Germania: il meccanismo infernale delle case per donne maltrattate. Via mail mi giunge questo scorcio di tanti, troppi anni di sofferenza, che desidero condividere qui. Ancora una volta non si tratta di violazioni dei diritti in situazioni di dittatura o di regimi militari, ma nel cuore dell’Europa, nel paese che troppo spesso gli ignari prendono a modello:
“venuta in Germania per una specializzazione post-universitaria ho conosciuto un tedesco con il quale mi sono sposata e ho avuto una bambina. Una bambina binazionale che avrebbe dovuto crescere bilingue, una piccola europea. Purtroppo, dopo la nascita della bambina, mio marito ha avuto crisi durante le quali gridava e mi picchiava, a volte anche in presenza della bambina. Uno degli episodi al quale ha assistito la piccola è stato anche uno dei più violenti. Sono stati proprio i suoi occhioni sbarrati a far sì che suo padre si fermasse, le ordinasse di andare in camera sua e smettesse di picchiarmi. Per qualche ora. E’ uscito ed al suo rientro sembrava si fosse ravveduto, o per lo meno calmato. Invece, verso sera, in camera da letto, pretendeva che gli dicessi che andava tutto bene e che non era successo niente. Alla mia risposta che non avrei sopportato oltre la sua violenza e che avrei iniziato a gridare in caso di ulteriore aggressione, ha iniziato a gridare lui. E anch’io.
Allora mi ha messo le ginocchia sulle spalle, immobilizzandomi. Mi ha dato una sberla, mi ha chiuso il naso e la bocca con le mani, mi stava soffocando. Se ne deve essere reso conto, perché si è spaventato e ha allentato la presa. Poi si è seduto sul bordo del letto e pareva riflettere. Ha preso la mia mano destra, lentamente e la ha guardata a lungo. Poi ha preso le mie dita e le ha piegate all’indietro. Avevo un dolore terribile, ma non osavo gridare. Poi il crack delle ossa. Non ho pianto, ero così terrorizzata che in un primo momento non ho neppure sentito dolore. Lui si è spaventato, penso si sia reso conto di ciò che aveva fatto, ha lasciato la mia mano e ha iniziato a piangere. La mia mano, ormai tutta rossa, ha cominciato a gonfiarsi. Non era la prima volta che mi picchiava, ma quel giorno ho avuto la sensazione che se non lo avessi lasciato mi avrebbe uccisa.
Allora mi ha messo le ginocchia sulle spalle, immobilizzandomi. Mi ha dato una sberla, mi ha chiuso il naso e la bocca con le mani, mi stava soffocando. Se ne deve essere reso conto, perché si è spaventato e ha allentato la presa. Poi si è seduto sul bordo del letto e pareva riflettere. Ha preso la mia mano destra, lentamente e la ha guardata a lungo. Poi ha preso le mie dita e le ha piegate all’indietro. Avevo un dolore terribile, ma non osavo gridare. Poi il crack delle ossa. Non ho pianto, ero così terrorizzata che in un primo momento non ho neppure sentito dolore. Lui si è spaventato, penso si sia reso conto di ciò che aveva fatto, ha lasciato la mia mano e ha iniziato a piangere. La mia mano, ormai tutta rossa, ha cominciato a gonfiarsi. Non era la prima volta che mi picchiava, ma quel giorno ho avuto la sensazione che se non lo avessi lasciato mi avrebbe uccisa.
Il giorno dopo ha voluto accompagnarmi all’università, cosa che non aveva mai fatto, ma forse temeva che io andassi dal medico. Non ha considerato il fatto che in università c’era un ambulatorio, dove infatti sono andata, anziché assistere ai corsi. Il medico ha voluto sapere cosa fosse successo ed io sono scoppiata a piangere. Tra i singhiozzi gli ho raccontato tutto. Lui mi ha visitata e ha steso un rapporto menzionante tutti i lividi che avevo sul corpo. Anche le dita della mano, lo ha confermato la radiografia, erano rotte. Era molto preoccupato e con lui i suoi colleghi. Mi hanno tutti consigliato di lasciare mio marito. Ho chiesto consiglio ad una compagna di corso che aveva il padre poliziotto e che mi ha spinta a sporgere querela. Il giorno dopo la polizia è venuta a prendermi, insieme alla mia bambina e mi ha portato in una casa per donne maltrattate. E’ in questo momento che si è messo in moto un meccanismo infernale dal quale non sarei più uscita.
Dal giorno seguente quelle donne facevano pressione su di me affinché mettessi mia figlia sotto la tutela dello Jugendamt [con la scusa di anticipare gli alimenti, lo Jugendamt si fa firmare, soprattutto dalle donne chiuse in queste case create per difenderle, una dichiarazione con la quale aprire la procedura amministrativa della Beistandschaft, far cioè anticipare degli importi, ma soprattutto far cedere dalla madre i diritti sul minore che passano dunque a tutti gli effetti allo Jugendamt!] e mi chiedevano con insistenza il permesso di soggiorno.
Mio marito ha contattato la polizia per denunciare la nostra scomparsa ed è così che è stato informato della querela che avevo sporto contro di lui. Ma lui, tedesco, sapeva bene come muoversi. Ha pagato 450 euro affinché la sua fedina penale restasse limpida e subito dopo ha chiesto il divorzio e la potestà esclusiva sulla bambina. Le impiegate della casa per donne maltrattate mi hanno consigliato un avvocato, ma mi hanno anche imposto incontri settimanali con la psicologa per superare lo shock; anche la bimba doveva seguire una terapia, mentre la mia stessa avvocata organizzava incontri della piccola con il padre. Me ne sono andata da quella casa che mi faceva paura e mi sono rifugiata da amici, ma ormai dovevo rispondere di tutto allo Jugendamt. In questo periodo, il fatto più devastante è stato senz’altro l’incontro settimanale con la psicologa della casa dalla quale dovevo continuare ad andare. Questa donna, pagata dallo Jugendamt, provava un piacere perverso a destabilizzarmi, a relativizzare ogni mia sofferenza rispetto al mio vissuto di violenza e soprattutto ad impormi il suo punto di vista. Mi stava crollando il mondo addosso, non capivo più cosa mi stava succedendo e tanto meno capivo perché solo io dovevo ricevere un tale trattamento psicologico, mentre il mio ex marito ne era del tutto esente. Questa “terapia” è andata avanti per 8 settimane, al termine delle quali ero completamente priva di forze.
Invece mia figlia era stata obbligata ad andare in visita dal padre. Piangeva e si dibatteva, si avvinghiava a me per non salire in macchina, ma io non potevo aiutarla ed ero obbligata a dargliela.
A questo punto, mentre il procedimento di divorzio era ancora in corso [in Germania non esiste la separazione, dopo un anno di separazione di fatto viene decretato il divorzio, tranne quando il genitore collocatario dei figli è straniero; in questo caso il tribunale tedesco non sentenzia fino a quando non sono state costruite le motivazioni per trasferire il collocamento del minore presso il genitore tedesco!], la giudice ordina una perizia psicologica. Sono stati incaricati due psicologi, due uomini che sono venuti a casa nostra per un mese e mezzo e hanno osservato, ogni volta per un’intera mattinata, l’interazione tra me e mia figlia. Con il mio ex marito hanno parlato in privato una sola volta. La relazione da loro redatta consigliava una terapia per me e visite sempre più ampie per il padre. Anche la giudice, durante l’udienza, mi ha accusata di essermi inventata le violenze e di avere una erronea percezione della realtà. Ha lasciato che la bambina continuasse a vivere con me, ma con enormi limitazioni alla mia libertà. Pochi mesi dopo il mio ex marito ha fatto aprire un nuovo procedimento con il quale richiedeva nuovamente la potestà esclusiva. La giudice ha nuovamente disposto una perizia e ha nominato un “Verfahrenspfleger” [sorta di curatore o tutore che collabora con lo Jugendamt e che viene nominato anche se i genitori hanno la piena potestà], una donna che veniva regolarmente a casa nostra e sgridava mia figlia ogni volta che non rispondeva come lei desiderava. Questo donna ha scritto due relazioni, nella prima consigliava che la bambina andasse a vivere dal padre e nella seconda evidenziava che la bambina stesse psicologicamente molto male, che soffrisse per via del conflitto genitoriale e che dunque la giudice avrebbe dovuto sentenziare al più presto per calmare la situazione. Nell’udienza fissata e rimandata più volte, l’avvocato del mio ex marito non c’era e la mia è arrivata con grande ritardo. In realtà la presenza dei genitori non è determinante nei tribunali familiari tedeschi; erano presenti lo Jugendamt e questa “Verfahrenspflegerin”, dunque i veri genitori, per la giurisdizione tedesca, della bambina. Sono stata criticata per qualunque cosa, dalla scelta della scuola, a quella dell’appartamento che sarebbe stato troppo piccolo, dal tipo di letti, ecc… La mia avvocata, taceva [fatto raccontato da tutti i genitori non-tedeschi alle prese con la giurisdizione tedesca!]. Pochi giorni dopo, la giudice e la Verfahrenspflegerin hanno ascoltato la bambina, come sempre avviene in Germania, senza registrazione, senza la presenza delle parti, senza uno straccio di prova. Mia figlia, si legge comunque nel riassunto redatto dalla giudice, avrebbe detto di voler continuare a vivere con me e vedere il padre con la cadenza già in atto.
Sono giunte le vacanze estive. La bimba ha passato la seconda metà delle vacanze con il padre e in quel periodo il tribunale ha emesso la sentenza: la piccola vivrà con il padre, andrà in una scuola soltanto tedesca, i genitori hanno l’affido condiviso. La giudice ha però omesso completamente di indicare quando e come la bambina vedrà sua madre. [come sempre quando si tratta di genitori non-tedeschi]. Risultato: cinque anni e mezzo di sofferenze per perdere mia figlia”.
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