sabato 27 luglio 2013

Il disegno di legge AS724 per la promozione della soggettività femminile e per il contrasto al femminicidio

Quella che segue è la relazione con cui un gruppo di paramentari ha presentato in Senato l’A.S.724  “Disposizioni per la promozione della soggettività femminile e per il contrasto al femminicidio".  
Si tratta di un disegno di legge volto a contrastare la violenza, che introduce fra l'altro:
• un codice dei media orientato a principi di rispetto della dignità delle donne,
• misure a sostegno dei centri antiviolenza,
• modifiche al codice penale in materia di violenza agita in presenza di minorenni, 
• la creazione di un  fondo per il contrasto della violenza e di specifiche banche dati,
• tutele lavorative e disposizioni mirate a combattere la violenza economica,
• programmi di riabilitazione dedicati agli uomini condannati per violenze,
• formazione di personale di polizia in materia di delitti contro la personalità individuale e libertà sessuale.
• misure di prevenzione, anche da realizzare con il coinvolgimento delle scuole e delle forze dell’ordine.

Ma rimandiamo inoltre al testo completo, interessante anche per la semplicità di linguaggio che ne rende agevole la comprensione. E naturalmente anche la sintesi (quasi integrale) della relazione che riportiamo qui. Guardiamo con speranza a una proposta di legge finalmente scaturita da una visione di insieme capace di approccio inter e multidisciplinare. Non dubitiamo che incontrerà molti oppositori: teniamola d’occhio.

Onorevoli Senatori. È necessaria una nuova legge organica per la promozione della soggettività femminile e il contrasto al femminicidio, che abbia un approccio integrale e multidisciplinare e che sia formulata anche secondo le più recenti convenzioni internazionali e le raccomandazioni del comitato CEDAW.
Un disegno di legge in linea con le raccomandazioni del comitato CEDAW
La Convenzione sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne, Convention on the Elimination of All Forms of Discrimination against Women (CEDAW), adottata nel 1979 dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite, viene intesa comunemente come carta internazionale dei diritti per le donne. Secondo l’articolo 1 la discriminazione comprende la violenza di genere, vale a dire, la violenza diretta contro le donne in quanto donne, o che colpisce le donne in modo sproporzionato. Vi rientrano le azioni che procurano sofferenze o danni fisici, mentali o sessuali, nonché la minaccia di tali azioni, la coercizione e la privazione della libertà.
L’Italia ha ratificato la CEDAW il 10 giugno 1985 e successivamente ha aderito al protocollo opzionale. Gli Stati che hanno ratificato la CEDAW e le altre carte regionali si sono assunti un obbligo ben preciso: adoperarsi affinché le donne abbiano cittadinanza, ovvero affinché possano in concreto godere dei loro diritti fondamentali. Il che implica per lo Stato l’obbligo di attivarsi per rimuovere le situazioni discriminatorie, non solo attraverso modifiche normative ma anche e soprattutto promuovendo un cambiamento culturale, stabilendo che la libertà di scelta della donna, la sua integrità psico-fisica, sono valori assoluti da riconoscere [obbligo che, ricordiamo, lo Stato italiano si è assunto anche con la recente ratifica della Convenzione di Istanbul, ndr].
Per muoversi nello spirito delle raccomandazioni del comitato CEDAW è necessario un intervento legislativo organico e integrato che agisca su vari piani: culturale, formativo, legislativo e che soprattutto abbia un forte impatto sulla società. Anche perché, come scritto nel preambolo della CEDAW; «Le pratiche discriminatorie ostacolano la partecipazione delle donne ad ogni aspetto della vita del proprio paese in condizioni di parità con gli uomini, il che intralcia la crescita del benessere delle società e delle famiglie».
La violenza alle donne come genocidio nascosto
La violenza oggi non è solo residuale. È piuttosto una nuova risposta a cambiamenti introdotti dalle donne. La violenza maschile sulle donne è la prima causa di morte delle donne in tutta Europa e nel mondo. la violenza alle donne come genocidio nascosto -- per dirla come Amartya Sen -- non è un residuo del passato e non va assolutamente sottovalutata. Dietro il femminicidio introdotto nel dibattito nazionale ed internazionale c’è non solo l’omicidio di donne – in questo caso si parla di femmicidio, che è concetto diverso -- ma la continua erosione della loro dignità, il tentativo di negare la piena espressione della loro personalità. Il femmicidio costituisce solo la cima di un enorme iceberg sommerso.
La violenza sulle donne non è solo il frutto di un’aggressione individuale. Esiste una dimensione sociale della violenza e il fatto che gran parte della violenza si svolga in famiglia significa che la dimensione sociale include i rapporti coniugali, tra partner e genitoriali. Solo un’infinitesima parte degli aggressori è affetta da alterazione più o meno momentanea (alcolisti, tossicodipendenti, persone con problemi mentali); è un fenomeno trasversale a ceti ed ambienti e bisogna andare a fondo per capire perché cittadini ritenuti assolutamente normali, di ogni professione e livello culturale, attaccano l’identità delle loro mogli o compagne e perché provano, e spesso riescono, ad umiliarla e distruggerla.
Femmicidio e femminicidio
Già nel 1995, la IV Conferenza mondiale delle Nazioni Unite definì la violenza di genere come il manifestarsi delle relazioni di potere storicamente ineguali fra donne e uomini. L’elaborazione teorica accademica utilizza il concetto di femminicidio per identificare le violenze fisiche e psicologiche contro le donne che avvengono in (e a causa di) un contesto sociale e culturale che contribuisce a una sostanziale impunità sociale di tali atti, relegando la donna, in quanto donna, a un ruolo subordinato e negandole, di fatto, il godimento del diritti fondamentali. 
Il termine è il frutto della collaborazione tra istituzioni accademiche, enti non governativi e movimenti in difesa del diritti delle donne, da questa congiuntura di idee e competenze nasce una nuova prassi e un fondamentale sviluppo concettuale.
Il concetto di femminicidio comprende, infatti, non solo l’uccisione di una donna in quanto donna (femmicidio), ma ogni atto violento o minaccia di violenza esercitato nel confronti di una donna in quanto donna, in ambito pubblico o privato, che provochi o possa provocare un danno fisico, sessuale o psicologico o sofferenza alla donna. L’uccisione della donna è quindi solo una delle sue estreme conseguenze, l’espressione più drammatica della diseguaglianza esistente nella nostra società.
L’antropologa messicana Marcela Lagarde, fra le teoriche del concetto di femminicidio, sottolinea il carattere strutturale del problema evidenziando come «La cultura in mille modi rafforza la concezione per cui la violenza maschile sulle donne è un qualcosa di naturale, attraverso una proiezione permanente di immagini, dossier, spiegazioni che legittimano la violenza, siamo davanti a una violenza illegale ma legittima, questo è uno dei punti chiave del femminicidio». 
È, infatti, proprio il contesto culturale ad implicare la sostanziale impunità sociale e la «normalizzazione» del fenomeno che legittimano il femminicidio, soprattutto quando le istituzioni si mostrano inadeguate ad affrontarne la drammaticità e specificità.
Occorre una nuova stagione delle relazioni
Molti studi dicono che la violenza sulle donne non è mal reazione ad un torto e neanche e soltanto lo sfogo maschile a proprie insoddisfazioni o frustrazioni. 
È molto di più: richiama un livello qualitativamente diverso. Attiene a profonde motivazioni culturali, ai modelli del rapporto tra i generi, tra le persone. Per questo la violenza oggi non è purtroppo [non è solo, ma in buona parte lo è, ndr] frutto di arcaismi. La violenza in tutte le sue forme è piuttosto un modo per riappropriarsi di un ruolo gerarchicamente dominante a cui sono connessi privilegi.
Ma soprattutto è crisi d’identità
Il punto vero è la crisi di identità nelle relazioni tra uomini e donne, nel campo più intimo della relazione, nella relazione amorosa. Occorre una nuova grammatica delle relazioni. A fronte di una nuova identità femminile stenta ad affermarsi una nuova identità maschile in grado di porvisi in relazione.
La radice della moderna violenza sta nella fragilità dei ruoli e nella fragilità della relazione. Ancora non abbiamo conseguito una forma di relazione tra soggetti autonomi che siano in grado di stare su di un piano di pari autonomia e dignità. Per questo dobbiamo compiere un salto di qualità nella battaglia culturale, nell’assunzione di responsabilità dello Stato, perché la violenza ha radici moderne e non è quindi frutto di arcaismi. Un salto di qualità nell’azione, perché c’è un salto di qualità nella violenza, non già azione residua le di un mondo arretrato, bensì risposta nuova di una consapevolezza nuova delle donne rispetto ai loro diritti.
Un fenomeno in gran parte ancora sommerso
Dagli studi e dai media emerge un panorama inquietante di un fenomeno in gran parte ancora sommerso. «È violenza di genere - sostiene Linda Sabbadini, direttore del dipartimento per le statistiche sociali e ambientali dell’ISTAT - perché le donne la subiscono in quanto donne, in relazione alla loro diversità sessuale. È la violenza dell’intimità e non dell’estraneità, è la violenza di chi pensi che ti ami e non di chi ritieni sia un nemico. È una violenza vissuta in solitudine che non viene denunciata nella quasi totalità del casi».
Da ulteriori studi si è constatato che gran parte delle donne uccise lo sono per mano del marito o del partner. Ma questa è ancora violenza rumorosa, eclatante. Come lo è quella legata agli stupri etnici e alla prostituzione coatta, moderna forma di «tratta delle bianche». È purtroppo solo una minima parte delle violenze. La gran parte della violenza è però silenziosa e non si lascia rinchiudere, in modo rassicurante, nelle gabbie delle patologie o del mondo esterno cattivo. Le case e i centri delle donne ci dicono poi che i dati sono sempre in difetto rispetto alle realtà. Infatti nel maltrattamenti e negli abusi intrafamiliari una percentuale molto alta non viene denunciata all’autorità giudiziaria o alla denuncia seguono spesso periodi così lunghi di violenza morale che poi (in particolare per violenze non di tipo sessuale) è molto difficile procedere. La lenta reattività dell’ordinamento e della risposta giudiziaria espone le donne a ulteriore violenza e le induce anche alla fine ad accettare accordi che costituiscono in realtà una resa incondizionata al più forte e violento. Il presente disegno di legge muove dalla consapevolezza che i processi di cambiamento possono essere anche interrotti. La violenza, oltre che un danno alle singole persone, alle donne e alle bambine, è anche un attacco al cambiamento e al progresso sociale, alla nostra Costituzione e ai diritti umani.
Dimensione sociale della violenza e gerarchia del rapporti
La violenza di cui ci si occupa non appartiene quindi ad un mondo posto ai margini di rapporti quotidiani improntati normalmente al rispetto reciproco in famiglia e nel lavoro o esclusivamente a mondi che esplodono in guerre o in crisi drammatiche. Certamente una parte di violenza è legata a questi mondi «particolari» ed essa ha toccato negli ultimi anni in modo terribile molte donne In Paesi a noi vicini, molte ragazze, giovani, bambine, costrette da gruppi criminali a prostituirsi o a cadere nelle maglie terribili della tratta. Ma c’è una connessione tra mondi particolari e mondo normale, sì che il mondo che unisce insieme i tipi di violenza compiuti, nell’uno e nell’altro mondo, va a costruire una robusta trama in cui si cerca di impigliare l’identità individuale e collettiva delle donne e di congelare ruoli sociali e culturali.
La violenza, morale, psicologica, fisica, economica, sessuale, da parte del partner è piuttosto un modo per riappropriarsi di un ruolo a cui sono connessi privilegi e soprattutto di un ruolo gerarchicamente dominante. La violenza diventa quindi uno strumento usato contro la donna che non vuole riconoscere questo potere, questa gerarchia nel rapporti, così come ci è stata consegnata dal passato. Forse per questo la violenza non si ferma neanche di fronte alla gravidanza.
Il sostegno dei centri anti violenza
È significativo che, laddove esistono forti centri antiviolenza, se a sostenere le donne ci sono le case ed i centri delle donne, e se si formano pool antiviolenza, anche con protocolli d’intesa tra le istituzioni, le denunce di violenza aumentino. Si allenta la paura, si rafforza la volontà di rompere la complicità con la violenza anche perché c’è chi può aiutare nella volontà di tornare libere. In Italia non tutti i centri possono offrire ospitalità alle donne vittime di violenza e al loro figli. Secondo i dati di Telefono Rosa, complessivamente su 127 centri esistenti in Italia 99 sono gestiti da associazioni di solo donne e solo 61 hanno una casa rifugio per una capacità complessiva di circa 500 posti letto. Non c’è una equa distribuzione di centri antiviolenza su tutto il territorio nazionale: molte regioni ne hanno pochissimi, alcune regioni nessuno.
Il Consiglio d’Europa raccomanda un centro antiviolenza ogni 10.000 persone e un centro d’emergenza ogni 50.000 abitanti. In Italia dovrebbero esserci 5.700 posti letto ce ne sono solo 500. Siamo lontano dagli standard europei richiesti.
L’importanza della prevenzione
La violenza, per essere realmente combattuta ha bisogno di un cambiamento culturale, e nessuna legge, anche la più rigorosa dal punto di vista penale, può arginare la violenza se non è accompagnata da una volontà di cambiamento nel rapporto tra i sessi e le persone. Decisivo il ruolo di prevenzione che possono svolgere le scuole, come potenti agenti di cambiamento, con iniziative di sensibilizzazione, informazione e formazione che conferiscano agli studenti autonomia e capacità d’analisi. La presenza di un referente per l’educazione alla relazione, come indicato dal disegno di legge, può sollecitare misure educative a favore delle pari opportunità tra generi e della promozione della soggettività femminile. importante anche la presenza di nuclei specializzati tra le Forze dell’ordine e nelle ASL.
La sottolineatura della prevenzione della violenza sollecita le istituzioni a farsi carico del fenomeno a 360°: ciò significa agire anche sugli uomini che la perpetrano. L’ipotesi di un lavoro con gli uomini era, fino a pochi anni fa, assolutamente non considerata, ma in questi ultimi anni è diventata evidente la necessità di lavorare anche con gli uomini, nell’ambito della lotta agli stereotipi culturali e di genere. L’articolo 5 del CEDAW sottoscritto anche dall’Italia vuole il nostro impegno in questa direzione. Tra le esperienze internazionali più interessanti c’è quella realizzata da anni in Canada: il Correctional service of Canada (CSC) nel National family violence prevention programs dell’anno 2001, che ha tracciato le linee guida di programmi riabilitativi forniti principalmente su autori di sesso maschile che sono stati violenti verso le loro partner. Anche nel Regno Unito dal 1991 è stato creato e avviato un progetto dal titolo «Domestic violence intervention project», il cui fulcro è la conduzione di gruppi di uomini con l’obiettivo di comprenderei motivi alla base della violenza e porre fine all’uso della stessa all’interno delle relazioni affettive. In Italia esistono già interessanti esperienze in tal senso a Roma e a Torino. Il disegno di legge affronta tutti questi aspetti della prevenzione; questi programmi mirati vanno sostenuti perché possono migliorare la sicurezza della vittima e concorrere ad interrompere il circuito della violenza.
Il panorama nazionale e internazionale
Una nuova cultura dei diritti umani
Dalla Quarta conferenza Internazionale sulle donne tenutasi a Pechino nel 1995 alla Conferenza mondiale di Stoccolma contro lo sfruttamento sessuale dei minori del 1996, dalle ultime iniziative dell’ONU a quelle europee, emergono una più matura elaborazione del fenomeno della violenza e una più forte assunzione di responsabilità.
Negli ultimi anni si sono infatti moltiplicate le prese di posizione, le raccomandazioni, le risoluzioni deIl’ONU, dell’UNICEF, del Parlamento e del Consiglio d’Europa.
Il filo conduttore è dato dall’innestarsi di una nuova cultura dei diritti umani, inclusiva di quelli delle donne e del bambini e bambine. Lo sguardo alla violenza diviene, allora, sempre più lo sguardo alla violazione dei loro diritti. La stessa concreta solidarietà a chi incontra la violenza, perché non rimanga -- anche se è importante in sé -- fenomeno momentaneo ed isolato, sollecita una più moderna concezione del rapporti tra donne e uomini, una più elevata visione dell’infanzia e dell’adolescenza.
L’Unione europea
Il fenomeno produce un rifiuto collettivo e un evidente allarme sociale nella cittadinanza europea. Secondo Eurobarometro, l’87 per cento dei cittadini europei condivide e appoggia le politiche dell’Unione europea contro la violenza domestica.
Il fenomeno nel suo complesso è all’attenzione nel panorama europeo e internazionale. Fra i numerosi documenti delle istituzioni europee relativi al fenomeno della violenza di genere citiamo la risoluzione del Parlamento europeo sulla violenza contro le donne e programma Daphne del 1999 (proclamato dallo stesso Parlamento «Anno europeo della lotta contro la violenza nei confronti delle donne»), che sollecita un approccio coordinato per contrastare su scala nazionale la violenza di genere, implementando strategie che coinvolgano diversi strumenti per prevenire le violenze e affrontarne le conseguenze. A questa risoluzione ha fatto seguito il Programma d’azione comunitaria sulle misure preventive intese a combattere la violenza contro i bambini, i giovani e le donne (2000-2003, programma DAPHNE), emanato dal Parlamento europeo e dal Consiglio d’Europa e la raccomandazione Rec (2002) 5 del Comitato dei Ministri agli Stati membri sulla protezione delle donne dalla violenza adottata il 30 aprile 2002. Una delle priorità indicate dalla strategia quinquennale 2010-2015 adottata dalla Commissione europea è il contrasto alla violenza di genere.
La risoluzione del Parlamento europeo del 5 aprile 2011 in materia di lotta alla violenza contro le donne [2010/2209 (INI)] riporta che il 20-25 per cento delle donne europee ha subito atti di violenza fisica almeno una volta nella vita adulta e che più del 10 per cento ha subito violenze sessuali che comportano l’uso della forza. Il Parlamento europeo indica il mezzo per ridurre significativamente il fenomeno in un insieme di azioni infrastrutturali, giuridiche, giudiziarie, esecutive, didattiche, sanitarie e di interventi nel settore dei servizi. Inoltre, la risoluzione invita commissione e Stati membri ad affrontare il problema della violenza contro le donne e la dimensione di genere delle violazioni del diritti umani sul piano internazionale. 
Fra gli strumenti internazionali esistenti per riconoscere e contrastare il fenomeno citiamo: la CEDAW del 1979, la Dichiarazione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite sull’eliminazione della violenza contro le donne del 1993, la Piattaforma per l’azione approvata dalla IV Conferenza mondiale sulla donna dell’ONU a Pechino nel 1995, per la quale il Consiglio europeo del 1995 ha stabilito la stesura di rapporti annuali sull’implementazione, che prevede un approccio integrato al fenomeno e ribadisce che i diritti umani delle donne e delle bambine sono parte inalienabile, integrale e indivisibile dei diritti umani universali, la risoluzione dell’Assemblea mondiale della sanità «Prevenzione della violenza: una priorità della sanità pubblica» del 1996, dove l’OMS riconosce la violenza come problema cruciale per la salute delle donne; la risoluzione (n. 52/86) dell’Assemblea generale dell’ONU su «Prevenzione del reati e misure di giustizia penale per eliminare la violenza contro le donne». Tutti i documenti citati concordano nel riconoscere come la violenza di genere sia generata dal contesto culturale e violi e limiti i diritti fondamentali delle donne in un quadro di grave inadeguatezza delle risposte istituzionali.
L’Organizzazione generale della Nazioni Unite
Nel 1985 anche l’Italia ha ratificato la più volte citata CEDAW adottata dall’Assemblea generale dell’ONU nel 1979, impegnandosi ad adottare «misure adeguate per garantire pari opportunità a donne e uomini in ambito sia pubblico che privato». Il monitoraggio dei risultati avviene ogni 4 anni. Gli Stati firmatari presentano un rapporto governativo con tutti gli Interventi portati avanti per raggiungere i risultati richiesti dalla CEDAW.
Le ultime raccomandazioni del comitato CEDAW al nostro Paese sono state fatte in occasione della 49ª sessione di valutazione tenutasi nel luglio 2011 presso le Nazioni Unite a New York e sono state pubblicate il 3 agosto 2011. Tra tre anni sarà la volta di un nuovo rapporto periodico, il settimo da quando esiste la Convenzione. Nelle raccomandazioni del 2011, il comitato CEDAW ha accolto con favore l’adozione del decreto-legge 23 febbraio 2009, n. 11, convertito, con modificazioni, dalla legge 23 aprile 2009, n. 38, che introduce il reato di stalking in Italia, «Il Piano di azione nazionale per combattere la violenza nei confronti delle donne e lo stalking, casi come la prima ricerca completa sulla violenza fisica, sessuale e psicologica nei confronti delle donne, sviluppata daIl’ISTAT». Azioni che, però, non bastano: «il Comitato rimane preoccupato per l’elevata prevalenza della violenza nei confronti di donne e bambine nonché per il persistere di attitudini socio-culturali che condonano la violenza domestica, oltre ad essere preoccupato per la mancanza di dati sulla violenza contro le donne e bambine migranti, Rom e Sinte». E prosegue: «Il Comitato è inoltre preoccupato per l’elevato numero di donne uccise dai propri partner o ex-partner, che possono indicare Il fallimento delle Autorità dello Stato-membro nel proteggere adeguatamente le donne, vittime del loro partner o ex-partner».
Il Rapporto Ombra, il primo Rapporto tematico sul femminicidio dell'ONU e i dati ISTAT
Oltre al rapporto governativo, in parallelo e autonomamente anche la società civile redige un proprio rapporto: il «Rapporto Ombra». Il comitato CEDAW, composto da 23 esperti provenienti da tutto il mondo, eletti dagli Stati firmatari, esamina entrambi i rapporti e formula le proprie raccomandazioni allo Stato, che è tenuto a considerarle nell’ottica dell’avanzamento delle donne nella società e a risponderne negli anni successivi.
Secondo il Rapporto Ombra elaborato dalla Piattaforma «Lavori in corsa: 30 anni CEDAW» presentato il 17 gennaio 2012 alla Camera dei deputati, insieme alle raccomandazioni del Comitato CEDAW, la violenza maschile sulle donne è la prima causa di morte per le donne in tutta Europa e nel mondo. Nel nostro continente ogni giorno sette donne vengono uccise dai propri partner o ex-partner. In Italia solo nel 2010 i casi di femminicidio sono stati 127: 116,7% in più, rispetto all’anno precedente. Di queste, 114 sono state uccise da membri della famiglia. In particolare, 68 sono state uccise dal partner e 29 dall’ex partner. Dunque, in più della metà dei casi il femmicidio è stato commesso nell’ambito di una relazione sentimentale, in corso o appena terminata, per mano del coniuge, convivente, fidanzato o ex. La maggior parte delle vittime è italiana (78%), così come la maggior parte degli uomini che le hanno uccise (79%). Solo una minima parte di questi delitti è avvenuta per mano di sconosciuti. Nella restante parte dei casi è avvenuto per mano di un altro parente della vittima o comunque di persona conosciuta. È uno degli aspetti più delicati su cui si concentra il «Rapporto Ombra» della società civile sulla condizione delle donne in Italia. I media – si legge nel Rapporto – spesso presentano i casi di femmicidio come frutto di delitti passionali, di un’azione improvvisa ed imprevedibile di uomini vittime di raptus e follia omicida. In realtà questi sono l’epilogo di un crescendo di violenza a senso unico e generalmente sono causati da un’incapacità di accettare le separazioni, da gelosie, da un sentimento di orgoglio ferito, dalla volontà di vendetta e punizione nei confronti di una donna che ha trasgredito a un modello comportamentale tradizionale. Un ruolo che in Italia è ancora relegato a quello di madre e moglie, oppure di oggetto del desiderio sessuale. Secondo il Rapporto Ombra, nel momento in cui la donna italiana cerca di uscire da questi schemi, nasce il rifiuto del partner maschile alla sua emancipazione che si trasforma in forme di controllo economico, di violenza psicologica, di violenza fisica, e che può arrivare fino all’uccisione della donna.
Il 25 giugno 2012 è stato presentato all’ONU il primo Rapporto tematico sul femminicidio, frutto del lavoro realizzato in Italia da Rashida Manjoo, preceduto nell’ottobre 2011 da un seminario convocato a New York dalla relatrice speciale. Il seminario ha coinvolto 25 esperti provenienti da diverse aree geografiche e appartenenti al mondo universitario, alle organizzazioni della società civile, ad agenzie delle Nazioni Unite, tutti con comprovate competenze tecniche e professionali in materia di femminicidio.
Si afferma nel Rapporto che il continuum della violenza nella casa si riflette nel crescente numero di vittime di femminicidio. Dall’inizio degli anni 1990, il numero di omicidi di uomini da parte di uomini è diminuito, mentre il numero delle donne uccise da uomini è aumentato. Un rapporto sul femminicidio basato sulle informazioni fornite dai media indica che nel 2010 ben 127 donne sono state assassinate da uomini. Di queste, il 78% erano italiane e anche il 79% degli autori erano italiani. Ciò contrasta con l’opinione comune che tali crimini siano commessi da uomini stranieri, percezione rinforzata dai media. Nel 54% del casi l’autore era o un partner o ex partner, solo nel 4% dei casi l’autore era sconosciuto alla vittima.
Un aspetto sottovalutato è la forza emulativa del femminicidio. I femminicidi sono stati considerati degli «eventi seriali», non perché l’omicida fosse lo stesso, ma perché gli omicidi perpetrati erano simili nel modus operandi, nelle dinamiche, nella forza evocativa. Il pericolo sociale degli stessi, pertanto, ha un impatto da non sottovalutare e per questo delle misure integrate e interdisciplinari sono e rimarranno l’unico deterrente.
Secondo la Manjoo la maggior parte delle violenze non sono denunciate perché perpetrate in un contesto culturale maschilista dove la violenza domestica non è sempre percepita come un crimine, dove le vittime sono economicamente dipendenti dai responsabili della violenza e persiste la percezione che le risposte fornite dallo Stato non sono adeguate per riconoscere il fenomeno, perseguire per via legale gli autori di tali crimini e garantire assistenza e protezione alle vittime.
Il rapporto ONU rileva che in Italia gli stereotipi di genere sono profondamente radicati e predeterminano i ruoli di uomini e donne nella società. Analizzando i dati relativi alla presenza nei media, il 46 per cento delle donne appare associato a temi quali il sesso, la moda e la bellezza e solo il 2 per cento a questioni di impegno sociale e professionale.
Iniziative italiane come il Piano di azione nazionale contro la violenza non hanno portato miglioramenti significativi. Inoltre, la mancanza di dati ufficiali disaggregati per genere, raccolti da istituzioni nazionali, impedisce di misurare accuratamente la portata del fenomeno. Si tratta di una grave mancanza del nostro Paese, che non ha ancora dato seguito alle numerose sollecitazioni da parte degli organismi internazionali che richiedono a tutti gli Stati di predisporre strumenti adeguati per il monitoraggio del fenomeno.
Conclude Rashida Manjoo, special rapporteur ONU, che l’attuale situazione politica ed economica dell’Italia non può essere utilizzata come giustificazione per la diminuzione di attenzione e risorse dedicate alla lotta contro tutte le manifestazioni della violenza su donne e bambine in questo Paese. Si tratta a tutti gli effetti di un contesto di negazione, limitazione e violazione di quei diritti fondamentali che costituiscono la base di uno Stato democratico.
In Italia
Studi accademici e autorevoli analisi dei dati raccolti dai media, da organizzazioni non governative e da numerose associazioni, indicano un aumento degli episodi di discriminazione e violenza di genere in Italia. I dati istituzionali che misurano il fenomeno della violenza contro le donne sono limitati ad anni o temi particolari, ancora non esiste un piano nazionale per le indagini in questo ambito e spesso, pur in presenza di dati disaggregati, le istituzioni non si mostrano in grado di leggerli in un’ottica di genere, trascurando così cruciali caratteristiche dei fenomeni analizzati.
I dati del Rapporto annuale ISTAT evidenziano una diminuzione generale degli omicidi nell’ultimo ventennio. Tuttavia, disaggregando i dati per genere, si nota che le variazioni nei tassi di omicidio dagli anni ’70 -- come rileva Linda Laura Sabbadini, direttore del dipartimento per le Statistiche sociali e ambientali dell’ISTAT -- sono dipese esclusivamente da variazioni nella conflittualità tra uomini: sono diminuiti gli omicidi dei maschi sui maschi e non sono stati intaccati quelli dei maschi sulle femmine. I dati -- prosegue -- parlano chiaro: la violenza più diffusa contro le donne è quella domestica, che non ti aspetti, che viene da mariti, fidanzati, ex. Lo hanno sempre detto i centri antiviolenze, lo abbiamo confermato con la nostra indagine. Nel 2011 sono state 137 le donne uccise in Italia, dieci in più dell’anno precedente, nel 2012 le donne uccise sono state 124 e nel 2013 fino ad oggi già più di 25 donne sono state uccise da uomini, spesso mariti, compagni o ex-partner.
Se oggi l’ONU, e di conseguenza l’informazione di massa, parla senza mezzi termini di femminicidio anche in relazione all’Italia, è perché ci sono state donne che da anni hanno reclamato il riconoscimento anche per le donne, in quanto donne, di quei diritti umani affermati a livello universale, ed in particolare del diritto inalienabile alla vita e all’integrità psicofisica. Il riconoscimento e il contrasto del femminicidio in Italia è un ulteriore passo fondamentale di riconoscimento degli storici sforzi delle donne per godere dei diritti fondamentali inalienabili e universali propri di ogni individuo. L’elaborazione del presente disegno di legge ha beneficiato degli apporti teorici e pratici frutto del lavoro e dell’esperienza di donne e gruppi di donne, associazioni e organizzazioni, che lavorano in tutti gli ambiti del contesto internazionale, nazionale e locale. L’obiettivo è predisporre uno strumento efficace che contribuisca a sradicare ogni forma di discriminazione e violenza contro la donna in quanto donna, evitando prospettive falsamente neutrali che non rispecchiano la realtà in questo ambito e che affronti in modo integrale un fenomeno che ostacola il raggiungimento dell’uguaglianza sostanziale della donna in tutte le dimensioni della sua vita.
Il percorso normativo
La nostra Costituzione stabilisce all’articolo 3 il ripudio di ogni forma di discriminazione e attribuisce allo Stato il dovere di «rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese». I poteri pubblici non possono, quindi, omettere di predisporre misure adeguate a contrastare un fenomeno che evidenzia lo squilibrio fra i generi ancora esistente nella nostra società e, costituisce un ostacolo al raggiungimento degli obiettivi di uguaglianza sostanziale delle donne. Negli ultimi anni lo Stato italiano ha provveduto a diversi adeguamenti della legislazione interna, oltre ad aver stabilito interventi volti ad avanzare verso il raggiungimento di un’uguaglianza sostanziale fra i generi nel godimento del diritti fondamentali. Fra le iniziative più rilevanti possiamo citare la legge 15 febbraio 1996, n. 66, «Norme contro la violenza sessuale», la direttiva del Presidente del Consiglio del ministri 27 marzo 1997, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 116 del 21 maggio 1997, «Azioni volte a promuovere l’attribuzione di poteri e responsabilità alle donne, a riconoscere e garantire libertà di scelte e qualità sociale a donne e uomini», che stabilisce di sviluppare con l’ISTAT e il Sistema statistico nazionale nuove metodologie d’indagine sui fenomeni di violenza e abusi sessuali e di procedere alla raccolta ed elaborazione di dati disaggregati per sesso e per età, la legge 3 agosto 1998, n. 269, «Norme contro lo sfruttamento della prostituzione, della pornografia, del turismo sessuale in danno di minori, quali nuove forme di riduzione in schiavitù», la legge 4 aprile 2001, n. 154, «Misure contro la violenza nelle relazioni familiari», il decreto-legge 23 febbraio 2009, n. 11, convertito, con modificazioni, dalla legge 23 aprile 2009, n. 38, «Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale, nonché in tema di atti persecutori», cosiddetta «legge anti-stalking». Questi interventi hanno avuto importanti impatti nel diversi ambiti regolati e costituiscono interventi cruciali per il raggiungimento dell’uguaglianza sostanziale fra uomini e donne.
Il 27 settembre 2012, dopo numerose sollecitazioni del Parlamento, delle associazioni e delle organizzazioni, l’Italia ha finalmente firmato la Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e il contrasto della violenza sulle donne e la violenza domestica, firmata ad Istanbul l’11 maggio 2011 da più di dieci Stati europei. Ora si deve provvedere al più presto alla relativa ratifica.
Ma soprattutto c’è bisogno di una nuova legge in materia di contrasto al femminicidio.

Il testo del disegno di legge
Riconoscendo la gravità del fenomeno del femminicidio nel nostro Paese e proponendo misure specifiche per contrastarlo, questo disegno di legge risponde alla necessità di contribuire alla risposta globale alle violenze di genere, proponendo un approccio integrale e multidisciplinare.
Al capo I si introducono le nozioni di femminicidio e discriminazione di genere.
Tra le norme di carattere preventivo il disegno di legge prevede una serie di misure volte a sensibilizzare l’opinione pubblica rispetto al fenomeno della violenza di genere e a promuovere una rappresentazione della donna come soggetto portatore di una propria soggettività e dignità da rispettare. Il disegno di legge vuole predisporre adeguati strumenti per agire su quelle che sono le principali cause del femminicidio, ovvero la rappresentazione di stereotipi sessisti nelle relazioni, tali da perpetuare determinati rapporti di potere tra sessi, che implicano la subordinazione della donna. In tal senso, ad esempio, 
al capo II (Formazione, informazione, sensibilizzazione, promozione culturale)
si prevede l’adozione di un codice di autoregolamentazione per i media, redatto secondo il modello della soft law dagli stessi operatori e dagli organi rappresentanti delle categorie interessate, trasfuso in un apposito regolamento e reso cogente dal richiamo che lo stesso disegno di legge vi effettua. Il ricorso al modello della self regulation appare particolarmente efficace in relazione a un fenomeno, quale quello in esame, le cui cause risiedono in larga parte nella rappresentazione e riproduzione di rapporti stereotipati fra i generi, spesso veicolate anche dai media. Il capo II del disegno di legge prevede inoltre, nella stessa ottica di prevenzione delle cause del femminicidio, l’istituzione nelle scuole della figura del referente per l’educazione alla relazione e inserimento nei programmi scolastici dell’educazione alla relazione, nonché protocolli d’intesa promossi dalle prefetture tra soggetti istituzionali, quali province, comuni, aziende sanitarie, consigliere di parità, uffici scolastici provinciali, Forze dell’ordine e del volontariato che operano sul territorio, al fine di contrastare efficacemente il fenomeno degli atti persecutori e della violenza contro le donne (articoli 3 e 4). Al fine di consentire un adeguato monitoraggio del fenomeno, e per rispondere alle richieste del Parlamento europeo ed altre istituzioni internazionali, si attribuisce all’ISTAT, sulla base di finanziamenti appositamente stanziati e aggiuntivi rispetto a quelli ordinari, il compito di assicurare lo svolgimento di una rilevazione statistica sulla discriminazione e la violenza di genere e sui maltrattamenti in famiglia, che ne misuri le caratteristiche fondamentali e individui i soggetti più a rischio con cadenza almeno quadriennale, istituendo un apposito Osservatorio sulla violenza nei confronti delle donne, accessibile anche agli enti impegnati in attività di ricerca.
Il capo III del disegno di legge (Tutela delle vittime di violenza) 
prevede norme per la tutela della vittima di violenze o discriminazioni di genere, volte a predisporre garanzie peculiari nel rapporto con le Forze dell’ordine al fine di evitare fenomeni di vittimizzazione secondaria. Le norme relative all’adeguamento delle strutture sanitarie prevedono la formazione di operatori specializzati e preparati ad accogliere, sostenere e soccorrere le donne vittime di tali abusi.
Per le vittime della violenza di genere si prevede una tutela peculiare anche sul piano previdenziale e lavorativo, inserendo tra i livelli essenziali delle prestazioni di accoglienza e socio-assistenziali le attività volte a fornire misure di sostegno alle donne vittime di violenza sessuale, stalking e maltrattamenti. Si sancisce il riconoscimento della possibilità di costituirsi nel giudizio penale per il centro che abbia assistito la vittima di violenza sessuale, maltrattamenti, tratta, stalking e altri delitti contro la personalità individuale o contro la famiglia o la libertà sessuale. Qualora ad essere vittime di violenza o abusi sessuali, maltrattamenti o stalking siano donne migranti, si estende a loro la sfera di applicazione del permesso di soggiorno ai sensi dell’articolo 18 del testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’Immigrazione e norme sulla condizione dello straniero di cui al decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 280. Al fine di interrompere il circuito della violenza, eliminandone le cause (molto spesso radicate in disagi psichici) si promuove l’istituzione di programmi di riabilitazione, su base volontaria, destinati agli autori della violenza. Si realizza poi un database interforze alimentato con dati di fonte giudiziaria o investigativa sulla violenza.
• Il capo IV (Case e centri delle donne) 
comprende la disciplina delle case e dei centri delle donne, quali luoghi nei quali non solo possa trovare tutela la vittima di violenza o di discriminazioni di genere, ma nei quali possa pure darsi libero corso a iniziative volte alla promozione della soggettività femminile, anche mediante azioni di solidarietà e accoglienza rivolte ai figli minori delle stesse donne, a prescindere dalla loro cittadinanza.
• Il capo V (Norme penali)
contiene appunto le norme penali si apre con la codificazione di un’aggravante comune per tutti ì delitti contro la persona commessi mediante violenza, realizzati alla presenza di minori; si qualifica poi un’aggravante specifica per il reato di maltrattamenti commesso, parimenti, alla presenza di minori (violenza assistita) e si estende il reato di maltrattamenti anche ai casi in cui la «persona di famiglia» non sia convivente (sulla scia delle indicazioni della Convenzione di Istanbul del 2011).
Si prevedono poi puntuali modifiche alla disciplina della violenza sessuale in relazione a talune fattispecie circostanziate e l’estensione dell’aggravante per lo stalking anche alle ipotesi in cui il fatto sia commesso dal coniuge, anche se separato solo di fatto. Tale modifica mira a correggere un’anomalia presente nel testo vigente, che sul piano applicativo determina l’incongrua conseguenza di dover irrogare al coniuge una pena inferiore a quella irrogabile all’ex partner della vittima ovvero di escludere la configurabilità dello stalking -- rispetto al coniuge -- riconoscendo invece sempre, in questi casi, la sussistenza del delitto di maltrattamenti in famiglia, con una sorta di interpretatio abrogans della novella di cui al citato decreto-legge n. 11 del 2009, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 38 del 2009.
Si prevede infine l’estensione delle aggravanti per discriminazione, previste tra l’altro dal decreto-legge 26 aprile 1993, n. 122, convertito, con modificazioni, dalla legge 25 giugno 1993, n. 205, la cosiddetta «legge Mancino», anche alle discriminazioni di genere. Inoltre, nella convinzione che la recidiva non possa sconfiggersi se non con un adeguato percorso di riabilitazione, si prevedono programmi specifici di questo tipo per i detenuti per reati di violenza contro le donne, al termine dei quali la magistratura si sorveglianza, valutando la frequenza e l’applicazione del detenuto, può acquisire elementi per decidere circa la concedibilità o meno di permessi penitenziari.
Il capo VI (Tutela della vittima nel procedimento penale) 
intende conferire maggiori diritti alla vittima la fase più delicata del procedimento penale, ovvero quella delle indagini, prevedendo in particolare l’obbligo di comunicazione alla persona offesa della cessazione di misure cautelari, della chiusura delle indagini preliminari o della richiesta di archiviazione (così da poter esercitare tutti i poteri riconosciuti dal codice); maggiori garanzie rispetto al sequestro conservativo anche in fase d’indagini, così da rafforzare la tutela patrimoniale della vittima; cautele analoghe a quelle previste per i minori in sede di esame dibattimentale anche per le vittime maggiorenni particolarmente vulnerabili. Al fine di consentire alle vittime di vedere nel più breve tempo possibile soddisfatti i loro diritti, si attribuisce poi carattere prioritario ai procedimenti penali per i reati sessuali o contro la personalità individuale.
• Il capo VII (Violenza economica e domestica)
al fine di contrastare quelle forme sottili di violenza consistenti nel rendere la donna economicamente dipendente o privarla delle risorse necessarie (ove dovute) per l’indipendenza, qualifica come reato proprio l’occultamento doloso delle proprie risorse patrimoniali al fine di non corrispondere quanto dovuto, a titolo dì mantenimento o di alimenti, al coniuge o ai figli. Inoltre, si estende il reato di frode processuale all’ipotesi di occultamento fraudolento delle proprie risorse patrimoniali; si prevede altresì che tale comportamento rilevi ai fini dell’affidamento e della fissazione degli obblighi di mantenimento. In materia di violenza domestica, si consente l’adozione, la modifica, la conferma ovvero la revoca degli ordini di protezione anche nell’ambito del bunale ai sensi dell’articolo 708, terzo comma, del codice di procedura civile, si estendono gli ordini di protezione anche ai non conviventi e si prevede la procedibilità d’ufficio (anziché a querela) del reato di mancata esecuzione dei provvedimenti giudiziali e, anche al fine di superare l’inammissibilità delle deposizioni de relato, si ammette la prova della violenza con ogni mezzo.
Tra le norme di carattere finanziario, si sottolinea poi l’istituzione del Fondo per il contrasto della violenza nei confronti delle donne, destinato a finanziare le iniziative previste dal presente disegno di legge e alimentato, tra l’altro, dalle sanzioni irrogate per violazione del codice di regolamentazione dei media per la promozione della soggettività femminile.

Iniziativa delle senatrici e dei senatori Puglisi, Amati, Fedeli, De Petris, Finocchiaro, Giannini, Giarrusso, Granaiola, Lanzillotta, Mussolini, Petraglia, Valentini, Bertuzzi, Bianco, Cantini, Casson, Chiti, Cirinnà, Cucca, Cuomo, De Biasi, Di Giorgi, Fabbri, Fattorini, Favero, Fornaro, Rita Ghedini, Ginetti, Lo Giudice, Manassero, Margiotta, Mattesini, Maturani, Micheloni, Mirabelli, Moscardelli, Orrù, Padua, Pagliari, Palermo, Parente, Pegorer, Pezzopane, Pignedoli, Pinotti, Puppato, Ricchiuti, Saggese, Sangalli, Santini, Scalia, Sollo, Spilabotte eTomaselli, del 29 maggio 2013



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