giovedì 17 dicembre 2015

Codice rosa: le donne non sono oggetti da tutelare

Ricorreremo al Consiglio d’Europa per la violazione della Convenzione di Istanbul e assisteremo le vittime di violenza presso la Corte Europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo qualora si sentano lese nei loro diritti dalle procedure dello Stato italiano.

I 73 centri antiviolenza D.i.Re non ci stanno e nemmeno Telefono Rosa, Udi, la Libera università delle donne di Milano, Ferite a morte, Fondazione Pangea, Be Free, Pari e Dispare, Uil, Le Nove e Giuristi democratici. Lo hanno detto forte e chiaro durante la conferenza stampa che si è svolta stamattina nella sala Cristallo dell’Hotel Nazionale a Montecitorio. Erano presenti molte donne, alcuni parlamentari,  Roberta Agostini, Marisa Nicchi, Giovanna Martelli e Delia Murer,  Pippo Civati e Andrea Maestri, unici uomini presenti, e molte attiviste femministe tra le quali Alessandra Bocchetti, che ha spiegato di essere presente perché “trova estremamente preoccupante la regressione a cui stiamo assistendo. Le donne vengono ricacciate in una sorta di “minorìa” della cittadinanza femminile, stanche di non essere mai nell’agenda politica di questo Paese e, quando ci sono, non vengono consultate”.

Le rappresentanti delle associazioni che hanno organizzato la conferenza stampa sono intervenute una ad una: Titti Carrano (D.i.Re),Vittoria Tola (Udi),Gabriella Moscatelli(Telefono Rosa), Oria Gargano (Be Free) per dire no! all’emendamento Giuliani che introduce il percorso di tutela delle vittime di violenza in tutti i pronto soccorso italiani, purtroppo approvato in Commissione Bilancio della Camera il 15 dicembre scorso. Le accuse contro l’emendamento sono durissime. E’ stato scritto con ignoranza e scarsa conoscenza di un fenomeno che ha bisogno di percorsi individuali e non standardizzati, è animato da vendetta da parte di chi ha cercato di imporre per anni un percorso di costrizione alle donne maltrattate senza riuscirci (fino all’emendamento) ed è inadeguato perché non prevede follow up dopo la visita al pronto soccorso che può salvare la vita delle donne.
A nulla sono serviti i ritocchini apportati al precedente testo nel tentativo di placare le proteste dei centri antiviolenza e delle associazioni impegnate sul tema dei diritti delle donne. Il testo, come già denunciato nei giorni scorsi da D.i.Re, “viola l’ordinamento nazionale e internazionale, innanzitutto la Convenzione di Istanbul, che prescrive un approccio di genere perché la violenza di genere contro le donne non è una questione privata, non è una questione di sanità o di ordine pubblico, ma ungrave problema sociale che ha radici nella nostra cultura e va affrontato con una coerente e seria guida politico istituzionale”.
Il codice Rosa Bianca sui percorsi a tutela delle vittime è sempre stato  contestato durante i tavoli di confronto per il Piano Nazionale Antiviolenza e non è l’unica esperienza realizzata in un pronto soccorso per aiutare le donne. Da diversi anni anni esistono le esperienze del Codice Rosa dell’Ausl di Napoli e quella dell’ospedale Umberto I di Roma, a cui partecipa Differenza Donna. Eppure non si è mai aperto alcun confronto o riflessione con i centri antivolenza per capire come costruire il migliore progetto per le donne.  E’ stato imposto il modello di Grosseto, nonostante le obiezioni. Perché?
Per farsi un’idea dell’impostazione del Codice Rosa Bianca andate sul sito dell’ausl di Grosseto: viene descritta una procedura che tra ambiguità e contraddizioni presenta una sorta diesercito della salvezzaanimato da un interventismo istituzionale che mette al centro del percorso le procedure invece che la consapevolezza, le risorse e la libertà delle donne che, fra l’altro, non sono nemmeno nominate. La lettura della violenza di genere, in violazione della Convenzione di Istanbul, viene inghiottita dalla neutralità di tante “vulnerabilità” mischiate un calderone che equipara diverse problematiche.
Snoq libere ha esultato dopo l’approvazione dell’emendamento, mentre le tifoserie del Codice Rosa Bianca, stizzite dalle contestazioni, si erano date da fare sui social attaccando i centri con una palla colossale: accusandoli di affrontare il problema della violenza come una loro questione privata. Negli anni in cui le istituzioni erano latitanti  e non avevano gli strumenti per riconoscere il problema, i centri antiviolenza sono stati i primi a divulgare dati, a rivelare le caratteristiche del fenomeno, a sensibilizzare, a realizzare progetti innovativi e a chiedere con forza il coinvolgimento delle istituzioni. Hanno creato reti di collaborazione con servizi sociali, pronto soccorso e forze dell’ordine in città e province dove c’era il deserto, ma sempre pensando a progetti che restituissero forza alle donne che sono soggetti di diritto e non oggetti di tutela. Questa è la differenza tra femminismo e patriarcato. Snoq libere riconosce la differenza? E chi ha votato l’emendamento?
Marina Terragni ieri ne  ha scritto sul suo blog definendo questo percorso un disastro simbolico e reale perché  le donne non sono minori deficienti da tutelare, ma persone da accompagnare in un percorso ogni volta diverso nei tempi e nei modi. Che la libertà non è una medicina che si può inoculare. Poi, appellandosi alle colleghe della stampa estera, ha denunciato interessi distanti dalla libertà delle donne e non poteva dirlo meglio.

sabato 12 dicembre 2015

Elvira Reale: non è il Codice Rosa in sè da respingere ma quello oggi adottato, che va cambiato nel rispetto della Convenzione di Istanbul

Dopo l ‘appello di D.i.Re e di altre associazioni contro l’emendamento Giuliani,  ospito una riflessione di Elvira Reale, psicologa, responsabile sportello antiviolenza degli ospedali San Paolo e Cardarelli di Napoli.  
L’esperienza di Napoli ha un retroterra culturale e tecnico molto corposo sia nella cultura delle donne (si riferisce in toto al percorso degli organismi internazionali su questo tema e oggi alla Convenzione di Istanbul), sia nella cultura della medicina di genere. Si è posta l’obiettivo di trasformazione delle prassi mediche e psicologiche per riconoscere la violenza come eziologia di molte patologie ad elevato impatto nella popolazione femminile. L’inserimento nel percorso rosa intra-ospedaliero ha una novità: il referto psicologico che costituisce un potente mezzo per le donne, persone offese del reato e spesso uniche testimoni di se stesse, per accreditare la loro attendibilità ed evitare la vittimizzazione secondaria nei processi (il non essere credute, l’essere considerate malate, il considerare la patologia come causa della violenza o  delle loro denunce, ecc.ecc.).Il pronto soccorso San Paolo ha costruito un percorso rosa sia interno (doppio referto medico e psicologico per la donna e per il minore vittima di violenza assistita),  che esterno che ha il suo centro di azione nella donna, a cui è consigliato di rivolgersi in primis aicentri anti-violenza con cui si è in rete e in connessione costante. La rete con le forze dell’Ordine è presente e precede l’andata presso il centro anti-violenza solo quando la donna lo richiede, per le emergenze, per la sua tutela. Le forze dell’Ordine con cui ci si collega sono quelle indicate per prossimità o per rapporto di conoscenza dalla donna stessa (non dimentichiamoci che il 40% delle donne che arrivano in pronto soccorso sono oggetto di violenza da parte di ex-partner e hanno già rapporti con le forze dell’Ordine locali). L’esperienza del pronto soccorso San Paolo si muove all’interno della Convenzione di Istanbul con cui condivide ogni presupposto, e di cui ha condiviso l’istanza di fornire servizi istituzionali sanitari, specializzati e innovativi formati all’accoglienza delle vittime di violenza di genere e dei loro figli. L’esperienza di Grosseto non si muove nell’alveo della Convenzione di Istanbul ed è inappropriata proceduralmente nel percorso rosa rispetto alle donne. Non è dedicata alle donne vittime di violenza di genere e quindi non condivide il background culturale su cui poggia la Convenzione nel considerare la violenza di genere, quella maschile, contro le donne. La sua esperienza si è stagliata sull’organizzazione e settorializzazione del lavoro delle Procure che al loro interno hanno il settore fasce deboli che include ogni persona ‘vulnerabile’ per le proprie caratteristiche (si è ritornati a considerare le donne “fasce deboli”) alla violenza (donne, anziani, bambini, handicappati).
Il codice che Grosseto si è dato è appunto quello di ‘Rosa Bianca’, per indicare che il suo oggetto non sono le donne vittime di violenza di genere, ma ogni persona donna e uomo intrinsecamente vulnerabile alla violenza per le sue caratteristiche (handicap, età anziana, sesso debole!). Da queste premesse distorte rispetto a un’ottica di violenza di genere nasce una procedura non condivisibile: nessuna innovazione e modifica delle prassi sanitarie è stata introdotta, se non la riservatezza nell’introdurre nella ‘stanza rosa’, la donna o l’uomo che parla di violenza dove far confluire una equipe multidisciplinare. Nessuna procedura per la violenza di genere è stata codificata ma le donne sono state inserite, come voluto dalla procura e per assimilarsi a loro, nel calderone delle persone vulnerabili.
Grosseto ha arrecato un danno alla lotta contro la violenza di genere confondendo i problemi delle donne vittime di violenza (persone di ogni livello e profilo di personalità, persone anche socialmente forti) con quelle delle persone vulnerabili (dizione usata anche nell’emendamento che non si riferisce mai alla Convenzione di Istanbul!), come indicato nel linguaggio delle procure o nella cultura giuridica. Le donne in questo modo nel codice “Rosa bianca” (e non codice Rosa, come erroneamente detto) sono escluse dal diritto (inserito nella Convenzione) di essere rappresentare come vittime e non come persone vulnerabili, rinviando con questo a loro caratteristiche personali, che invece niente hanno a che vedere con la violenza di genere che colpisce ogni tipo di donna.
Dall’impostazione di Grosseto, plasmata sull’organizzazione delle procure rispetto ai reati contro le fasce deboli, discende anche la soluzione ai problemi da loro prospettata e riversata sia nel Piano nazionale antiviolenza, che ha preso Grosseto come modello, sia nell’emendamento alla legge di Stabilità: raccogliere nella stanza rosa di un ospedale intorno alla donna o all’uomo una equipe multidisciplinare in rappresentanza di tutte le istituzioni (fin quando si tratta di un piccolo paese è ancora immaginabile una cosa del genere anche se non corretta, pensiamo a Napoli dove ci sono per un milione di abitanti almeno 5 grandi pronto soccorso che chiamano la procura, le forze dell’Ordine, altri servizi per accorrere tutti immediatamente  in ospedale bloccando tutte le attività!) e ottenere la messa in sicurezza secondo un piano istituzionale rispetto al quale il consenso o i desiderata della vittima (o meglio persona vulnerabile, uomo o donna che sia, ritenuta incapace di agire in proprio) non sono presi in considerazione.
E’ chiaro quindi che, rispetto all’esperienza di Grosseto, esistono modelli alternativi di Codice Rosa che sostengono il processo di uscita dalla violenza e danno alla donna strumenti da utilizzare in prima persona (ma anche con il sostegno dei centri) nell’attraversare il mondo giudiziario (civilistico e penalistico) e che le rafforzino nella loro credibilità.
Va quindi criticato non il codice rosa in sé ma il codice rosa bianca di Grosseto, assunto a modello nazionale, e va invece proposto un altro modello di percorso rosa che rispetti la Convenzione di Istanbul e serva a rafforzare i percorsi di uscita delle donne dalla violenza.
Va da sé, in conclusione, che i centri anti-violenza non solo gli unici oggi a praticare la lotta alla violenza di genere: è necessario che essi riconoscano i partner nelle altre istituzioni e sappiano criticare le prassi istituzionali quando queste debordano da principi comuni. La convenzione di Istanbul impone allo stato di intervenire: lo stato e le istituzioni, comprese quelle sanitarie, devono usare le procedure corrette al loro interno (diagnosi, prognosi e referti corretti), saper modificare le loro prassi per andare incontro alle varie esigenze di violenza e saper lavorare in rete. Nessuno da solo ce la può fare, perché il problema della violenza attraversa tutti i settori della nostra società.

venerdì 11 dicembre 2015

Violenza contro le donne: perché i Centri Antiviolenza bocciano l'emendamento Giuliani sui codici rosa

Da giorni i centri antiviolenza italiani stanno contestando l'emendamento Giuliani alla legge di Stabilità che vorrebbe introdurre il cosiddetto Codice Rosa in ogni ospedale italiano. E' stato anche lanciato un appello firmato da D.i.Re,  Udi, LeNove, Ferite a morte, Casa Internazionale delle Donne, Telefono Rosa, Fondazione Pangea, e Be Free per chiedere il ritiro delle firme dei deputati e delle deputate all'emendamento. 
Il Codice Rosa è un percorso attivato nel 2010 all'Ausl di Grosseto, eppoi esteso nel 2014 in tutta la Toscana, che prevede percorsi rigidi nel caso una donna si rivolga al pronto soccorso a causa delle violenze. L'emendamento prevede "l'istituzione di un Gruppo interdisciplinare coordinato tra le procure della Repubblica, le regioni e le Aziende Sanitarie locali (ASL) finalizzato a fornire assistenza giudiziaria e sanitaria riguardo ad ogni aspetto legato alla violenza o all'abuso" e  anche "l'istituzione di un Coordinamento di Gruppi presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri, con il Ministro della Giustizia, il Ministro dell'Interno e il Ministro della Salute". In parte è fuffa perché ci sono già leggi che prevedono la procedibilità d'ufficio rispetto a determinati reati e in parte è pericoloso perché espone le donne a rischi. L'emendamento punta a rafforzare l'azione penale in tutto il Paese senza preoccuparsi che ci siano  in ogni territorio dove verrà applicato, luoghi idonei  che  possano accogliere le donne con i loro figli, come le  Case Rifugio. L'emendamento non si preoccupa nemmeno che  esistano reti collaudate tra centri antiviolenza e istituzioni che agevolino i difficili percorsi di uscita dalla violenza e che sostengano le donne per il tempo necessario a costruire una autonomia economica o ad individuare altre risorse. 
La denuncia penale, si stenta a capirlo, non è lo strumento principe con il quale affrontare il problema della violenza e da solo non mette al sicuro le donne. Le associazioni che hanno lanciato l'appello contestano fra l'altro un testo che ritiene le donne vittime di violenza: appartenenti a fasce di soggetti vulnerabili che possono facilmente essere psicologicamente dipendenti e per questo vittime dell'altrui violenza". Sparisce completamente una lettura di genere del fenomeno della violenza maschile anche in violazione di quanto dice la Convenzione di Istanbul. Non è certo la dipendenza affettiva delle donne, ammesso che in ogni caso di violenza ci sia davvero  quel problema,  a commettere stupri, stalking e femminicidi ma la violenza maschile. Quando il governo ci stupirà positivamente occupandosi di sostegno all'autonomia economica delle donne e del rispetto delle direttive europee che vorrebbero 5700 posti letto per le vittime di violenza invece delle attuali 500? E quando finalmente si lanceranno programmi nelle scuole, nei licei, nelle università per occuparsi della prevenzione della violenza?
@nadiesdaa

lunedì 30 novembre 2015

Intervento di Ministro Galletti al COP21: una traduzione 3D

Quella che segue è una versione in 3D dell'intervento sugli obiettivi dell'Italia che, secondo il sito Formiche, è stato portato dal nostro Ministro per l'Ambiente Galletti al COP21. 3D in quanto - al di là della loro piatta apparenza astratta - tenta di espandere le parole dette alle loro ovvie implicazioni reali.

Sotto è riportato il testo originale che potete confrontare. E questo il solo significato che riusciamo a cogliere secondo qualunque logica, in relazione ai puri fatti: 
L’Italia che scommette sull’economia green (che non è certamente l'attuale governo, e ancor peggio sarebbe con le opposizioni della destra dichiarata) vorrebbe vivere la COP21 come una grande occasione per scrivere il futuro. Abbiamo la consapevolezza e insieme la necessità di dover raggiungere assieme a tutti gli Stati del pianeta un’intesa alta e allo stesso tempo realistica: ma perché sia realistica dovete capire che deve escludere di investire in rinnovabili ma anzi pompare sul petrolio ancor di più, come fa la nostra legge di stabilità. Un'intesa dunque in grado di vanificare l’enorme mobilitazione attorno al tema del contrasto ai cambiamenti climatici che si è verificata lungo tutto il 2015, un anno di svolta parolaia, anche per la comunità internazionale, nelle tematiche ambientali. Trovare un accordo per contenere il surriscaldamento globale sotto l’asticella dei 2°C non è un’urgenza per noi. Lo è solo di alcuni Stati e dei poveracci, delle prossime generazioni e in verità per tutto il mondo, per il presente immediato prima ancora che per il futuro. Il non fare può costare carissimo, in tutti i sensi, lo sappiamo eppure perseveriamo nel fare il contrario.
E pazienza anche per i 250 milioni di rifugiati ambientali che, se non verrà tenuta sotto il livello di guardia la febbre della Terra, lasceranno i loro territori invivibili e migreranno per trovare rifugio dagli effetti immediati dei cambiamenti climatici: gli eventi atmosferici estremi, la mancanza di risorse vitali e le guerre per accaparrarsele (sulle quali si fanno ottimi business, su cui speriamo riprenda questa maledetta crescita).
Del resto, che dobbiamo fare? rendetevi conto dei costi economici (secondo l’Agenzia internazionale dell’energia 5 trilioni di dollari di investimenti aggiuntivi dal 2020 a 2035) che servirebbero per sostituire le tecnologie e gli impianti obsoleti che oggi utilizzano in maniera inefficiente le risorse naturali! ma siamo pazzi?
Ma anche dei 500 miliardi di dollari aggiuntivi in termini di investimenti che servirebbero per sostenere nel prossimo decennio l’inazione sul contrasto ai cambiamenti climatici. Ci penseranno le generazioni future! Raggiungere un’intesa equa, vincolante, trasparente e con impegni misurabili nel tempo, e cioè passare il confine tra vecchia e nuova economia, è davvero troppo complicato. La sconfitta rappresentata dal dover subire le tensioni socioeconomiche che i cambiamenti climatici innescano è comunque meno stressante che trovare la volontà reale di superarle.
In questi mesi, del resto, abbiamo registrato tanti segnali importanti verso un’intesa: nessuno viene dal governo italiano, ma non si può avere tutto. Ci pensa il Papa, con l’Enciclica Laudato si’, a restituire alla questione dei cambiamenti climatici quella dimensione umana ed etica che in questi anni aveva spesso smarrito, noi non siamo mica un ente di beneficienza! siamo uomini pratici, ci interessano semmai letture puramente economiche e di ordine tecnico, totalmente miopi ma capaci di farci sparare spot ottimistici a capocchia e di farci vincere le elezioni. 
L’interpretazione del problema ribadita dal Santo Padre all’Assemblea delle Nazioni Unite di New York richiama alle proprie responsabilità ogni singolo governo e ogni singola coscienza, beninteso che siano disposti ad ascoltare. Concetti come ecologia integrale o debito ambientale indicano con chiarezza cosa siano chiamate a fare le nazioni più ricche per sostenere quelle più povere, per avvicinare il pianeta a un modello di sviluppo sostenibile sotto il profilo economico, ambientale e morale. 
Ma vi rendete conto che casino sarebbe metterli in pratica? Meglio scodellare parole in libertà e senza senso, tipo "è stata l’Europa, grazie anche al ruolo attivo dell’Italia nel semestre di presidenza, ad aver dato per prima l’esempio migliore di coesione e responsabilità".
L’accordo raggiunto nel nostro continente (ma gli obiettivi dell'Italia quando arrivano? questa è pignoleria, disfattismo; fatemi finire) – riduzione del 40% delle emissioni di CO2 rispetto ai livelli del 1990, l’aumento del 27% del consumo di fonti energetiche rinnovabili e il raggiungimento di un target indicativo, pari al 27%, nel settore dell’efficienza energetica – è oggi il più autorevole viatico per un accordo globale e ispiratore di altre importanti prese di posizione. Traguardi non nostri, beninteso, e per giunta l' Unfccc (l'organismo Onu che presiede la COP)ha detto chiaro che per rimanere entro i 2 gradi l’Ue dovrebbe tagliare le emissioni di CO2 almeno del 60% rispetto al 2010 (mentre il target individuato in sede europea di -40% rispetto al 1990 equivale solo a -27% rispetto al 2010, ndr). 
Ma per dire qualcosa senza dire niente, ci piace ricordare gli impegni congiunti presi dai massimi emettitori di anidride carbonica, Cina e Stati Uniti, il Clean power plan di Obama, il patto per il Clima di dieci oil&gas tra cui l’Eni, l’elevatissimo numero di contributi già arrivati dagli Stati per Parigi. 
Ecco, si, che c'entra l'Italia? scarichiamo il barile sulla Francia. L’Europa nella capitale francese ha una missione complessa e importante: può e deve essere il motore di un’intesa che tenga dentro tutti, che sia accettabile per i grandi come per i piccoli Paesi, per quelli ricchi (ma non so se includere tra questi l'Italia, un grande paese! certo, ma scusate, al momento non è che qui trippa per gatti ne resti molta) e per quelli in via di sviluppo. L’orizzonte che l’Europa s’è data è “zero emissioni” al 2100; e pazienza se gli scienziati hanno già dimostrato che sia un obiettivo tecnicamente raggiungibile, e tassativo, entro il 2050. Non è un sogno, ma un vero incubo che ci ritroviamo ancora a questo punto. Bè, torniamo all'orizzonte di cui sopra: è un punto di riferimento alto e qualificante, un obiettivo al quale tendere e verso il quale spingere la comunità internazionale: ci vadano loro. Per farlo occorre la consapevolezza politica, prima ancora che scientifica, della necessità di un accordo in grado di rappresentare il paradigma di un nuovo ordine mondiale. Da parte nostra, se gli altri fanno quadrato, si mettono d'accordo e ci mettono all'angolo, si vedrà; senza seri stanziamenti di fondi di incoraggiamento, e multe milionarie per inadempienze, di certo noi non muoveremo un dito.
Voglio proprio vedere se esiste la possibilità di un accordo che sia in grado nello stesso momento di: ridurre le emissioni globali, mettere in campo risorse finanziarie adeguate per gli interventi di adattamento necessari ai Paesi più poveri e più esposti ai cambiamenti climatici, definire nuove tecnologie sostenibili per uno sviluppo socioeconomico dei Paesi poveri senza ricorrere ai combustibili fossili (e qui noi ci tiriamo fuori: poveri si, ma non così tanto da dover rinunciare a trivellare), portarci a un sistema energetico con risorse rinnovabili che giunga all’efficienza energetica. 
Avviarci, insomma, a un mondo con meno disuguaglianze – senza le stridenti contraddizioni dei nostri tempi – verso un modello di sviluppo pienamente circolare; certo, certo. L’Italia per tutto questo è pronta a fare la sua parte ma, come dicevo, solo dopo che tutta la pappa sarà pronta e saremo veramente forzati a farlo. Al momento ci basti ricorrere alle solite parole in libertà, per affermare ad esempio che già l'ha fatto. Quando? massì dai, nel semestre italiano di presidenza delle istituzioni europee, in cui ha riaffermato la centralità della dimensione ambientale nelle scelte economiche. Il che poi non significa metterle in atto, che c'entra! che posso farci se la pressione delle società petrolifere ha portato a eliminare dal pacchetto Ue 2030 gli obiettivi vincolanti  per i Paesi-membri su rinnovabili ed efficienza? Ma tornando a quel che ha fatto l'Italia, la conclusione è coincisa con il significativo risultato della Cop20 di Lima - un nulla di fatto, insomma. 
Lo ha fatto tenendo fede ai suoi impegni e raggiungendo – come ha ufficializzato l’Onu – il traguardo di riduzione delle emissioni fissato dal primo periodo di impegno del protocollo di Kyoto; naturalmente non è vero - ma chi va a controllare? L’Italia insomma ci crede, che con le parole si risolve tutto; la stampa omissiva dà sempre una mano e insomma abbiamo le carte in regola per essere ottimisti.

E gli obiettivi dell'Italia dove sono? e nel concreto, in che termini? boh! noi non ne abbiamo trovati. Non ci aspettavamo che dichiarasse chessò, lo stato di emergenza climatica che potrebbe davvero cambiare le cose; ma forse Galletti ha comunicato qualche iniziativa concreta? magari ha incluso qualcosa delle richieste fatte dalle imprese italiane? O qualche spunto dai richiami delle donne
No, sembra che qui ci sia tutto, ma proprio tutto. Ma grazie se qualcuno vorrà segnalare qualche punto che ci fosse eventualmente sfuggito, dopo lettura attenta dell'intervento letterale e integrale, così come pubblicato oggi da Formiche.net, e che trovate di seguito:
L’Italia che scommette sull’economia green non può che vivere la Cop21 come una grande occasione per scrivere il futuro. Abbiamo la consapevolezza e insieme la necessità di dover raggiungere assieme a tutti gli Stati del pianeta un’intesa alta e allo stesso tempo realistica, che non vanifichi l’enorme mobilitazione attorno al tema del contrasto ai cambiamenti climatici che si è verificata lungo tutto il 2015, un anno di svolta per la comunità internazionale nelle tematiche ambientali. Trovare un accordo per contenere il surriscaldamento globale sotto l’asticella dei 2°C non è un’urgenza solo di alcuni Stati o delle prossime generazioni: lo è per tutto il mondo, per il presente immediato prima ancora che per il futuro. Il non fare può costare carissimo, in tutti i sensi.
Pensiamo ai 250 milioni di rifugiati ambientali che, se non verrà tenuta sotto il livello di guardia la febbre della Terra, lasceranno i loro territori invivibili e migreranno per trovare rifugio dagli effetti immediati dei cambiamenti climatici: gli eventi atmosferici estremi, la mancanza di risorse vitali e le guerre per accaparrarsele. Pensiamo poi ai costi economici, ai 5 trilioni di dollari di investimenti aggiuntivi dal 2020 a 2035 che, ci dice l’Agenzia internazionale dell’energia, serviranno per sostituire le tecnologie e gli impianti obsoleti che oggi utilizzano in maniera inefficiente le risorse naturali. Ma anche ai 500 miliardi di dollari aggiuntivi in termini di investimenti che servirebbero per sostenere nel prossimo decennio l’inazione sul contrasto ai cambiamenti climatici. Raggiungere un’intesa equa, vincolante, trasparente e con impegni misurabili nel tempo significa allora passare il confine tra vecchia e nuova economia. Tra la sconfitta rappresentata dal dover subire le tensioni socioeconomiche che i cambiamenti climatici innescano e la volontà reale di superarle. In questi mesi abbiamo registrato tanti segnali importanti verso un’intesa. Voglio innanzitutto citare l’Enciclica Laudato si’ di Papa Francesco, che ha restituito alla questione dei cambiamenti climatici quella dimensione umana ed etica che in questi anni aveva spesso smarrito, a vantaggio di letture puramente economiche e di ordine tecnico. Un’interpretazione del problema che il Santo padre ha ribadito all’Assemblea delle Nazioni Unite di New York e che richiama alle proprie responsabilità ogni singolo governo e ogni singola coscienza. Concetti come ecologia integrale o debito ambientale ci indicano con chiarezza cosa siano chiamate a fare le nazioni più ricche per sostenere quelle più povere, per avvicinare il pianeta a un modello di sviluppo sostenibile sotto il profilo economico, ambientale e morale. È stata l’Europa, grazie anche al ruolo attivo dell’Italia nel semestre di presidenza, ad aver dato per prima l’esempio migliore di coesione e responsabilità.
L’accordo raggiunto nel nostro continente – riduzione del 40% delle emissioni di CO2 rispetto ai livelli del 1990, l’aumento del 27% del consumo di fonti energetiche rinnovabili e il raggiungimento di un target indicativo, pari al 27%, nel settore dell’efficienza energetica – è oggi il più autorevole viatico per un accordo globale e ispiratore di altre importanti prese di posizione: gli impegni congiunti presi dai massimi emettitori di anidride carbonica, Cina e Stati Uniti, il Clean power plan di Obama, il patto per il Clima di dieci oil&gas tra cui l’Eni, l’elevatissimo numero di contributi già arrivati dagli Stati per Parigi. L’Europa nella capitale francese ha una missione complessa e importante: può e deve essere il motore di un’intesa che tenga dentro tutti, che sia accettabile per i grandi come per i piccoli Paesi, per quelli ricchi e per quelli in via di sviluppo. L’orizzonte che l’Europa s’è data è “zero emissioni” al 2100. Non è un sogno, ma un punto di riferimento alto e qualificante, un obiettivo al quale tendere e verso il quale spingere la comunità internazionale. Ma per farlo occorre la consapevolezza politica, prima ancora che scientifica, della necessità di un accordo in grado di rappresentare il paradigma di un nuovo ordine mondiale. Che sia cioè in grado nello stesso momento di: ridurre le emissioni globali, mettere in campo risorse finanziarie adeguate per gli interventi di adattamento necessari ai Paesi più poveri e più esposti ai cambiamenti climatici, definire nuove tecnologie sostenibili per uno sviluppo socioeconomico dei Paesi poveri senza ricorrere ai combustibili fossili, portarci a un sistema energetico con risorse rinnovabili che giunga all’efficienza energetica. Avviarci, insomma, a un mondo con meno disuguaglianze – senza le stridenti contraddizioni dei nostri tempi – verso un modello di sviluppo pienamente circolare. L’Italia per tutto questo è pronta a fare la sua parte. L’ha fatto nel semestre italiano di presidenza delle istituzioni europee, in cui ha riaffermato la centralità della dimensione ambientale nelle scelte economiche, la cui conclusione è coincisa con il significativo risultato della Cop20 di Lima. Lo ha fatto tenendo fede ai suoi impegni e raggiungendo – come ha ufficializzato l’Onu – il traguardo di riduzione delle emissioni fissato dal primo periodo di impegno del protocollo di Kyoto. L’Italia insomma ci crede e ha le carte in regola per essere ottimista. (Gianluca Galletti, 30 novembre 2015)

Il concetto della nostra traduzione di questo testo si ispira, quale dotta citazione, all'antica rubrica di Cuore (settimanale di resistenza umana) "parla come mangi", con le più sbrigative traduzioni di Piergiorgio Paterlini.

venerdì 27 novembre 2015

La stabilità della guerra

Legge di Stabilità. Il promesso taglio all'Ires che era stato promesso alle imprese è stato dirottato alla voce guerre.
Ieri, 26 novembre anche il sito delle Pmi riportava come i 2 miliardi che potrebbero arrivare dal via libera UE non saranno impiegati per anticipare al 2016 la riduzione d’imposta ma per "investimenti in sicurezza e cultura" (riferendosi, a questa voce, al bonus di 500 euro per i 18enni da spendere in iniziative culturali). Stamattina lo stesso sito delle imprese chiarisce che il 73% delle risorse che la Legge di Stabilità 2016 destina allo Sviluppo Economico va alla Difesa: solo 27% va alle imprese
Anziché ridurre le spese per gli F35, ad esempio, sono stati messi nel carrello anche il nuovo velivolo European Fighter Aircraft, le nuove Fregate Europee Multi Missione e blindati vari.

Approfondiamo? I testi che seguono sono tratti integralmente da articoli di Barbara Weisz usciti sul sito delle piccole e medie imprese Pmi.it • [scrive stamattina la Weisz]: Non c’è solo lo slittamento del taglio IRES al 2017 a penalizzare le PMI in favore della sicurezza: la Legge di Stabilità 2016 dirotterà finanziamenti per circa 3,2 miliardi dai fondi del Ministero dello Sviluppo Economico a sostegno della competitività (risorse per 3,7 miliardi di euro) alle grandi imprese del comparto armamenti. Per il Fondo di Garanzia PMI restano 772 milioni di euro.
Le cifre vengono fornite da Il Fatto Quotidiano, che ha consultato la nota integrativa al Bilancio del MiSE [a questa pagina della Ragioneria dello Stato trovate molti utili riferimenti, ndr]. 
Si tratta di un 73% di risorse che andranno a cofinanziare programmi d’armamento della Difesa. Fra le voci, lo sviluppo del nuovo velivolo European Fighter Aircraft, di nuove fregate FREMM (Fregate Europee Multi Missione) e del programma VBM (Veicolo blindato medio). Ci sono anche stanziamenti per sviluppo e consolidamento dell’industria aerospaziale ed elettronica hi-tech.
Altri dati: le risorse per la Difesa sono pari ai 2 terzi dell’intero bilancio del MiSE e al 99,7% degli stanziamenti per politica industriale e PMI (a cui sono destinati 7 milioni di euro, il rimanente 0,3%). C’è infine mezzo miliardo per Export italiano, TLC, fonti alternative. Il ministero spiega che «gli stanziamenti per la Difesa sui nostri capitoli di bilancio, approvati di anno in anno dal Parlamento, rispondono a una politica industriale che riconosce da un lato l’importanza dell’esigenza di difesa nazionale sancita dalla nostra Costituzione [ma la nostra Costituzione sancisce anche che l’Italia ripudia la guerra! ndr], e dall’altro l’elevato contenuto tecnologico di questo settore industriale che funge da volano per l’intera economia».
E aggiunge che comunque “gli investimenti per le PMI ci sono eccome”, ad esempio sotto forma di agevolazioni fiscali per 2,7 miliardi di euro, che però utilizzano risorse di provenienze comunitaria.
E le PMI protestano? Alberto Baban, presidente della Piccola Industria di Confindustria, esprime una posizione moderata e definisce le spese per la Difesa una priorità, pur lamentando «la mancanza di una politica di difesa comune a livello europeo» che «ha impedito in questi anni una effettiva revisione di queste spese per valorizzare le eccellenze dei singoli Paesi eliminando duplicazioni». In generale, si dichiara soddisfatto per le misure a sostegno delle PMI in Legge di Stabilità, definita «sufficientemente espansiva». 
Con un po’ di malizia, si potrebbe aggiungere che qualche volta le spese per la Difesa qualche buon risultato lo hanno portato anche alle PMI: Internet nasce da un Progetto della Difesa degli Stati Uniti. E’ anche vero, però, che forse le risorse per la ricerca sarebbe meglio darle alle università e magari anche alle comuni imprese: in questa direzione vanno misure legislative come le leggi degli ultimi anni sulle start-up e PMI innovative" (Barbara Weisz).

Noi rinunciamo anche a commentare; tutte queste "piccole" notizie nella notizia si commentano da sole. Con ancora più forza, però, rimandiamo tutte le donne - almeno le donne - a questo appello alle donne politiche ed elette

E chiudiamo con una piccola chiosa (che precede di 2 settimane questo pezzo), di Cecilia Strada:
La stabilità della guerra, la crescita del terrorismo.
E della fame, delle ingiustizie, della predazione globale.

lunedì 23 novembre 2015

Arabia Saudita: nel paese dove sono vietate le donne anche la poesia è condannata morte

Basta un secondo del vostro tempo: a questo LINK offrite una firma per la vita di Ashraf. O anche qui.
Noi, che come lui siamo vietate, stiamo con il poeta Ashraf Fayadh e invitiamo a sostenerlo con ogni mezzo - incluso rilanciare la campagna #AshrafFayadh promossa su twitter da @MonaKareem.



Si, nessuna esagerazione: ogni donna, in paesi come l'Arabia Saudita o gli Emirati, è una potenziale criminale; così pericolose che non è permesso loro nemmeno denunciare uno stupro. Sarà per questo che le donne vi sono in tutto e per tutto cancellate, censurate, rinchiuse, zittite, imbavagliate, nascoste: insomma: vietate. Così vietate che l'Ikea le dovette perfino cancellare dai propri cataloghi destinati alla sede saudita. E' proibita ogni libertà, sono proibiti i diritti,  e anche la poesia è proibita. Sono invece leciti gli assassini e le torture di Stato, condanne che vengono inflitte con le scuse più ignobili. Dove ogni Bellezza è vietata, perfino essere belli è una colpa imperdonabile: frustate per le donne, se dagli occhi che spuntano dai miseri buchi delle prigioni di stoffa tentano i poveri maschi innocenti, ma anche espulsioni dal paese per gli uomini, se "troppo belli".
Ed è così che un poeta può finire arrestato, frustato e condannato a morte, per la surreale colpa di "non credere in Dio". Ma quale Dio? può esistere un Dio che ispira simili condanne? molto più facilmente esistono uomini (incredibilmente tanti, purtroppo) abitati da demoni al punto di osare scaricare su un Dio la colpa delle loro efferatezze. 
Arrestato nel gennaio 2014, condannato a 4 anni di prigione e 800 frustate, il 17 novembre scorso Ashraf è stato anche condannato a morte con queste accuse: aver promosso l’ateismo con testi inclusi in una sua antologia poetica del 2008, Instructions within; e - ovviamente - relazioni illecite, mancanza di rispetto al Profeta e minaccia alla moralità saudita (e no comment su una moralità che consente condanne come questa).


Bontà sua, la  "giustizia" saudita lascerà la testa sul collo al condannato per almeno 30 giorni: questo il tempo concesso per presentare appello.
Come possiamo definire tutto questo? come, se non terrorismo? legale, ma non meno terrorista di quello illegale.
Il terrorismo islamista, dunque, non è solo l'Isis: ma per esempio un paese ricco e potente, solido "alleato" dell'Italia, grade acquirente di armi italiane (che poi in buona parte finiscono, appunto, all'Isis): l'Arabia Saudita.
Fayadh, (per sua sfortuna) nato qui da genitori palestinesi, ha 35 anni; era tra i curatori della mostra Rhizoma alla Biennale di Venezia, nel gruppo di artisti britannico-saudita Edge of Arabia di cui fa parte.
Stiamo al suo fianco, e non dimentichiamo Raif Badawi - è questo il solo modo di stare al fianco anche di tutti gli Ashraf e i Raif di cui non sapremo mai nulla.  

sabato 21 novembre 2015

La risposta della guerra: un appello a tutte le politiche e alle parlamentari donne

Care amiche politiche: fatevi sentire, là dove si decide, promuovete politiche produttive e sensate contro il terrorismo e le guerre.
Vi chiediamo di ascoltare quanto si dice nel pezzo che trovate a questo LINK [tenendo possibilmente conto delle fonti a cui, anche, vi si rimanda] e poi, soprattutto, di dire la vostra

Gli approcci tradizionali alla soluzione dei conflitti (quelli in cui i gruppi armati si incontrano a porte chiuse per produrre a ripetizione brevi tregue) falliscono definitivamente, di fronte alle guerre contemporanee. Negli ultimi dieci anni il numero dei conflitti armati è molto aumentato; nel 2014 il mondo ha versato il più alto tributo di morti in battaglia dai tempi della Guerra Fredda. Intanto cresce sempre più la richiesta di approcci inclusivi, quale nuovo mezzo per affrontare queste sfide. 
In tutto ciò ancora in pochi capiscono il pieno impatto della partecipazione delle donne sui risultati per la pace e la sicurezza. 
Su questo tema i nostri (già carenti) politici dovrebbero attrezzarsi di più; rimandiamo QUI i più volonterosi: vi troveranno preziosi riferimenti di studi su cui approfondire.
Molto utile anche la breve sintesi a questo LINK: che, basandosi sui dati esistenti, mostra come, se le donne possono influenzare nelle loro comunità le decisioni e riescono a governare iniziative contro l'estremismo, aiutano immancabilmente a prevenire i conflitti, creano pace e sostengono la sicurezza dopo la fine di una guerra.
[Sul tema "Isis" in particolare vedi anche, ad esempio: la resistenza di Kobane contro Isis • ma anchela resistenza delle donne contro l'Isis].

Che con le donne si alzino le probabilità di risolvere le crisi senza ricorrere alla violenza è un fatto. Ci sono prove schiaccianti che l’empowerment femminile e la parità di genere sono strettamente associati con la pace e la stabilità nella società. Vi chiediamo dunque di usare tutta la vostra voce, tutto il vostro potere.
Chiamiamo a raccolta tutte le donne a questo compito - particolarmente se attiviste e giornaliste, ma voi, politiche ed elette, più di tutte, perché è nelle vostre mani la responsabilità più grande.

mercoledì 18 novembre 2015

Mariana è una Fukushima del Brasile: l’ennesima tragedia dell’avidità che grida vendetta

Due dighe hanno ceduto il 5 novembre in Brasile, causando morti, dispersi e il peggior disastro ecologico nella storia del paese, le cui conseguenze sono talmente gravi da essere anche, al momento, impossibili da valutare. Ma non è tutto: altre 2 sono a rischio di fare la stessa fine, e perfino la Samarco Mineração, che irresponsabilmente e strenuamente, negava ogni pericolo, ieri (martedì 17 novembre) ha ammesso che, per le forti piogge, nuove strutture potrebbero cedere.

La Samarco Mineração (che riunisce i giganti minerari Vale SA e BHP Billiton), proprietaria della miniera che ha causato il primo disastro, non aveva nessun piano di monitoraggio né ha mai dato alcun preavviso di pericolo (come rivela Nilo Davila di Greenpeace Brasile); non solo! ma poiché nei giorni precedenti il crollo c'erano state piccole scosse di terremoto, la società aveva comunicato che i suoi tecnici avevano fatto ispezioni "senza rilevare niente di anomalo". Un'ora dopo questa dichiarazione è scoppiato l'inferno. E anche ora la Samarco peggiora la situazione, dichiarando che la marea di fango che ha travolto tutto “non è materiale tossico”. Biologi ed esperti ambientali sono unanimi, invece, nel dichiarare che è pericolosissimo; molti animali domestici e selvatici, oltre a tutti gli animali acquatici e anfibi che popolavano il fiume che dava vita alla valle, sono morti tra atroci sofferenze, e le autorità locali hanno dato disposizione, alla popolazione già poverissima scampata al disastro, di smaltire i vestiti e gli oggetti entrati in contatto con i fanghi.

Al di là delle tragedie che riguardano le vittime e coloro che hanno perso tutto, e di Mariana e dei suoi dintorni (bellissime cittadine storiche di Minas Gerais), l'intero ecosistema è devastato. La catastrofe di Mariana è un disastro ecologico fra i peggiori nella storia del paese, e del mondo intero: una sorta di Fukushima del Brasile.



Le dighe venivano infatti utilizzate per contenere rifiuti minerari. Questi ora hanno invaso, con la colata di fango, oltre 500 km, traboccando dallo Stato di Minas Gerais a quello di Espirito Santo, e coprendo una distanza maggiore di quella tra Rio e San Paolo. Il sistema delle acque del Rio Doce (e affluenti) è gravemente contaminato (i risultati dei test saranno disponibili solo nelle prossime settimane), ma non solo: il limo che si depositerà sul fondo dei fiumi è tanto che modificherà il loro stesso corso. E, secondo i geologi, quando il fango si consoliderà renderà difficile coltivare.Secondo gli esperti ambientali la colata tossica non solo danneggerà gravemente tutta la vegetazione e le specie animali, ma potrebbe seppellire la barriera corallina: creando danni su una scala "incommensurabile", secondo Marco Vinicio Polignano, dell'Università di Minas Gerais.
Secondo una relazione di valutazione del 2014 (che è nelle mani del Ministero delle Miniere e dell'Energia), c’è almeno una decina di altre dighe il cui livello di rischio è considerato elevato; del resto altri disastri simili, anche se di entità minore, avevano già avuto luogo negli anni passati, ma non se ne è quasi parlato, nessuno è corso ai ripari.
Alla miniera è stata immediatamente imposta una multa di 250 milioni di reais (61 milioni di euro).
Una multa che non solo è una miseria; ma un insulto. 
Fosse anche comminata una multa mille volte tanto, l’ipotetico risarcimento in denaro non coprirebbe mai nemmeno lontanamente i danni che ricadranno sulla regione e su tutta l’umanità.
Quello che deve cambiare è un intero paradigma di pensiero: dobbiamo smettere di accettare che, per fare denaro, la vita stessa sia minata alla base.
Con tutte le nostre forze dobbiamo stare al fianco di tutte le piccole Màxima Acuna del mondo, contro lo strapotere suicida dei forzati del profitto.

sabato 14 novembre 2015

Il dopo Parigi: questa guerra mondiale è dell'odio di tutti contro tutti. Combattiamo dunque resistenze; in cui le donne hanno da insegnare al mondo quello che hanno imparato nei millenni

l’11 settembre fu dichiarazione di guerra all’America; il 13 novembre di Parigi è una dichiarazione (ufficiale) di guerra mondiale. All’1emezza del 14 novembre i morti prevedibili sono già oltre 100; ma la gravità di questo eccidio va ben oltre questi già spaventosi numeri. La gravità sta in un conflitto trasversale che conduce, inevitabilmente, alla guerra di tutti contro tutti. 



Quando invece avremmo bisogno di ben altro.
Tante volte, negli ultimi anni, mi è capitato di tornare a casa dal lavoro e quasi stupirmi di vedere intorno una città ancora tranquilla, apparentemente pacifica, in cui le persone pensano agli affari propri: tra mille difficoltà, forse, ma pur sempre, ancora in tempo di pace. Mille volte, la sera, mi è capitato di pensare con compassione ai disperati in mare [oh, l'immagine di quel neonato sottratto alle acque gelide], o alle prese con i fili spinati, ringraziando di avere ancora un letto, una casa amica.
Come è possibile che tanti, tantissimi, reagiscano invece solo schiumando rabbia, invocando rappresaglie e altra guerra? E per giunta, spesso, prendendo a bersaglio proprio chi dalle guerre scappa. Nelle stesse ore pare che bruci (nuovamente) la giungla di Calais: la bidonville dei profughi giunti in Francia e che vi restano bloccati: gli è impedito di raggiungere la Gran Bretagna attraverso il tunnel della Manica, a causa di accordi bilaterali tra i ministri degli interni di Londra e Parigi, che non riconoscono loro lo status di rifugiati. La bidonville diventa dunque anche un focolaio di malessere contro cui si riversa la collera dei cittadini, fomentati dall’estrema destra xenofoba.

Eppure. Eppure molti di questi migranti provengono da Siria e Iraq: fuggono dall’Isis, per diventare poi bersagli di chi dell’Isis si vuole vendicare. Quando capiremo che l'islamismo, e in particolare l'islamismo politico (quello dell' "Islam will dominate the world"!) nulla a che fare con una fede che, con tutte le sue contraddizioni include anche la grazia e il pacifismo dei Sufi? essere musulmani è una cosa, essere islamisti un'altra.

Scrive il sito Wakeup che "per eliminare i jihadisti l’Occidente deve collaborare con Putin e Assad": negli ultimi mesi l’Occidente, Stati Uniti in primis, hanno espresso parole di condanna nei confronti del Presidente russo Putin, il quale ha deciso, d’accordo con il Governo di Damasco, di attaccare i terroristi presenti sul popolo siriano. Invece che unirsi alla lotta contro i jihadisti, i leader occidentali hanno preferito parlar male degli unici due capi di Stato che combattono i terroristi: Putin e Assad.
Davvero? In verità abbiamo memoria corta, se dimentichiamo che l'attaccamento di Assad al proprio potere dittatoriale è stata primaria causa dello scatenarsi di questo inferno.
Ma forse si! forse a questo punto serve un'alleanza anche con loro. Resta il fatto che anche questi leader sono fra quelli che hanno seminato instancabilmente guerre e anche nella loro “lotta all’Isis” perseguono il modello guerrafondaio invasivo che produce inevitabilmente altra violenza. Come loro il presidente turco Erdogan che, sostenendo di voler intervenire "contro l’Isis", ha iniziato a bombardare la Siria: ma il suo scopo era invece colpire il vero, principale (e davvero effettivo) avversario dell’Isis sul campo: la resistenza curda. Erdogan [il dittatore islamista Erdogan] è stato un alleato conclamato dell'Isis; e ora, nonostante l'orribile strategia della tensione che ha fomentato pur di re-impadronirsi dalla Turchia, osa profondere ipocrisia sugli attacchi contro Parigi.
Lo stesso dicasi dell'ambiguo cordoglio degli stati islamici [che anch'essi hanno nutrito Isis con fiumi di denaro].
A noi sembra invece ora che il mondo riconosca quali sono i soli e veri alleati contro terrorismo; ora di sostenere, dall’interno, la resistenza: di chi davvero difende la civiltà contro la barbarie, promuovendo democrazia. Ora di sostenere la strenua resistenza curda contro l'Isis per esempio.

La soluzione non sono le guerre; ma semmai, se non c'è stata prevenzione, le resistenze. Quando ci sveglieremo?
Quando comprenderemo che siamo condannati ad amarci? Oppure [vedi la sintesi della nostra amica Gioia], a farci del male tutto il tempo l’un l’altro, come imbecilli.
Le donne profondano un crescente contributo a rifiutare la logica patriarcale della violenza che - come lucidamente argomentava Virgina Woolf - è all'origine di tutte guerre.
Ps • qualcuno ricorda la meravigliosa reazione che ebbe la Norvegia dopo la strage del 2011? Tornare per un istante con la mente a quei giorni..
Stasera le strade di Oslo sono invase dall'amore"; "risponderemo con più umanità, più democrazia". Queste parole resteranno nella storia, sono come una zattera a cui aggrapparsi per salvare il mondo e noi stessi.

mercoledì 11 novembre 2015

Le donne nella lotta al cambiamento climatico: appello alla COP21 di Parigi 2015

Abbiamo già invitato da questo blog a mobilitarsi in vista dell'accordo della 21° Conferenza per il Clima che avrà luogo a breve a Parigi. Invitiamo anche a riconoscere i veri focus del problema: e che l'aggravarsi del clima, l'aumento delle guerre, il dilagare della povertà e la riduzione dei diritti sono tutte questioni strettamente collegate.

In questo ambito chiediamo a tutte e tutti di leggere, firmare e condividere l'appello che segue, facendolo circolare il più possibile:

Noi, Presidenti del Consiglio superiore per l'uguaglianza di genere, della Delegazione per i diritti della donna dell'Assemblea nazionale e del Senato di Francia, così come le istituzioni e le associazioni partner, desideriamo condividere la nostra ambizione a ottenere un solido impegno politico e finanziario a sostegno dell’empowerment femminile e della parità di genere, nell'accordo da concludersi alla COP21 (21° Conferenza delle Parti della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici) che si terrà a Parigi dal 30 novembre all'11 dicembre 2015. 
Per questo abbiamo elaborato il documento di richiesta intitolato «Le donne, attrici della lotta al cambiamento climatico», volto a convincere gli Stati partecipanti, e i loro negoziatori, dell'importanza di tener conto del contributo delle donne nella lotta al cambiamento climatico nell’Accordo attualmente in fase di negoziazione. Come si vedrà, oltre ad essere le prime vittime delle conseguenze del cambiamento climatico nei paesi in via di sviluppo, le donne sono già le principali risorse in materia di sviluppo sostenibile, nonostante i molti ostacoli che devono superare. Eppure il loro contributo non è sufficientemente riconosciuto e, ad oggi, il loro accesso ai processi decisionali, nonché ai meccanismi di finanziamento e di trasferimento di tecnologie rimane limitato. E invece le donne saranno tanto più efficaci quanto più verranno sostenute e messe in grado di esercitare pienamente i propri diritti.
L'appello che chiediamo di firmare, «Sostenere le donne nell'affrontare i cambiamenti climatici: perché ci siamo impegnati?» si propone di mobilitare il più possibile i leader politici e la società civile in tutto il mondo. E' attraverso l'azione collettiva che riusciremo ad integrare la parità di genere in modo esplicito e l'emancipazione femminile nell’accordo stesso della COP 21, così come nelle strategie per affrontare il cambiamento climatico, e relativi fondi. Vi ringraziamo per il sostegno che vorrete darci firmando e facendo circolare il più possibile tra i vostri amici e colleghi.

L'appello
Dalla COP 21 del prossimo dicembre a Parigi dovrà uscire un accordo per contenere il riscaldamento globale e i suoi numerosi impatti negativi. In tale accordo deve essere pienamente riconosciuta l’importanza del contributo delle donne alla lotta contro il cambiamento climatico. Politici, artisti, associazioni, cittadine e cittadini, noi ci siamo tutte e tutti impegnati in questa chiamata.

Nei paesi in via di sviluppo il cambiamento climatico ha conseguenze ancora più gravi per le donne che per gli uomini 
Nella vita di tutti i giorni, la crisi climatica colpisce le donne povere più severamente rispetto agli uomini: la crescente scarsità delle risorse naturali allunga i percorsi - sono loro che devono procurare l'acqua e il legno ancor più faticosamente - e ne aumenta le ore di lavoro e la precarietà delle condizioni di vita.

E quando c'è una catastrofe climatica, sono loro le più vulnerabili perché le più esposte: l'80% delle vittime del ciclone Sidr in Bangladesh (2007) e il 61% delle vittime di Nargis in Birmania (2008) erano donne e bambine. Nelle zone colpite l'assistenza sanitaria e l'accesso alla contraccezione sono spesso ridotti a zero, ostacolando ulteriormente la loro capacità di controllare le nascite, condizione essenziale per la loro emancipazione.

Riconoscere le donne come attrici della lotta contro il cambiamento climatico
Nonostante questi ostacoli e la discriminazione che devono affrontare, le donne sono in prima linea nella lotta per ridurre le emissioni di gas serra e l'adattamento agli impatti dei cambiamenti climatici: sono loro che innovano in tutti i continenti ricorrendo all’agricoltura conservativa (che riduce i consumi e gli impatti), organizzando serbatoi idonei per irrigazione e acqua potabile, creando profondi processi di riciclaggio dei rifiuti ... [e salvaguardando la biodiversità difendendo i semi e piantando alberi, ndr].
Eppure le loro azioni, spesso condotte a livello locale, sono poco valorizzate e raramente finanziate. Attrici misconosciute di questa battaglia, le donne sono poco coinvolte nelle decisioni a livello nazionale e nei negoziati internazionali. E saranno tanto più efficaci quanto più potranno essere autonome e messe pienamente in grado di esercitare i loro diritti.

COP 21 deve segnare un decisivo passo avanti inscrivendo nell’accordo di Parigi impegni concreti in materia di parità tra donne e uomini, e nelle strategie e finanziamenti futuri.

Noi chiediamo:
• L'inclusione nell'accordo di Parigi dei diritti umani e dell'uguaglianza di genere, valorizzando il contributo delle donne e rafforzando la loro partecipazione a tutti i livelli della lotta contro il cambiamento climatico.

• L'attuazione pratica di tali impegni, garantendo che i progetti e finanziamenti dedicati alla lotta contro i cambiamenti climatici promuovano la parità di genere e l'empowerment femminile.
9 novembre 2015 [traduzione di La rete delle reti femminili]

Vi rimandiamo anche a quest'altro appello delle reti femminili, rivolto al COP21 per includere nei termini dell'accordo i temi della salute e dell'empowerment femminile.
E infine, anche alla dichiarazione-appello per azioni urgenti per il clima promossa da WECAN (Women's Earth and Climate Initiative); appello che, già 2 anni fa, avevamo rilanciato anche tramite il video che segue: vi segnaliamo che non si tratta banalmente di uno spot, ma di un video informativo pieno di dati e di proposte concrete, che può rappresentare uno strumento concreto di formazione e sensibilizzazione utilizzabile in molti ambiti, per esempio nelle scuole.