lunedì 18 gennaio 2016

Stupro arma di guerra. Anche a Colonia. Della guerra patriarcale sessista e razzista

Siamo state in attesa tanti giorni, leggendo ogni giorno cosa si dice di Colonia. Che per chi scrive (fra le altre molte cose), altro non è che il banale debutto di una delle più tradizionali armi di conflitto: lo stupro contro le donne, sulla scena ufficiale e internazionale della (nuova) guerra trasversale e diffusa.


Nel cuore delle città europee sono atterrate ormai da tempo le altrettanto tradizionali bombe, stupirebbe che il conflitto diffuso si limitasse a questo, rinunciando a uno dei suoi strumenti più atroci ed efficaci. Due anni fa fu presentata una mozione, al nostro Senato, contro questo diffuso crimine; chissà che ne è stato, poi. Tornando alle tante cose lette, la cosa che più stupisce, nelle decine e decine di articoli usciti nelle ultime settimane, è lo spezzettarsi della scena nei più disparati punti di vista, ciascuno sorretto da una logica la quale dimostra a sua volta qualcosa - ma le legittime riflessioni che ne scaturiscono conducono sempre a qualcosa di parziale. Come parziale è quello che si vede guardando una stanza dal buco della serratura. Vorremmo allora tirare alcuni fili per contribuire a legare fra loro questi pezzi, partendo da una premessa sulla cosa fondamentale, la cosa che sta lì, sotto gli occhi di tutti, e che eppure è tanto difficile vedere. E che è questa: i cori di indignazione razzista che si levano contro gli "immigrati" che stuprano sono animati più da risentimento verso lo straniero che osa toccare la proprietà (le "nostre donne") che non da reale rispetto verso le donne stesse. Per questo quel tipo di indignazione non sa andare al cuore del problema, ma anzi si muove su un terreno sostanzialmente complice. Sessismo e razzismo, infatti, sono sfumature dello stesso imprinting patriarcale, quello del dominio.
E in ogni società patriarcale lo stupro è stato da sempre una sorta di sport internazionale, molto duro a sradicare; anzi, è ora di dirlo: lo stupro è addirittura il fondamento stesso (anche) della “nobile” civiltà occidentale che tanto si adonta dell’inciviltà dello straniero



Non dubitiamo, infatti, che fra i bravi maschi bianchi e razzisti (di Colonia come di casa nostra e di ovunque), che gridano allo scandalo, di stupratori e violenti contro le donne ce ne siano moltissimi.
Che fare, allora, l’aspetto dell’immigrazione e, soprattutto, della propaganda islamista, non c’entrano? negare l’evidenza? C’è chi lo fa tranquillamente; vedi nel caso lo strabiliante pezzo di Giulietto Chiesa che sale sul podio per spiegare a una certa Nicoletta “cosa succede a Colonia e a Parigi”: niente; a Colonia non è successo niente, solamente una montatura mediatica. Punto e basta; nessun’altra spiegazione, nessuna evidenza a riprova di questo “nulla”. Il fatto che ci sia “chi vuole far salire l’isteria (piace particolarmente, qui, la scelta accurata anche del termine isteria, ndr) della gente per evidenti ragioni politiche, cioè per abituare il cittadino a un clima xenofobo” (fatto perfettamente vero, peraltro) per lui è sufficiente a dimostrare che le centinaia di donne che hanno denunciato si siano volute solo togliere uno sfizio, quelle borghesi razziste e viziate in cerca di emozioni, cretine.
“Nessuna prova”, decide in seguito alle sue personali indagini. Le donne non sono morte, dunque che prove ci sono? (e vien da chiedersi se siano morti poi davvero i parigini al Bataclan, forse è un complotto anche quello).
Nossignore. Qualcosa è successo. Lo stupro è emblema della guerra, e il Taharrush una declinazione dello stupro (che da sport endemico è assurta ad atto politico conclamato nel 2011), e il corpo delle donne un primario campo del conflitto.


Detto ciò, a Colonia il Taharrush è sbarcato in modo non casuale perché la guerra si è spostata anche qui (e sia chiaro, dove c'è guerra, c'è chi ci sguazza: gli avversari sono spesso complici). E si, anche perché c’è un problema culturale, come sempre: un (nuovo) problema culturale che si innesta sull’atavico problema culturale, peggiorando le cose.
Di questo Waris Dirie, somala, a suo tempo mutilata e poi fuggita dal suo paese, e che ha dedicato la sua vita alla lotta contro le mutilazioni, avverte da anni e anni. Avverte i politici e le istituzioni; eppure gli esperimenti per una formazione e informazione delle persone immigrate che faciliti il dialogo, e l’integrazione, si contano sulle punta delle dita. E sai che c'è? i fascistoni razzistoni fanno a gara a stroncarli con articoli dileggianti e sarcastici. E invece sono un punto di partenza senza il quale ci siamo già persi e almeno lei lo dice: da somala, e musulmana, e mutilata, e fuggita e immigrata, almeno lei può dirlo.


Sostituisci, nel suo discorso, il termine "mutilazioni genitali" con stupro - o delitto d'onore, o altre violenze contro le donne, e il significato è chiaro.
Anche lo scrittore Kamel Daoud - da musulmano, e da maschio, e da algerino, può permettersi di dire quanto siamo stupidi e miopi: “del rifugiato vediamo lo status, non la cultura. E così l'accoglienza si limita a burocrazia e carità, senza tenere conto dei pregiudizi culturali e delle trappole religiose (…) Gli immigrati che accogliamo se la prendono con le nostre donne, aggredendole e stuprandole; nozione che la destra e l'estrema destra non tralasciano mai di enfatizzare quando si pronunciano contro l'accoglienza ai rifugiati. Ma in Occidente il rifugiato o l'immigrato non patteggerà facilmente con la propria cultura, e di ciò ci dimentichiamo con sdegno. Quella cultura è ciò che gli resta di fronte a sradicamento e traumi provocati in lui dalla nuova terra. In alcuni casi il rapporto con la donna  -  fondamentale per la modernità dell'Occidente  -  rimarrà incomprensibile a lungo, e ne negozierà i termini per paura, compromesso o desiderio di conservare la propria cultura. E tutto ciò può cambiare solo molto lentamente. Le adozioni collettive peccano di ingenuità, limitandosi a risolvere i problemi burocratici ed esplicandosi attraverso la carità. Il rifugiato è dunque un selvaggio? No. È semplicemente diverso, e munirlo di pezzi di carta e offrirgli un giaciglio collettivo non può bastare a scaricarci la coscienza. (E qui Daoud rivela la stessa, identica, consapevolezza che fa parlare Waris Dirie, ndr): l’Altro proviene da quel vasto universo di dolori e atrocità che è la povertà sessuale nel mondo arabo-musulmano. Accoglierlo non basta a risolverlo. Il rapporto con la donna rappresenta il nodo gordiano nel mondo di Allah. La donna è negata, uccisa, velata, rinchiusa o posseduta. È l'incarnazione di un desiderio necessario, e per questo ritenuta colpevole di un crimine orribile: la vita. Una convinzione condivisa, che negli islamisti appare palese. Poiché la donna è donatrice di vita e la vita è una perdita di tempo, la donna è assimilabile alla perdita dell'anima. Il corpo della donna è il luogo pubblico della cultura: appartiene a tutti, ma non a lei. Qualche anno fa, a proposito dell'immagine della donna nel mondo cosiddetto arabo si scrisse: La donna è la posta in gioco, senza volerlo. Sacralità, senza rispetto della propria persona. Onore per tutti, ad eccezione del proprio. Desiderio di tutti, senza un desiderio proprio. Il suo corpo è il luogo in cui tutti si incontrano, escludendola. Il passaggio alla vita che impedisce a lei stessa di vivere. È questa libertà che il rifugiato, l'immigrato, desidera ma non accetta. L'Occidente è visto attraverso il corpo della donna: la libertà femminile è vista attraverso la categoria religiosa di ciò che è lecito o della virtù. Il corpo della donna non è visto come luogo stesso di libertà (in Occidente valore fondamentale), ma di degrado. Per questo lo si vuole ridurre a qualcosa da possedere o da velare. La libertà di cui la donna gode in Occidente non è vista come ragione della supremazia occidentale, ma come un capriccio del culto occidentale della libertà. E i colpevoli sono immigrati arrivati da tempo o rifugiati recenti? Appartengono a organizzazioni criminali o sono semplici teppisti? Per delirare con coerenza non si aspetterà che queste domande abbiano risposta. Intanto i fatti hanno già riaperto il dibattito sull'opportunità di rispondere alle miserie del mondo accogliendo o asserragliandosi”. (il pezzo completo qui).
Giusto, non nascondersi dietro un dito, per timore di apparire razzisti.
Giusto, andare il 4 febbraio a Colonia a manifestare. Contro il sessismo e contro il razzismo. A quelle che dicono “preoccupiamoci della violenza in Italia”: la sola cosa da rispondere è che la violenza in Italia non è diversa o separata dalla violenza in Germania, o in Piazza Tahrir. Serve la risposta come gruppo, collettiva e rivolta al’intera umanità: una risposta che dica rigore, resistenza e rivolta, contro la cultura della violenza da qualunque parte venga, e contro lo stupro quale sua espressione, e contro lo stupro come arma di guerra.
Ma anche che non vogliamo un’Europa di fili spinati: perché non servirebbero a niente, come non serve a niente respingere con una pistola un formicaio. Ma anche perché noi siamo anche ognuna di quelle donne che premono disperate alle frontiere.
Perché sessismo e razzismo sono sfumature dello stesso imprinting patriarcale, quello del dominio.






3 commenti:

  1. concordo con tutto ciò che avete scritto ma la foto del teppista che sputa sulla donna bionda non ha a che fare con Colonia

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  2. molto completo e va dritto al centro della questione
    qui un pezzo che - si potrebbe dire - riprende tutti i punti di questo articolo per svilupparli ulteriormente: http://www.internazionale.it/opinione/alessandra-bocchetti/2016/02/03/speculum-altro-uomo-spettri-colonia

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  3. Apprezzo molto tutto il pezzo e i suol finale, e a PROPOSITO di pezzi da collegare a questo: a completamento vi segnalo un articolo sulla condizione della rifugiata donna: http://www.aljazeera.com/indepth/features/2016/02/life-female-refugee-don-trust-160210092005932.html
    Anna

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