmopolita e multietnico, dove in un clima di tolleranza religiosa e di solidi legami affettivi convivevano diverse culture e religioni, ebrei, protestanti e cattolici. Poi con l’occupazione tedesca dell’Alsazia, Auschwitz entrò con violenza nella vita di Lucia lacerandone il mondo di legami affettivi familiari, di amicizie e di studi. La famiglia, con i suoi nove figli, ridotta in povertà, nel 1940 rientra a Roma, dove conosce la fame e assiste alle conseguenze delle leggi razziali e della guerra fascista. All'inizio del 1943 Lucia, entrata in contatto con l’ambiente intellettuale e antifascista romano, conosce Mario Fiorentini (una fiammata che non si è mai spenta né attenuata). Non ha ancora 20 anni e già opera attivamente per la Resistenza, e intanto lavora nel teatro con i migliori attori e registi della nuova generazione, in mesi che lei ricorda come "splendidi": «Mario e Plinio De Martiis avevano formato una compagnia teatrale per far conoscere gli 'autori classici del teatro di prosa al popolo, nei cinema di periferia, in modo da raggiungere un pubblico popolare fino ad allora escluso dal teatro. Iniziammo dal cinema Mazzini ma avemmo subito delle difficoltà finanziarie; né il proletariato né il ceto medio corse ai nostri spettacoli. Attori e registi si ridussero la paga e qualcuno rinunciò. Facemmo una sola rappresentazione al Teatro delle Arti. Avevamo progettato che Gassmann saltasse sopra un tavolo e cantasse l’Internazionale in francese. I registi della nostra compagnia erano Luigi Squarzina, Adolfo Celi, Gerardo Guerrieri, Vito Pandolfi, Mario Landi, gli attori erano Gassman, (stupendo per la sua classe, il suo ardore, la sua cultura), Lea Padovani e tanti altri. Ho dimenticato molti nomi, ma erano tutti giovani, entusiasti e antifascisti».
Poi, il 25 luglio 1943, la caduta del fascismo e l’armistizio dell’8 settembre, e l’occupazione tedesca di Roma. Ricorda Mario: «Il 10 settembre io e Lucia eravamo qui in via Zucchelli e vediamo i carri armati tedeschi risalire via del Tritone in direzione di piazza Barberini. Io prendo la mano di Lucia e le dico: nous sommes dans un cul-de-sac. In quel preciso istante abbiamo capito che bisognava agire, e in fretta. Quei carri armati ci fecero pensare all'occupazione della Francia, alla terribile sfilata trionfale agli Champs-Elysées. Perché la Francia è la seconda patria di Lucia. Siamo immediatamente partiti alla ricerca di armi». E infatti entrambi, lei 19 anni e lui 25, innamorati e profondamente convinti del proprio impegno di resistenza, a ottobre sono già attivi nel primo GAP Centrale “Antonio Gramsci”.
Nel maggio del 1944, ancora insieme a Mario, Lucia operava come partigiana sulla via Tiburtina, nella zona di Tivoli. «Una cosa tremenda. Signore benedetto! Con gli anni me lo sono chiesta tante volte. Ma ero io quella che sparava a sangue freddo? Che lasciava che un uomo, anche se un nemico, un tedesco, morisse per la strada sotto la pioggia? Spesso mi sento come se la Lucia di quegli anni fosse stata un’altra. E invece no, quella ero io. (…) Ancora oggi durante le sere di maggio, quando il cielo è sereno mi sembra di risentire il rombo dei bombardieri.» E ancora: «Durante la Resistenza pensavo: devo farlo, ma è come se trasgredissi, mi vergognavo di rivolgermi a Lui. È stato un periodo diverso. Se ci ripenso dico, ma che stranezza, ma ero proprio io questa?» In una di quelle missioni, un giorno Lucia incrociò a distanza una colonna di soldati tedeschi che cantavano: «scoppiai in lacrime quando sentii dei giovanissimi soldati che cantavano un nostalgico “andiamo a casa, dove staremo bene” in quella loro lingua, che io parlavo e capivo. Era un inno che avevo sentito cantare in Alsazia». Quel canto le risvegliò la pietas che aveva dovuto silenziare in sé nei mesi di guerra, in cui le era stato impossibile conciliare il Vangelo con l'impugnare la pistola. Il 5 giugno del 1944 l’esercito tedesco lascia Roma con le bande di fascisti che avevano insanguinato la città; insieme a tanti altri giovani, anche Lucia, con Mario, torna alla vita e si dedica a recuperare quella sorta di doloroso sdoppiamento della personalità, con cui fece i conti a lungo negli anni a venire.
Come tante e tanti altri, e anche ai giorni nostri, era nata per la gentilezza, ma non poteva essere gentile. Allora non poteva; lo fu dopo, però, per molti, molti anni ancora.
[Citazioni dal profilo che le ha dedicato l'Anpi]
Nel maggio del 1944, ancora insieme a Mario, Lucia operava come partigiana sulla via Tiburtina, nella zona di Tivoli. «Una cosa tremenda. Signore benedetto! Con gli anni me lo sono chiesta tante volte. Ma ero io quella che sparava a sangue freddo? Che lasciava che un uomo, anche se un nemico, un tedesco, morisse per la strada sotto la pioggia? Spesso mi sento come se la Lucia di quegli anni fosse stata un’altra. E invece no, quella ero io. (…) Ancora oggi durante le sere di maggio, quando il cielo è sereno mi sembra di risentire il rombo dei bombardieri.» E ancora: «Durante la Resistenza pensavo: devo farlo, ma è come se trasgredissi, mi vergognavo di rivolgermi a Lui. È stato un periodo diverso. Se ci ripenso dico, ma che stranezza, ma ero proprio io questa?» In una di quelle missioni, un giorno Lucia incrociò a distanza una colonna di soldati tedeschi che cantavano: «scoppiai in lacrime quando sentii dei giovanissimi soldati che cantavano un nostalgico “andiamo a casa, dove staremo bene” in quella loro lingua, che io parlavo e capivo. Era un inno che avevo sentito cantare in Alsazia». Quel canto le risvegliò la pietas che aveva dovuto silenziare in sé nei mesi di guerra, in cui le era stato impossibile conciliare il Vangelo con l'impugnare la pistola. Il 5 giugno del 1944 l’esercito tedesco lascia Roma con le bande di fascisti che avevano insanguinato la città; insieme a tanti altri giovani, anche Lucia, con Mario, torna alla vita e si dedica a recuperare quella sorta di doloroso sdoppiamento della personalità, con cui fece i conti a lungo negli anni a venire.
Come tante e tanti altri, e anche ai giorni nostri, era nata per la gentilezza, ma non poteva essere gentile. Allora non poteva; lo fu dopo, però, per molti, molti anni ancora.
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