lunedì 28 marzo 2016

Il velo e l’imene: perché il Medio Oriente ha bisogno di una rivoluzione sessuale

Quanto coraggio ci vuole per essere una donna, sempre? e quanto ce ne vuole per essere una donna di origini mediorientali che dice, e proclama, certe verità?

Verità, ad esempio, come le ragioni per una nuova rivoluzione sessuale. "Headscarves and Hymens. Why the Middle East Needs a Sexual Revolution” è il titolo originale, che in italiano è stato tradotto con "Perché ci odiano", di un importante libro scritto dall'autrice egiziano-americana Mona Eltahawy, uscito in Italia per Einaudi.  

La traduzione italiana del titolo rimanda a un articolo dell'autrice stessa: "Why do they hate us?" (va chiarito dunque che il suo significato NON allude certamente alla celebre frase di Bush che aveva ispirato di conseguenza altre pubblicazioni internazionali - vedi il libro di Wallechinsky - e, successivamente, anche nostrane).
E' un libro da leggere, e da condividere. Leggetelo, regalatelo, fatelo leggere; perché niente aiuta a uscire da situazioni buie quanto capire, sapere e capire.
Per il resto non abbiamo molto da aggiungere alla bella recensione di Sabrina Bergamini (che di seguito riportiamo quasi per intero), tranne anticipare che in un prossimo post intendiamo documentare il lavoro di un'altra donna di origine mediorientale, che nessuno ha ascoltato. Ma che - se fosse stata presa sul serio 10 anni fa, avrebbe potuto aiutarci a prevenire molti disastri. 
Tornando al libro: vero è che il patriarcato è ovunque violento verso le donne, ma con questo testo la Eltahawy, attigendo anche alla propria conoscenza diretta e esperienza personale, va più nello specifico, focalizzando le forme che questa violenza assume nel mondo arabo e islamico, in Medio Oriente e nel Nord Africa. Come scrive Bergamini, l'autrice racconta così, in una intensa alternanza di cronaca e vicende personali la disuguaglianza di genere e le violenze di cui le donne sono vittime e sopravvissute (quando lo sono). Molestie e violenze sessuali fuori e dentro casa – di Stato e di famiglia: il patriarcato colpisce nelle strade e nelle stanze private – “test di verginità” imposti alle attiviste, oppressione e violenze fisiche, molestie e violenze sessuali diffuse nei luoghi pubblici e violenza domestica nelle case; una misoginia frutto di cultura, religione, politica e tradizione. L’orrore delle mutilazioni genitali femminili e dei “matrimoni precoci” che significano sfruttamento delle bambine, discriminazione e colpevolizzazione delle donne: non c’è pagina del libro che non racconti una violazione dei diritti femminili e, al tempo stesso, non sia da stimolo per una rivoluzione che parta dalla voce e dall’esperienza delle donne che nel mondo arabo-islamico hanno deciso di combattere la loro battaglia pubblica e privata per affermare i propri diritti. Nato da un articolo intitolato appunto “Perché ci odiano?” [vedi qui un commento a quel pezzo di Viviana Mazza, ndr] («Noi donne arabe – scrive l’autrice – viviamo in una cultura che ci è fondamentalmente ostile, imposta dal disprezzo maschile») il senso del volume è reso ancor meglio dal titolo originale: “Headscarves and Hymens. Why the Middle East Needs a Sexual Revolution” (Il velo e l’imene: perché il Medio Oriente ha bisogno di una rivoluzione sessuale) che riunisce i diversi aspetti in cui la libertà delle donne non si può esprimere: che sia la scelta di indossare un velo – l’autrice l’ha indossato e poi lo ha abbandonato, e questa scelta è estremamente difficile da fare nei paesi che finiscono per identificare la donna col suo hijab – e la gestione del proprio corpo, che è dello Stato, della famiglia, ma mai proprio – «L’imene non è nostro; appartiene alla nostra famiglia».
L’autrice snocciola dunque dati internazionali, ripercorre cronache violente di ogni tipo, da sofferte vicende personali – è stata vittima di aggressione sessuale da parte delle forze di polizia in Egitto nel 2011, è stata picchiata, le hanno rotto le braccia e l’hanno tenuta in stato di fermo – a testimonianze di femministe arabo-islamiche che rivendicano la parità di diritti, per raccontare quanto sia difficile la vita delle donne e quanto ci sia ancora da fare in tutti gli Stati, dall’Arabia Saudita alla Tunisia, dal Libano allo Yemen, dal Marocco alla Libia e all’Egitto. Sia nei paesi che vengono ritenuti più avanti nella legislazione – e che comunque si basano su una legislazione patriarcale e discriminatoria, analizzata dalla scrittrice – sia in quelli in cui la promessa della primavera araba si è di fatto infranta. «Nonostante le «rivoluzioni», le donne sono ancora ben nascoste e ancorate alla casa, impossibilitate a prendere l’auto e a spostarsi liberamente, costrette a chiedere il permesso agli uomini se vogliono viaggiare e la benedizione al maschio che fa loro da guardiano se vogliono sposarsi o divorziare».
La denuncia che ricorre in tutte le pagine è quella contro un «cocktail velenoso» che viola le donne e i loro diritti. «Accuso il cocktail velenoso di cultura e religione – scrive Eltahawy – Che le nostre politiche siano permeate di religione o di militarismo, il denominatore comune è l’oppressione delle donne». Il filo comune che lega ogni denuncia di ogni singola violenza e ogni possibilità di costruire politiche diverse è il fatto che  – e Mona Eltahawy lo racconta bene, perché lo sta facendo sulla sua pelle – le donne devono fare due rivoluzioni: una contro i regimi dispotici e tirannici, contro i religiosi ultraconservatori e contro le violenze di Stato, e l’altra contro la misoginia imperante nella società e nella casa. Una rivoluzione pubblica e una che riguarda la dimensione privata. Serve una doppia lotta sul piano politico e su quello familiare. Perché le donne «hanno sempre dovuto fare due rivoluzioni: una insieme agli uomini, contro i regimi che schiacciano tutti, e una contro la misoginia che pervade la regione». La doppia rivoluzione che le donne devono portare avanti, quella che stanno facendo tante femministe arabe e islamiche che rivendicano i loro diritti nelle piazze e in famiglia, davanti all’ostilità di regimi e familiari, è chiaramente espressa dalla scrittrice che mette nero su bianco il suo, di privato, i tormenti, la lotta e il percorso di vita che ha affrontato, le molestie, le aggressioni, i condizionamenti della cultura di origine e la liberazione faticosa da quei retaggi anche psicologici.
Detto tutto questo, non ci può essere spazio per alcuna strumentalizzazione delle parole della scrittrice né da parte di certe destre occidentali, né da parte dei più relativisti. Le denunce della giornalista la mettono infatti in netta contrapposizione sia nei confronti di qualunque integralismo religioso e politico – perché quelli contro le donne sono crimini – sia nei confronti degli occidentali che “cedono” in nome del rispetto delle altrui culture. Sostiene Mona Eltahawy: «Quando scrivo o parlo in pubblico della diseguaglianza di genere in Medio Oriente e in Nord Africa, mi rendo conto di camminare in un campo minato. Da un lato c’è la destra occidentale, bigotta e razzista, che non vede l’ora di sentir criticare quella regione e l’Islam, in modo da aggiungere frecce all’arco teso contro di noi. Vorrei ricordare a questi conservatori che nessun Paese è libero dalla misoginia, e che i loro sforzi di fare marcia indietro sui diritti riproduttivi così faticosamente guadagnati dalle donne li rendono fratelli d’odio dei nostri islamisti. Dall’altro lato ci sono quei liberali occidentali che giustamente condannano l’imperialismo, e ciò nonostante sono ciechi di fronte all’imperialismo culturale che esercitano quando zittiscono le critiche alla misoginia». E prosegue: «Quando gli occidentali restano in silenzio in nome del «rispetto» delle culture straniere, dimostrano di appoggiare solo gli elementi più conservatori di quelle culture. Il relativismo culturale mi è nemico tanto quanto l’oppressione che combatto all’interno della mia cultura e della mia fede».
Di fronte a tutto questo, e al fatto che le violazioni dei diritti e le violenze di ogni tipo sono crimini contro le donne, il messaggio che scaturisce dalle parole di Eltahawy non è affatto privo di speranza. La speranza è nella lotta di tutte le donne che si battono contro le loro culture e contro le loro comunità e che riescono a condividere la loro azione e le loro parole in pubblico. Perché, scrive Mona Eltahawy, «la cosa più sovversiva che una donna possa fare è parlare della propria vita come se avesse una grande importanza. Ce l’ha».

venerdì 18 marzo 2016

Contro le donne in politica tutti gli schieramenti si trovano uniti: dall'irriducibile misoginia del potere

Scrivono le deputate del Comitato direttivo dell’Intergruppo per le donne, i diritti e le pari opportunità:
Il dibattito politico sta toccando nuovi e preoccupanti livelli. Le donne di tutti gli schieramenti sono tornate protagoniste, non però per quanto fanno o per i risultati che ottengono, quanto per gli attacchi di cui sono oggetto:

le avvilenti considerazioni sulle mamme-sindache; gli insulti volgari riferiti all’aspetto fisico; le vignette sessiste della campagna referendaria che invita a “trivellare” la sorella, per finire con l’invito alla terza carica dello Stato a “farsi curare, internare, mettere su un barcone in senso contrario” [livelli che periodicamente tocca documentare - per constatare che niente cambia, vedi ad esempio 3 anni fa, ndr]. 
Dietro a tutto questo c’è quasi sempre la solita, vecchia idea: quella che la politica, specie nei ruoli decisionali, non sia per le donne [la cui premessa, ci preme aggiungere, è l'irriducibile misoginia su cui poggia la cultura patriarcale che pervade tutto, ndr].
Come deputate del comitato direttivo dell’intergruppo parlamentare per le donne, i diritti e le pari opportunità  esprimiamo la nostra preoccupazione e la nostra ferma condanna per quanto sta accadendo e per l'inaccettabile escalation di toni che il discorso pubblico sta assumendo.
Vogliamo, per questo, esprimere la nostra solidarietà alle colleghe per le parole che sono state loro rivolte e a tutte le donne che nella società e nei diversi livelli istituzionali - dai Comuni, alle Regioni, ai Parlamenti – sono state e spesso sono ancora oggetto di offese.
Chiediamo a tutte le forze politiche e ai loro leader di attuare subito una moratoria di simili insulti e di tutti i linguaggi non appropriati e a sfondo sessista.
Non è infatti solo una questione di forma. Attacchi di questo genere diventano sostanza in un Paese in cui secondo l’Istat un terzo delle donne nel corso della vita subisce violenza, verbale o fisica. Finiscono infatti, inevitabilmente, per alimentare e dare legittimazione allo svilimento e alla discriminazione delle donne nella società, nel mondo del lavoro, nelle istituzione, nella vita politica e nei media.
In questi anni si sono compiuti molti sforzi e molti altri se ne devono ancora fare affinché, anche in Italia, si possa raggiungere una parità tra donne e uomini. Una parità intesa come possibilità di incidere e cambiare la società e come possibilità di mettere il proprio talento e la propria intelligenza liberamente al servizio dello sviluppo economico, sociale e politico delle nostre città e del nostro Paese.
Chi ricopre ruoli pubblici ha il dovere di porre fine a questi comportamenti e di schierarsi apertamente contro una tale deriva.
Le deputate del Comitato direttivo dell’Intergruppo per le donne, i diritti e le pari opportunità 
Dorina Bianchi, Elena Centemero,Tiziana Ciprini, Adriana Galgano, Chiara Gribaudo, Pia Locatelli, Lorena Milanato, Margherita Miotto, Marisa Nicchi, Caterina Pes, Anna Rossomando,  Marina Sereni, Valeria Valente. 

sabato 12 marzo 2016

Ieri mi hanno uccisa; ma tu sei ancora viva: e allora ti chiedo

Io non sono più qui. Ma tu si, tu ci sei. Ti chiedo per me, e per tutte le altre donne che hanno messo a tacere, per noi che siamo state ammutolite, la vita distrutta, ti chiedo di alzare la voce. 

Ieri mi hanno uccisa. Mi sono rifiutata di farmi toccare, e con un bastone mi hanno sfondato il cranio. Mi hanno accoltellata e lasciata morire dissanguata. Come spazzatura mi hanno infilata in un sacco nero di polietilene, avvolta di nastro adesivo e gettata su una spiaggia, dove ore più tardi qualcuno mi ha trovato.

Però, ancor peggio della morte, è stata l'umiliazione che è venuta dopo. Non appena han trovato il mio corpo inerte, nessuno si è chiesto dove fosse il criminale che ha distrutto i miei sogni, le mie speranze, la mia vita. No, invece hanno iniziato a farmi domande inutili. A me, lo immaginate? Una morta, che non può parlare, che non può difendersi.

Com'eri vestita? Perché andavi in giro da sola? Com'è che una donna si mette in viaggio senza compagnia? Sei andata in un quartiere pericoloso. Che ti aspettavi?

Hanno rinfacciato ai miei genitori di avermi dato ali, di aver permesso che fossi indipendente, come qualsiasi essere umano. Hanno detto che sicuro ci drogavamo e ce la siamo cercata, che abbiamo fatto qualcosa di sbagliato, che loro avrebbero dovuto controllarci.

E solo da morta ho capito che no, che per il mondo io non sono uguale a un uomo. Che morire è stata colpa mia, e sempre lo sarà. E che, se fossero stati uccisi due giovani viaggiatori la gente, con la sua falsa e ipocrita doppia morale, farebbe condoglianze chiedendo una pena più severa per gli assassini.
Ma se sei donna, si minimizza. Diventa meno grave, perché certo, gliel'ho chiesto io. Facendo quello che volevo io ho trovato quel che mi meritavo: per non essere sottomessa, per non voler restare a casa mia, per investire i miei soldi nei miei sogni. Per questo e molto altro, mi hanno condannato.
Io non sono più qui. Ma tu si, tu ci sei. E sei donna. E devi sorbirti che ti seguano scorticandoti con lo stesso discorso del "farti rispettare", che è colpa tua che ti urlino addosso, che ti vogliano toccare / leccare / succhiare i genitali in strada perché indossi gli short con 40 gradi di temperatura, che se viaggi da sola sei una "pazza" e molto probabilmente se ti succede qualcosa, se calpestano i tuoi diritti, te la sei cercata.
Ti chiedo per me, e per tutte le altre donne che hanno messo a tacere, per noi che siamo state ammutolite, la vita distrutta, ti chiedo di alzare la voce. Andiamo a combattere; io sarò al tuo fianco, nello spirito, e ti prometto che un giorno diventeremo così tante, che non esisteranno abbastanza sacchi neri in cui ficcarci tutte. 
[Guadalupe Acosta, nel nome di Maria Coni e Marina Menegazzo, assassinate mentre viaggiavano insieme - senza maschi = sole. Come l'artista Pippa Bacca, giustiziata per la colpa di viaggio-da-sola-vestita-da-sposa]


giovedì 10 marzo 2016

Il giovane voto femminile in Italia compie 70 anni

Mentre nelle sale esce il film Suffragette (che invitiamo caldamente a vedere!) il voto femminile in Italia compie un importante anniversario. Marzo del 1946: le donne italiane ottengono il diritto di voto. Era solo 70 anni fa. 
Riportiamo qui alcune statistiche riassuntive messe a punto da Openpolis. Prima, però, vi invitiamo a leggervi anche questo riepilogo: qualcosa che, parlandoci della estenuante battaglia che costò giungere alla conquista del suffragio femminile, la dice lunga anche su retaggi da cui si origina lo stereotipo della "femminista-pericolosa-brutta-e-isterica".
Con il diritto di voto le donne hanno anche ottenuto per la prima volta (almeno sulla carta) lo status di cittadine e quindi anche il diritto di accedere alle cariche nelle istituzioni democratiche e quindi di contribuire all'evolversi delle leggi. Grazie soprattutto alle donne elette, da allora ad oggi si sono dunque succedute altre leggi che hanno cambiato vari altri punti della cosiddetta "condizione femminile" (vedi qui il riepilogo di Openpolis). 
Nel frattempo, come sono cambiati i numeri delle presenze femminili nelle istituzioni politiche? Con 277 seggi occupati da donne su 751 (il 37%) il Parlamento Europeo è spesso più paritario dei vari parlamenti nazionali. Questi i paesi che hanno portato più donne nell' Europarlamento: 
Al momento l’Italia, a metà classifica, si colloca poco sopra la media europea, con 38% di presenza femminile). Meglio di noi Spagna (43%), Francia (42%) e Regno Unito (41%); un poco sotto Germania (36%), più giù la Polonia  (24%).

Quante ministre nella storia della Repubblica italiana
Benché, nel 1948, la Costituzione abbia riconosciuto alle donne la possibilità di accedere a incarichi (non tutti!) pubblici e di governo, per i suoi primo 30 anni la Repubblica è stata gestita da esecutivi rigorosamente e interamente maschili. La prima donna ministro fu Tina Anselmi, solo nel 1976. Solo in anni molto recenti (Governo Ciampi) la presenza delle donne raggiunge il 10% (precisamente 10,7%). E la parità numerica (benché brevissima e solo apparente), l'abbiamo avuta solo con il Governo Renzi: 8 ministre su 16, sulla carta, poi le nomine di viceministri e sottosegretari hanno di nuovo sbilanciato i rapporti di forza a favore degli uomini, e poi, con il rimpasto del 28 gennaio 2016, la presenza femminile è stata letteralmente e allegramente dimezzata (dal 50% al 25,4%).


Le donne alla guida delle regioni italiane
In media le giunte regionali hanno una presenza femminile doppia rispetto ai consigli (35 contro 18%); in tre regioni, al momento (Emilia Romagna, Toscana e Marche) gli assessori sono 50e50; solo in Campania il numero delle assessore supera quello dei maschi. In compenso nel consiglio campano la presenza femminile crolla (22%). Il consiglio regionale col maggior numero di donne (32%) è quello emiliano  La posizione peggiore nel Molise (zero donne in giunta) e in Basilicata (zero donne in consiglio).
Le sindache in Italia
Nei Comuni la presenza delle donne è inversamente proporzionale all'importanza del comune stesso, per estensione e popolazione. Sotto i 5.000 abitanti sono donne il 14% dei sindaci, mentre in quelli fino a 20 mila abitanti il 13%. Ma nei Comuni tra 20 e 100 mila abitanti la quota di donne scende al 9%, per crollare al 3% nelle città tra 100 e 300 mila. In quelle ancora più grandi i sindaci sono tutti uomini.

mercoledì 9 marzo 2016

Glass ceiling index: i paesi migliori - o peggiori - per una donna che lavora

Grazie a Italiansinfuga veniamo a sapere che l’Economist ha pubblicato la versione aggiornata del Glass-ceiling index: la trovate a questo link

E cioè the best- or worst - places to be a working woman: una sorta di calcolatore interattivo, creato nel 2014, che consente di individuare le migliori e/o peggiori località per una donna che lavora.
I dati analizzati sono relativi a:
istruzione superiore
partecipazione alla forza lavoro
paga
costi relativi all’accudimento dei bambini
diritti della mamma
iscrizioni a business schools
rappresentanza in posizioni lavorative senior
e inoltre, da quest’anno, vengono presi in considerazione anche i diritti dei lavoratori ad andare in paternità.
E’ stato dimostrato che quando anche i nuovi papà vanno in paternità, le mamme tendono maggiormente a tornare sul mercato del lavoro, l’impiego delle donne è maggiore e il divario di paga tra uomini e donne è inferiore.
La prestazione di ogni nazione si basa su una media (dando a ogni fattore un peso diverso) di 10 fattori.
Le migliori ono senza dubbio le regioni del Nord Europa; alcuni esempi in:
1. prime in classifica Islanda, Finlandia, NorvegiaSvezia, ove la partecipazione femminile al mondo del lavoro è simile a quella maschile.
2. la maggior percentuale di donne istruite a livello post-secondario (49% rispetto al 35% degli uomini) in Finlandia.
3. minor divario di paga tra donne e uomini (6,3%) in Norvegia: meno della metà della media per le nazioni appartenenti all’Organizzazione per la Co-operazione e lo Sviluppo Economico.
4. in Scandinavia quote rosa (volontarie o obbligatorie) contribuiscono alla forte presenza di donne in posizioni importanti sia in aziende sia in politica.
5. in Svezia il 44% dei seggi in parlamento è femminile, una delle percentuali più alte al mondo.
L’Ungheria si piazza al quinto posto grazie anche al divario di paga minore in classifica (3,8%), all’alto livello di paga per mamme in maternità (71 settimane al 100% della paga più recente) e ai bassi costi collegati all’accudimento dei bambini. Al lato estremo della graduatoria non troviamo solo paesi coma l'Afghanistan, ma anche Giappone, Turchia e Corea del Sud.
E l'Italia? Su alcuni parametri niente male, in altri disastrosa; consultare l'applicazione per sapere.

lunedì 7 marzo 2016

8 marzo 2016: ripartiamo dalla 194

8 marzo 2016: dalle h.12 alle 14 nuovo tweetstorm #ObiettiamoLaSanzione a @matteorenzi: L’otto per le donne e tu? 

perché l'aborto clandestino è tornato, la macelleria riapre per latitanza della sanità, la prevenzione va a quel paese, l'autodeterminazione e la sicurezza pure. E chi paga? sempre le donne, le colpevoli sono sempre loro. What else? 
Vedi anche: Obiettiamo la sanzione, lettera alle parlamentari.