mercoledì 31 luglio 2013

Giudici costituzionali: 15 membri, 1 sola donna. Il che appare come un rapporto incostituzionale.

Chi sono i Giudici della Corte Costituzionale attualmente in carica? 
Ecco l'elenco: prof. Franco Gallo • prof. Gaetano Silvestri, eletto nel 2005 : prof. Luigi Mazzella, eletto nel 2005 • prof. Sabino Cassese.  prof. Giuseppe Tesauro • Nominato nel 2005 • dott. Paolo Maria Napolitano. Nominato nel 2006; avv. Giuseppe Frigo. Nominato nel 2008 • dott. Alessandro Criscuolo. Nominato nel 2008 • prof. Paolo Grossi. Nominato nel 2009 • dott. Giorgio Lattanzi. Nominato nel 2010 • dott. Aldo Carosi. Nominato nel 2011 • prof. Marta Cartabia. Nominata nel 2011 • prof. Sergio Mattarella. Nominato nel 2011 • Mario Rosario Morelli. Nominato nel 2011 • dott. Giancarlo Coraggio. Nominato nel 2013.
Notate anche voi quello che notiamo noi? il genere femminile vi è rappresentato per meno delll'8%:
• in aperto contrasto con il dettato costituzionale stesso,
• e in stridente violazione dell'impegno assunto dalla Repubblica, proprio in sede costituzionale, a promuovere con appositi provvedimenti le pari opportunità fra donne e uomini.
E la cosa interessante è che, riguardo all'elenco dei giudici costituzionali precedenti (le cui cariche sono ora cessate), la percentuale scendeva addirittura al 3% e rotti (28 giudici maschi contro 1 sola giudice donna). Ed ecco una domanda che viene in mente solo alle donne: come è possibile che simili consessi maschili possano, nel loro ambito, promuovere la parità di genere? Non è continuando a nominare sempre e solo figure maschili che si potrà uscire da questo grottesco squilibrio. 
Ci auguriamo dunque che il Presidente vorrà tenere conto dell'educato "appello" dell'Accordo di Azione Comune per la Democrazia Paritaria, che trovate di seguito: ma non per comprensiva gentilezza, quanto perché operare in questa direzione rientra in un preciso dovere costituzionale, ad oggi ancora disatteso.

Al Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano


Illustre Presidente,
nel prossimo mese di settembre dovrà essere nominato un nuovo Giudice Costituzionale per la scadenza naturale di un mandato.
Poiché attualmente la Corte Costituzionale vede la presenza di una sola Giudice, sottoponiamo alla Sua attenzione l’opportunità di nominare un’altra donna per rivestire tale ruolo.

Le rivolgiamo questo caldo invito poiché riteniamo non giustificabile l’attuale esigua presenza femminile, anche in considerazione della possibilità di individuare agevolmente tra le donne competenze adeguate.

Come Accordo di Azione Comune per la Democrazia Paritaria - ricorderà che abbiamo avuto l’onore di essere state da Lei ricevute nell’aprile 2012 - da anni stiamo sostenendo a tutti i livelli e nelle varie circostanze la necessità di incrementare le presenze femminili nei luoghi della rappresentanza politica e istituzionale del nostro Paese. 

L’intento delle 55 Associazioni che hanno sottoscritto l’Accordo è quello di colmare il divario - ormai insostenibile e ingiustificabile - tra le competenze delle donne italiane e la loro presenza sulla scena pubblica.
         
Contiamo dunque sulla Sua sensibilità e sui richiami da Lei più volte esplicitati circa la necessità di dare valore alle donne italiane anche allo scopo di sostanziare la nostra democrazia e rinvigorirne la presenza a tutti i livelli pubblici.

Accordo di Azione Comune per la Democrazia Paritaria, 31 luglio 2013

Primo incontro di sorellanza: la vita di noi donne da difendere, la vita da reinventare

Dal 1 al 4 agosto, in Toscana, invito a un "primo incontro di sorellanza": quattro giorni di condivisione fra donne di diverse provenienze, origini ed età, per dialogare, conoscersi e vivere la sorellanza.
Un'occasione per interrogarsi fra donne sulla vita che vogliamo migliorare, per ragionare su come intessere relazioni di solidarietà benefica fra donne. Su come difendersi dalle offese maschiliste, dal patriarcato e dalla sua violenza. Si incroceranno diverse esperienze, a partire da un filo teso, dall'Italia, all´Argentina e alla Spagna. 
Scrivono le organizzatrici: ogni giorno svolgeremo insieme un dialogo su un tema, mentre nel resto della giornata potremo scegliere fra momenti di lettura, incontri con autrici, film, passeggiate. Ci accoglierà la splendida Casa al Dono nel bosco di Vallombrosa (nei pressi di Firenze), luogo ideale per liberare insieme l'immaginazione di un presente e un futuro da reinventare.

Appuntamenti in programma
1 agosto 
dalle h. 17.00: Arrivi e aperitivo di benvenute

2 agosto
h. 17.00: Genere primo. 
Dialogo con Sara Morace, autrice con Dario Renzi de L’origine femminile dell’umanità, tra le principali ispiratrici della Corrente di pensiero Utopia socialista.
h. 21 Musica dal vivo con Daniela Nossa

3 agosto
h. 17.00: Sorellanza e libertà. 
Dialogo a più voci.
h. 21 Serata teatrale: "Volevo solo giocare", di e con Arianna D’Ambrini

4 agosto
h. 11.00: Affermare e difendere la vita, il nostro impegno contro la violenza patriarcale. 
Confronto fra esperienze.
h. 21 Festa di saluto nella corte della Casa.

Inoltre incontri con Círculos de Amigas Feministas di Buenos Aires “Comenzando a construir hermandad entre mujeres en la Argentina”; Ivana Trevisani autrice con Leila Ben Salah di "Ferite di parole, le donne arabe in rivoluzione"; Luciana Tufanidirettora della rivista Leggere Donna e altri.

Tante donne vi aspettano e fra loro le prime promotrici:
Coordinamento Dipende Da noi Donne  
Colectivo Feminista revolucionario y libertario (Barcelona)
Per contatti e partecipazioni:
chiamate "dipende da noi donne": +39 342 013 56 09 oppure scrivete a dipendedanoidonne@libero.it • oppure: Casa della Cultura di Utopia socialista: tel. +390558622714 • csutopia@tiscali.it  

martedì 30 luglio 2013

Se non con Marta, non certo con Stefano Esposito

Una donna che denuncia va rispettata.
Due concetti belli netti e semplici:
1. le manganellate sarebbero giuste,
2. una donna che denuncia dice falsità.
E li esprime a caldo, senza la minima riflessione, un senatore del PD. Sarebbe questo il PD della gente che ha fatto la fila alle primarie, votando compatta il patto del mai-alleanze-con-Berlusconi, per ritrovarsi con il governo che ci ritroviamo? 
A quanto pare si, almeno finché la base non se lo riprenderà. 
• Premesso che va tutta la nostra solidarietà a chiunque sia minacciato di morte - e dunque anche ad Esposito, riguardo alle minacce che ha subito dopo questo fatto, e spiace anche per cose sgradevoli successe anche nei mesi scorsi - che però ci pare molto scorretto collegare a Marta.
• Premesso che non crediamo sia il caso di far ricadere la responsabilità di simili minacce contro un'attivista che manifestava per le sue convinzioni.
• Premesso che la denuncia di Marta non ci sembra affatto così inverosimile.
• Premesso tutto ciò, pensiamo dovere di tutte e di tutti respingere il victim blaming automatico che porta a dichiarazioni aprioristiche come quelle del senatore Esposito. Perciò, se non con Marta con chi dovremmo stare? certamente con lei, e adesso. Non certo con il senatore Esposito.
E, se siete con Marta, vi ricordiamo che potete partecipare alla campagna promossa da questa pagina fb.


Riceviamo, e volentieri pubblichiamo:
Durante l'attacco ai manifestanti No Tav da parte delle forze dell'ordine avvenuto la notte del 19 luglio scorso presso il cantiere della Val Clarea, una giovane manifestante catturata dalla polizia ha denunciato pubblicamente non solo di essere stata manganellata dopo che il fermo era già avvenuto, ma anche palpeggiata nelle parti intime dagli uomini delle forze dell'ordine nonché fatta oggetto di sputi e di pesanti insulti.

Non abbiamo letto una sola riga di indignazione, né ascoltato una sola parola di condanna da parte delle varie personalità femminili radical chic, sempre pronte a riempirsi la bocca di espressioni sdegnate quando una donna diviene bersaglio della violenza maschile e delle logiche maschiliste [su questo cari amici di Marta spiace vedere che del vero impegno e delle lotte delle donne non sapete molto, e che la vostra fretta di giudicare non troppo si discosta da quella del sen. Esposito, ndr].

Ma forse Marta, giovane dotata di spirito critico e di coraggio nell'esprimere la propria opinione e il proprio dissenso nei confronti di scelte politiche scellerate, non merita la solidarietà di quelle donne che sono pur sempre complici di una classe politica non solo irreparabilmente ipocrita e machista , ma anche totalmente discreditata agli occhi di quella parte di opinione pubblica che ancora é in grado di utilizzare in modo libero il proprio pensiero.

Purtroppo è già emerso il negazionismo da parte dei sindacati di Polizia, e si preannunciano querele ai danni della vittima. Non c'erano testimoni e temiamo, come succede in paesi guidati da regimi dittatoriali, che la vittima dei soprusi paghi per il solo fatto di aver avuto il coraggio di denunciarli.

Non abbiamo dubbi che Marta abbia raccontato la verità, e non è la prima volta che alcuni reparti delle forze dell'ordine, come già successo nella caserma Diaz a Genova o il 6 dicembre 2005 a Venaus, si macchiano di comportamenti che andrebbero puniti a norma del codice penale. Per questo facciamo nostra la denuncia pubblica di Marta, alla quale va tutta la nostra solidarietà incondizionata.

Fonte: info.notav. A nome del comitato NO TAV Susa - Mompantero, delle donne del Movimento NO TAV e dei partecipanti alla fiaccolata di martedì 23 a Susa: Ilva Traversa, Fulvia Di Stefano, Doriana Tassotti, Elisabetta Lambert, Maria Grazia De Michele, Franca Fontana, Rosanna Vighetto, Gabriella Tittonel, Emanuela Favale Abbà, Nina Garberi, Elena Pozzallo, Ausilia Cinato, Nelly Cinato, Ivana Pelissero, Alice Carrà, Valter Di Cesare, Angelo Gorrino, Denis Fontana, Corrado Motta, Franco Zaccagni, Mario Fontana.

lunedì 29 luglio 2013

L'affido condiviso, la Pas, e i continui disegni di legge contro le donne e contro il diritto di difendersi dei bambini: facciamo chiarezza

ARCHIVIO/DOCUMENTI Sul tema dell'affido condiviso, detto anche della "bigenitorialità", c'è molta confusione. E' una confusione voluta e indotta da molti, perché su questo terreno si giocano battaglie di importanza cruciale per le donne e per la stessa democrazia. E per affrontarle è necessario essere ben informate/i. Con questo post cerchiamo dunque di darvi un quadro di riepilogo utile a orientarsi.
La legge 54/2006
Nel 2006 è stata introdotta in Italia la cosiddetta “legge sull’affido condiviso” (54/2006) il cui scopo avrebbe dovuto essere garantire la “bigenitorialità”, cioè il sacrosanto diritto, per i figli di genitori separati, di crescere mantenendo un rapporto con entrambi i genitori. Ma quella legge tuttora in vigore presentava, fin dall’inizio, una profonda lacuna nel fatto che non vi era prevista alcuna modalità di azione o prevenzione nell’eventualità (non certo rarissima) che, nella famiglia interessata dalla separazione, fosse presente l’elemento dei maltrattamenti o di altri gravi abusi. In assenza di tali precauzioni, l’obbligo dell’affido condiviso, anziché migliorare la situazione, può acuire pre-esistenti condizioni di pericolo
Cosa che è stata drammaticamente dimostrata nei fatti, inclusi casi eclatanti in cui il genitore abusante, nell’esercizio dei suoi diritti di “bigenitorialità”, ha portato a termine sui figli atroci vendette di cui spesso il vero obiettivo è la madre, rea di volere la separazione.
Sarebbero dunque necessari interventi migliorativi capaci di disciplinare questi aspetti e di tutelare i soggetti più deboli. 
Eppure, paradossalmente, la legge è stata si messa in discussione più volte, ma i ripetuti tentativi di ritoccarla non andavano affatto nella direzione di garantire i componenti della famiglia da simili pericoli, e dall’eventuale coniuge violento.
Al contrario, come se la legge fosse solo il primo grimaldello con cui intaccare diritti da tempo acquisiti, sono stati messi in campo numerosi tentativi di revisione volti addirittura a stravolgere il principio base della bigenitorialità, direttamente ai danni della donna. E come? sbilanciando la cifra dalla “condivisione” a un riconoscimento sostanzialmente preminente nei confronti del padre.
Ciò ignorando platealmente non solo che questo sbilanciamento contraddice la Costituzione e il diritto di famiglia, ma anche che, per quanto i maltrattamenti possano essere perpetrati da entrambi i genitori, statisticamente le violenze e gli abusi sono in larga maggioranza operati dal coniuge maschio, in un disequilibrio di genere certamente favorito da retaggi culturali di dominio.

Il ddl 957 e la PAS
E un ritorno a questo “dominio” è appunto il senso più profondo delle modifiche che intendeva imporre il ddl 957, voluto da Pdl e Udc.
Questo decreto insisteva sulla potestà dei genitori reintroducendo appunto elementi di quella “patria potestà” che era stata cancellata nel 1975, con il diritto di famiglia che stabiliva la parità fra i coniugi.
E infatti, premesso che “il figlio è soggetto alla potestà dei genitori sino all’età maggiore o alla emancipazione” questo spudorato decreto avrebbe introdotto che nel momento i cui “sussiste un incombente pericolo di grave pregiudizio per il figlio, il padre può adottare i provvedimenti urgenti ed indifferibili (art. 316 e 322)”. 
Il padre, cioè un genitore per principio preminente rispetto all’altro.  
Ma non solo. Per maggior sicurezza, là dove tenta di dare al padre, in modo aprioristico, un potere che esclude la madre (e di fatto la assoggetta), il ddl 957 intende anche prevenire che tale potere possa venire scalfito dall’emergere di abusi e, appunto, da relative contestazioni. E così si brandisce, dandole status di strumento giuridico, una teoria senza alcun fondamento, la quale vuole che, se i figli rifiutano un genitore perché lo temono, la causa si debba al “condizionamento negativo” indotto dall’altro genitore (nella fattispecie si adombra sempre il concetto della “madre malevola” che riesce a penetrare l’inconscio dei figli portandoli a odiare il padre).  E’ la cosiddetta Pas (Parental Alienation Syndrome), o “sindrome di alienazione parentale” o di “alienazione genitoriale”, volta a esautorare ogni versione fornita da familiari abusati.

Co’è la Pas o presunta ‘sindrome di alienazione genitoriale’?
La cosiddetta Pas è una ipotetica “sindrome” messa a punto a uso e consumo dei negazionisti della violenza domestica. Un concetto che (strumentalizzando fenomeni di contrapposizione che notoriamente si creano fra coniugi in via di separazione), generalizza malamente, prestandosi a ogni distorsione volta a negare le problematiche di abusi violenti e/o pedofili. E come tale è giustamente additata come sindrome giustificativa, volta a negare l’incidenza delle violenze e degli episodi di pedofilia.
Né appare un caso che la Pas come strumento giuridico sia stato inventato da uno psichiatra su cui pesano appunto pesanti sospetti di pedofilia: Richard Gardner. Il quale non solo sosteneva apertamente che non vi fosse “nulla di particolarmente sbagliato nella pedofilia, incestuosa o meno”, ma alla sua morte, avvenuta per suicidio, è stato trovato positivo ai farmaci per la castrazione chimica che evidentemente si autoprescriveva. Informazioni più approfondite su Gardner QUI, e alla relativa fonte originale, articolo di Andrew Gumbel].
Ad ogni modo, la presunta Pas è stata negli ultimi decenni attentamente verificata sia in sede psichiatrica sia giuridica, venendo sconfessata in numerosi paesi in cui si era tentato di introdurla (dagli Usa, all’Europa).  Ad oggi non solo non è mai stata scientificamente provata, ma è ormai riconosciuta come “scienza spazzatura” dal contesto scientifico internazionale.
Qui alcune valutazioni: Società Italiana di PediatriaAndrea Mazzeo [vedi anche QUI], Maria Serenella Pignotti. Inoltre Jorge Corsi di ASAP [fonte secondo alcuni controversa ma che citiamo per completezza].

Perché la Pas è strumento utile a negare violenza e pedofilia?
Perché attenzione: ove si introduca la PAS, si mette il bavaglio ai figli che rifiutino un genitore. La loro testimonianza non è ammessa in quanto “non attendibile” (perché di certo frutto di “plagio” dell’altro genitore).
E si verifica così il paradosso per cui il genitore che, a causa di possibili abusi e violenze, è temuto dai figli, viene favorito, perché appunto la presenza di un rifiuto nei figli viene considerata frutto di una colpa del genitore che invece dai figli è accettato.
Come recita l’art. 9 del ddl 957: “il comprovato condizionamento della volontà del minore, in particolare se mirato al rifiuto dell’altro genitore attivando la sindrome di alienazione genitoriale, costituisce inadempienza grave, che può comportare l’esclusione dall’affidamento”. Ove il “comprovato” condizionamento viene provato sostanzialmente dalla presenza di resistenze nei figli, i quali non vengono ascoltati perché “inattendibili”. E il gatto si morde la coda senza soluzione di continuità.
La PAS è un formidabile strumento intimidatorio contro le donne, e possibile viatico per lasciapassari a violenti e pedofili. Come tale la PAS è l’obiettivo principe di chi vorrebbe tornare agli ordinamenti ottocenteschi e si oppone dunque al diritto di famiglia attuale, in quanto ritenuto “troppo matriarcale”. Sembra incredibile, vero?

Chi vuole la Pas in Italia, strumento utile a negare violenza e pedofilia?
Dato quanto sopra, non ci si spiega come mai in Italia si insista, contro ogni orientamento internazionale, e contro ogni logica e giustizia, a voler fare della PAS uno strumento giuridico: che sconfessa la maggior parte delle denunce e consente di estromettere i bambini dai ruoli di testimoni.
Eppure, sull’onda di tale obiettivo, sono stati presentati in successione ben 5 disegni di legge. Ma attenzione: non solo dalla destra più conservatrice – che pure ha fatto da apripista. Alle bordate della destra sono seguite a ruota quelle di esponenti di tutti i partiti (che evidentemente cullano in sé visioni trasversalmente patriarcali e ostili alle donne):
1. ddl 957 (Pdl e Udc), 
2. ddl 2800 (IDV), [in palese disaccordo, peraltro, con esponenti donne di IDV stesso]
3. ddl 3289 (UDC-SVP-AUT UV-MAIE-VN-MRE-PLI-PSI) al Senato, 
4. ddl 5257 (PDL) alla Camera.
TUTTI questi progetti di legge presentano, sotto diverse facce, lo stesso, identico tentativo: quello di introdurre (tramite il cavallo di Troia dei giusti “diritti dei bambini” al rapporto con entrambi i genitori), l’arma impropria della Pas, che toglie ai bambini ogni voce.
TUTTI questi ddl pretendono che i genitori “armonicamente” interagiscano condividendo ogni dettaglio della vita di figlie e figli. Sempre? Si, anche quand’anche la separazione sia conseguenza di violenza domestica o altri abusi. Ed è questo che perpetua, e anzi può drammaticamente acuire, eventuali condizioni pre-esistenti di pericolo.
E a questi si aggiunga (ultimo nato) il Progetto di Legge n° 1403 presentato il 22 luglio 2013 dall’On. Bonafede e da altri parlamentari del Mov5stelle: il quale rischia di essere ulteriormente peggiorativo, rispetto ai precedenti, anche se ha l'accortezza di non citare espressamente la Pas.  
Nel frattempo, questo è ciò che accade in Italia: sempre più avvocati che difendono genitori abusanti ricorrono al pretestuoso strumento della “Pas”, al fine di vanificare le denunce di abusi nei loro confronti. E mentre la parte maltrattante viene rappresentata nella condizione di vittima, il coniuge maltrattato finisce sul banco degli accusati, come calunniatore e manipolatore dei figli (della cui testimonianza non si tiene più conto). E per tale soggetto-supposto-calunniatore cosa si chiede? che perda i diritti di genitorialità – quelli che si voleva “garantire equamente” a entrambi i genitori. 
Non stupiamoci dunque se nel nostro paese violenza e femminicidio raggiungono ormai dimensioni da emergenza nazionale.  

Che fare
E' necessario fare chiarezza, in primis fra coloro che, confusi da argomentazioni ingannevoli, cadono in buona fede in convinzioni controproducenti. Magari in seguito a cattive esperienze fatte con donne che di fatto cercano di abusare, a fini personali, dei loro diritti di ex-coniugi o di madri: noi tutte e tutti conosciamo situazioni del genere, e noi donne per prime siamo ben consce che non è certo l'essere "donna" che può garantire, in sè, comportamenti equi. Ma non si possono prendere simili casi a statistica per demonizzare le donne al fine di distorcere la legge in senso antiparitario. Sono ben più numerosi i padri che NON si interessano dei figli mai, e che per un'intera vita non contribuiscono al sostentamento nemmeno con un euro. : che facciamo, allora togliamo diritti a tutti i padri che si comportano bene?
Gli strumenti legali che già ci sono vanno utilizzati meglio, e migliorati in ben altro senso.
E tantomeno, il fatto che esistano donne che si fanno scudo di giuste battaglie per penalizzare uomini che non lo meritano può essere la scusa con cui negare la grave difficoltà che le donne e i bambini già vivono rispetto alla violenza e abbandonarli ad essa ancora più di quanto già non avviene.
Dobbiamo chiarire che, se davvero vogliamo arginare la violenza domestica con tutte le sue tragiche conseguenze:
1. simili disegni di legge di modifica dell’affido condiviso, che adombrando miglioramenti tentino di introdurre la PAS, vanno decisamente contrastati, 
2. le denunce di violenza e/o pedofilia NON sono da vanificare, rubricandole a escamotage scorretti per ottenere migliori condizioni di separazione;
3. nessuna madre considera la vicinanza di un padre responsabile e attento un ostacolo da evitare, bensì una risorsa preziosa;
4. la bigenitorialità va dunque salvaguadata nella sua vera essenza, e non in termini strumentali contro le donne;
5. qualunque proposta seria di bigenitorialità deve esplicitamente prevedere ed affrontare l’eventualità di un partner abusante o che abbia già espresso minacce, rispetto al quale è prioritario prendere provvedimenti: a partire dalla revoca di ogni forma di affido condiviso.




domenica 28 luglio 2013

La prima a pagare Maria Luisa Pellizzari, la sola che tentò di resistere alle pressioni kazake

Maria Luisa Pellizzari è stata rimossa dal ruolo di Direttrice dello SCO (servizio centrale operativo) della Direzione Anticrimine Centrale.
Caso Shalabayeva: "chi ha sbagliato deve pagare", diceva Letta il 13 luglio. L'ira del premier,  titolava Repubblica. La donna e la sua bambina sono ovviamente state consegnate, come ostaggi, a un paese in cui (come ci avverte la Corte Europea per i Diritti dell'Uomo) si ricorre alla tortura: ostaggi e "metodi" con i quali le autorità kazake potranno ora premere per un ritorno-suicido del dissidente. 
La donna rischia concretamente, inoltre, una pesante condanna penale, e la bambina rischia ancora più concretamente un orfanotrofio kazako.  Sarebbe un'onta per l'Italia, commenta Repubblica. 
No, l'Italia si copre di onta già da sola. Sarebbe invece un'immane tragedia per una donna e una bimba innocenti. Ma per fortuna il nostro premier ha dichiarato che eserciterà moral suasion sul governo kazako (?). E che i responsabili non la passeranno liscia. 
E il nostro ministro dell'Interno? Come è noto, Alfano lavora da sempre per conto di un signore molto amico del dittatore kazako, e che di questa amicizia si vanta non da oggi. E che, soprattutto, ha in comune con lui stretti legami su lucrosi affari economici

Ma, naturalmente, tutto questo è ininfluente. E infatti, contro i responsabili della deportazione in Kazakistan, il nostro ministro dell'Interno promette "il pugno duro". Peccato che il responsabile principale sia proprio lui, e lui resta saldo al suo posto
• Nonostante la Costituzione dica chiaro che ogni ministro sia responsabile per ogni azione del suo dicastero. 
• Nonostante sia ormai dimostrato che prima del blitz l’ambasciatore kazako è stato per due giorni negli uffici del Viminale, dando addirittura disposizioni ai funzionari impegnati nelle ricerche del dissidente marito della donna. 
• Nonostante il ministero di Alfano abbia attuato una vera e propria «consegna su ordinazione» alle autorità kazake. 
E allora chi paga? Chi ha rimosso, per ora, il ministro non-responsabile che non-sapeva? Non è tanto chiaro, francamente. Abbiamo visto per ora che è stato obbligato alle dimissioni l'ex capo di gabinetto del Viminale, Giuseppe Procaccini, e che sono stati trasferiti il capo della segreteria del Dipartimento di Pubblica sicurezza, Alessandro Valeri); il questore de L'Aquila Giovanni Pinto… ma soprattutto la direttrice dello SCO.
Considerati i "cambi di mansione", a noi sembra che  la sostituzione più notevole sia proprio quella di Pellizzari: eppure non sembra lei la più "indiziabile". Visto che si, ha acconsentito a ordinare la seconda perquisizione nella villetta di Casal Palocco, ma ha anche messo a verbale di avere ricevuto ripetute pressioni.
Visto che - soprattutto - pare sia stata la sola a cercare di resistere alle pressioni kazake. 
Alla fine, insomma, l'impressione è che il non-ministro che non-sapeva abbia addirittura utilizzato lo scandalo, che avrebbe dovuto vedere le sue dimissioni, come volano per piazzare figure a lui più gradite - inclusa quella del prefetto Iurano. Ironia della "sorte", Iurano, che era stata declassata dalla ministra  Cancellieri, ora è stata promossa; mentre Pellizzari, che era stata voluta da Cancellieri, viene declassata.
Maria Luisa Pellizzari, già Direttrice del Servizio Polizia Stradale, era stata nominata direttrice dello SCO un anno fa - dopo che si fecero nuove nomine in seguito agli accertati maltrattamenti nella caserma Diaz. Ma ora un bello spintone e fuori dalla porta, al suo posto Raffaele Grassi. Lei (se abbiamo capito bene, resta a dirigere il "Servizio studi e addestramento della Scuola di Polizia". 
E noi donne abbiamo perso un'altra figura di riferimento capace di essere interlocutrice, e non muro di gomma o di pietra contro cui sbattere. 

Vi lasciamo di seguito un suo intervento riguardo al ruolo che possono (potrebbero) avere contro la violenza sulle donne strutture strategiche come quella di cui lei è oggi (purtroppo) ex-direttrice:
“Il Servizio Centrale Operativo è una struttura di polizia centrale altamente specializzata per il contrasto alla criminalità organizzata – non di matrice terroristica ed eversiva – e comune in tutte le sue manifestazioni più pericolose e in qualunque composizione etnica si esprima. Ha funzioni di impulso e coordinamento informativo e operativo delle Squadre Mobili delle Questure, e partecipa direttamente alle indagini delle Squadre Mobili nei casi di particolare complessità. Nel corso degli anni ha assunto sempre più importanza, anche nelle attività seguite dallo SCO (Servizio Centrale Operativo della Polizia di Stato), il contrasto della violenza di genere, tematica nella quale la Polizia di Stato ha sempre avuto un’esposizione di primo piano, essendo stata la prima Forza di polizia a dotarsi, fin dai primi anni Sessanta, di una struttura dedicata, con il Corpo di Polizia Femminile. Nel corso degli anni, parallelamente alla riorganizzazione della Polizia di Stato, anche le strutture dedicate alla trattazione dei reati commessi in pregiudizio di donne e minori sono stati innovati. Infatti, nel 1996 sono stati istituiti, presso ogni Questura, gli Uffici Minori, incardinati nelle Divisioni Anticrimine e deputati allo svolgimento dell’attività di prevenzione. Nel 1998, invece, è stata costituita, presso ogni Squadra Mobile, una sezione ad hoc specializzata nelle indagini concernenti lo sfruttamento della prostituzione, della pornografia e il turismo sessuale in danno di minori, competenza che, negli anni, è stata estesa ai reati commessi in ambito domestico e allo stalking. Gli operatori assegnati agli Uffici che si occupano di tale tematica ricevono una specifica formazione multidisciplinare che pone al centro dell’attenzione le vittime e le modalità più efficaci per prevenire la recrudescenza delle violenze. Ciò può essere ottenuto attraverso una corretta valutazione dei fattori di rischio e la conseguente valutazione del rischio di recidiva, che può arrivare alla commissione dell’omicidio, nei casi più gravi. Al riguardo, attesa l’estrema importanza della formazione in un settore così delicato, lo SCO, avvalendosi della collaborazione di docenti del Dipartimento di Psicologia della Seconda Università di Napoli e di operatori dell’associazione Differenza Donna, che gestisce centri antiviolenza nella provincia di Roma, ha sperimentato, in numerosi corsi di formazione, il metodo S.A.R.A., acronimo che sta per Spousal Assault Risk Assessment, ovvero Valutazione del rischio di aggressione della partner. Il monitoraggio interforze degli omicidi consumati sul territorio nazionale, effettuato dal Dipartimento della Pubblica Sicurezza, ha evidenziato, infatti, che la maggior parte di quelli commessi in pregiudizio di donne è maturato in un contesto familiare (in particolare, dal 2010 ad oggi, del totale degli omicidi con vittima di sesso femminile, circa il 70% è stato commesso in ambito familiare). L’Italia, possiamo dire, ha una legislazione avanzata in tal senso, pur non essendovi una fattispecie penalistica di violenza domestica. Da ultimo, la L. 23 aprile 2009, n. 38 ha introdotto il delitto di atti persecutori, colmando un vuoto giuridico che non consentiva agli operatori di polizia di intervenire in tutti quei casi ai limiti della rilevanza penale. L’esperienza di questi anni di applicazione della nuova norma ha confermato che anche lo stalking si concretizza nella maggior parte di casi tra partner ed ex-partner. Sotto il profilo delle misure di intervento, la legge ha dotato il Questore dello strumento, di tipo preventivo, denominato ammonimento, che offre una tutela anticipata alla vittima di stalking che non intende presentare una formale denuncia-querela. Dopo più di tre anni di applicazione l’ammonimento è risultato efficace nell’impedire che i comportamenti persecutori siano portati a ulteriori conseguenze. La sua funzione dissuasiva, determinata dal fatto che l’inosservanza delle prescrizioni contenute nel provvedimento comporta la procedibilità d’ufficio per atti persecutori, è dimostrata dal fatto che, allo scorso 26 novembre 2012, solo il 18% dei soggetti ammoniti è risultato recidivo, venendo successivamente denunciato o arrestato per atti persecutori”
Maria Luisa Pellizzari, 30-11-2012 (intervento al convegno "Femminicidio: Analisi, metodologia e intervento in ambito giudiziario. Per una strategia concreta di lavoro interdisciplinare"). 

sabato 27 luglio 2013

Il disegno di legge AS724 per la promozione della soggettività femminile e per il contrasto al femminicidio

Quella che segue è la relazione con cui un gruppo di paramentari ha presentato in Senato l’A.S.724  “Disposizioni per la promozione della soggettività femminile e per il contrasto al femminicidio".  
Si tratta di un disegno di legge volto a contrastare la violenza, che introduce fra l'altro:
• un codice dei media orientato a principi di rispetto della dignità delle donne,
• misure a sostegno dei centri antiviolenza,
• modifiche al codice penale in materia di violenza agita in presenza di minorenni, 
• la creazione di un  fondo per il contrasto della violenza e di specifiche banche dati,
• tutele lavorative e disposizioni mirate a combattere la violenza economica,
• programmi di riabilitazione dedicati agli uomini condannati per violenze,
• formazione di personale di polizia in materia di delitti contro la personalità individuale e libertà sessuale.
• misure di prevenzione, anche da realizzare con il coinvolgimento delle scuole e delle forze dell’ordine.

Ma rimandiamo inoltre al testo completo, interessante anche per la semplicità di linguaggio che ne rende agevole la comprensione. E naturalmente anche la sintesi (quasi integrale) della relazione che riportiamo qui. Guardiamo con speranza a una proposta di legge finalmente scaturita da una visione di insieme capace di approccio inter e multidisciplinare. Non dubitiamo che incontrerà molti oppositori: teniamola d’occhio.

Onorevoli Senatori. È necessaria una nuova legge organica per la promozione della soggettività femminile e il contrasto al femminicidio, che abbia un approccio integrale e multidisciplinare e che sia formulata anche secondo le più recenti convenzioni internazionali e le raccomandazioni del comitato CEDAW.
Un disegno di legge in linea con le raccomandazioni del comitato CEDAW
La Convenzione sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne, Convention on the Elimination of All Forms of Discrimination against Women (CEDAW), adottata nel 1979 dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite, viene intesa comunemente come carta internazionale dei diritti per le donne. Secondo l’articolo 1 la discriminazione comprende la violenza di genere, vale a dire, la violenza diretta contro le donne in quanto donne, o che colpisce le donne in modo sproporzionato. Vi rientrano le azioni che procurano sofferenze o danni fisici, mentali o sessuali, nonché la minaccia di tali azioni, la coercizione e la privazione della libertà.
L’Italia ha ratificato la CEDAW il 10 giugno 1985 e successivamente ha aderito al protocollo opzionale. Gli Stati che hanno ratificato la CEDAW e le altre carte regionali si sono assunti un obbligo ben preciso: adoperarsi affinché le donne abbiano cittadinanza, ovvero affinché possano in concreto godere dei loro diritti fondamentali. Il che implica per lo Stato l’obbligo di attivarsi per rimuovere le situazioni discriminatorie, non solo attraverso modifiche normative ma anche e soprattutto promuovendo un cambiamento culturale, stabilendo che la libertà di scelta della donna, la sua integrità psico-fisica, sono valori assoluti da riconoscere [obbligo che, ricordiamo, lo Stato italiano si è assunto anche con la recente ratifica della Convenzione di Istanbul, ndr].
Per muoversi nello spirito delle raccomandazioni del comitato CEDAW è necessario un intervento legislativo organico e integrato che agisca su vari piani: culturale, formativo, legislativo e che soprattutto abbia un forte impatto sulla società. Anche perché, come scritto nel preambolo della CEDAW; «Le pratiche discriminatorie ostacolano la partecipazione delle donne ad ogni aspetto della vita del proprio paese in condizioni di parità con gli uomini, il che intralcia la crescita del benessere delle società e delle famiglie».
La violenza alle donne come genocidio nascosto
La violenza oggi non è solo residuale. È piuttosto una nuova risposta a cambiamenti introdotti dalle donne. La violenza maschile sulle donne è la prima causa di morte delle donne in tutta Europa e nel mondo. la violenza alle donne come genocidio nascosto -- per dirla come Amartya Sen -- non è un residuo del passato e non va assolutamente sottovalutata. Dietro il femminicidio introdotto nel dibattito nazionale ed internazionale c’è non solo l’omicidio di donne – in questo caso si parla di femmicidio, che è concetto diverso -- ma la continua erosione della loro dignità, il tentativo di negare la piena espressione della loro personalità. Il femmicidio costituisce solo la cima di un enorme iceberg sommerso.
La violenza sulle donne non è solo il frutto di un’aggressione individuale. Esiste una dimensione sociale della violenza e il fatto che gran parte della violenza si svolga in famiglia significa che la dimensione sociale include i rapporti coniugali, tra partner e genitoriali. Solo un’infinitesima parte degli aggressori è affetta da alterazione più o meno momentanea (alcolisti, tossicodipendenti, persone con problemi mentali); è un fenomeno trasversale a ceti ed ambienti e bisogna andare a fondo per capire perché cittadini ritenuti assolutamente normali, di ogni professione e livello culturale, attaccano l’identità delle loro mogli o compagne e perché provano, e spesso riescono, ad umiliarla e distruggerla.
Femmicidio e femminicidio
Già nel 1995, la IV Conferenza mondiale delle Nazioni Unite definì la violenza di genere come il manifestarsi delle relazioni di potere storicamente ineguali fra donne e uomini. L’elaborazione teorica accademica utilizza il concetto di femminicidio per identificare le violenze fisiche e psicologiche contro le donne che avvengono in (e a causa di) un contesto sociale e culturale che contribuisce a una sostanziale impunità sociale di tali atti, relegando la donna, in quanto donna, a un ruolo subordinato e negandole, di fatto, il godimento del diritti fondamentali. 
Il termine è il frutto della collaborazione tra istituzioni accademiche, enti non governativi e movimenti in difesa del diritti delle donne, da questa congiuntura di idee e competenze nasce una nuova prassi e un fondamentale sviluppo concettuale.
Il concetto di femminicidio comprende, infatti, non solo l’uccisione di una donna in quanto donna (femmicidio), ma ogni atto violento o minaccia di violenza esercitato nel confronti di una donna in quanto donna, in ambito pubblico o privato, che provochi o possa provocare un danno fisico, sessuale o psicologico o sofferenza alla donna. L’uccisione della donna è quindi solo una delle sue estreme conseguenze, l’espressione più drammatica della diseguaglianza esistente nella nostra società.
L’antropologa messicana Marcela Lagarde, fra le teoriche del concetto di femminicidio, sottolinea il carattere strutturale del problema evidenziando come «La cultura in mille modi rafforza la concezione per cui la violenza maschile sulle donne è un qualcosa di naturale, attraverso una proiezione permanente di immagini, dossier, spiegazioni che legittimano la violenza, siamo davanti a una violenza illegale ma legittima, questo è uno dei punti chiave del femminicidio». 
È, infatti, proprio il contesto culturale ad implicare la sostanziale impunità sociale e la «normalizzazione» del fenomeno che legittimano il femminicidio, soprattutto quando le istituzioni si mostrano inadeguate ad affrontarne la drammaticità e specificità.
Occorre una nuova stagione delle relazioni
Molti studi dicono che la violenza sulle donne non è mal reazione ad un torto e neanche e soltanto lo sfogo maschile a proprie insoddisfazioni o frustrazioni. 
È molto di più: richiama un livello qualitativamente diverso. Attiene a profonde motivazioni culturali, ai modelli del rapporto tra i generi, tra le persone. Per questo la violenza oggi non è purtroppo [non è solo, ma in buona parte lo è, ndr] frutto di arcaismi. La violenza in tutte le sue forme è piuttosto un modo per riappropriarsi di un ruolo gerarchicamente dominante a cui sono connessi privilegi.
Ma soprattutto è crisi d’identità
Il punto vero è la crisi di identità nelle relazioni tra uomini e donne, nel campo più intimo della relazione, nella relazione amorosa. Occorre una nuova grammatica delle relazioni. A fronte di una nuova identità femminile stenta ad affermarsi una nuova identità maschile in grado di porvisi in relazione.
La radice della moderna violenza sta nella fragilità dei ruoli e nella fragilità della relazione. Ancora non abbiamo conseguito una forma di relazione tra soggetti autonomi che siano in grado di stare su di un piano di pari autonomia e dignità. Per questo dobbiamo compiere un salto di qualità nella battaglia culturale, nell’assunzione di responsabilità dello Stato, perché la violenza ha radici moderne e non è quindi frutto di arcaismi. Un salto di qualità nell’azione, perché c’è un salto di qualità nella violenza, non già azione residua le di un mondo arretrato, bensì risposta nuova di una consapevolezza nuova delle donne rispetto ai loro diritti.
Un fenomeno in gran parte ancora sommerso
Dagli studi e dai media emerge un panorama inquietante di un fenomeno in gran parte ancora sommerso. «È violenza di genere - sostiene Linda Sabbadini, direttore del dipartimento per le statistiche sociali e ambientali dell’ISTAT - perché le donne la subiscono in quanto donne, in relazione alla loro diversità sessuale. È la violenza dell’intimità e non dell’estraneità, è la violenza di chi pensi che ti ami e non di chi ritieni sia un nemico. È una violenza vissuta in solitudine che non viene denunciata nella quasi totalità del casi».
Da ulteriori studi si è constatato che gran parte delle donne uccise lo sono per mano del marito o del partner. Ma questa è ancora violenza rumorosa, eclatante. Come lo è quella legata agli stupri etnici e alla prostituzione coatta, moderna forma di «tratta delle bianche». È purtroppo solo una minima parte delle violenze. La gran parte della violenza è però silenziosa e non si lascia rinchiudere, in modo rassicurante, nelle gabbie delle patologie o del mondo esterno cattivo. Le case e i centri delle donne ci dicono poi che i dati sono sempre in difetto rispetto alle realtà. Infatti nel maltrattamenti e negli abusi intrafamiliari una percentuale molto alta non viene denunciata all’autorità giudiziaria o alla denuncia seguono spesso periodi così lunghi di violenza morale che poi (in particolare per violenze non di tipo sessuale) è molto difficile procedere. La lenta reattività dell’ordinamento e della risposta giudiziaria espone le donne a ulteriore violenza e le induce anche alla fine ad accettare accordi che costituiscono in realtà una resa incondizionata al più forte e violento. Il presente disegno di legge muove dalla consapevolezza che i processi di cambiamento possono essere anche interrotti. La violenza, oltre che un danno alle singole persone, alle donne e alle bambine, è anche un attacco al cambiamento e al progresso sociale, alla nostra Costituzione e ai diritti umani.
Dimensione sociale della violenza e gerarchia del rapporti
La violenza di cui ci si occupa non appartiene quindi ad un mondo posto ai margini di rapporti quotidiani improntati normalmente al rispetto reciproco in famiglia e nel lavoro o esclusivamente a mondi che esplodono in guerre o in crisi drammatiche. Certamente una parte di violenza è legata a questi mondi «particolari» ed essa ha toccato negli ultimi anni in modo terribile molte donne In Paesi a noi vicini, molte ragazze, giovani, bambine, costrette da gruppi criminali a prostituirsi o a cadere nelle maglie terribili della tratta. Ma c’è una connessione tra mondi particolari e mondo normale, sì che il mondo che unisce insieme i tipi di violenza compiuti, nell’uno e nell’altro mondo, va a costruire una robusta trama in cui si cerca di impigliare l’identità individuale e collettiva delle donne e di congelare ruoli sociali e culturali.
La violenza, morale, psicologica, fisica, economica, sessuale, da parte del partner è piuttosto un modo per riappropriarsi di un ruolo a cui sono connessi privilegi e soprattutto di un ruolo gerarchicamente dominante. La violenza diventa quindi uno strumento usato contro la donna che non vuole riconoscere questo potere, questa gerarchia nel rapporti, così come ci è stata consegnata dal passato. Forse per questo la violenza non si ferma neanche di fronte alla gravidanza.
Il sostegno dei centri anti violenza
È significativo che, laddove esistono forti centri antiviolenza, se a sostenere le donne ci sono le case ed i centri delle donne, e se si formano pool antiviolenza, anche con protocolli d’intesa tra le istituzioni, le denunce di violenza aumentino. Si allenta la paura, si rafforza la volontà di rompere la complicità con la violenza anche perché c’è chi può aiutare nella volontà di tornare libere. In Italia non tutti i centri possono offrire ospitalità alle donne vittime di violenza e al loro figli. Secondo i dati di Telefono Rosa, complessivamente su 127 centri esistenti in Italia 99 sono gestiti da associazioni di solo donne e solo 61 hanno una casa rifugio per una capacità complessiva di circa 500 posti letto. Non c’è una equa distribuzione di centri antiviolenza su tutto il territorio nazionale: molte regioni ne hanno pochissimi, alcune regioni nessuno.
Il Consiglio d’Europa raccomanda un centro antiviolenza ogni 10.000 persone e un centro d’emergenza ogni 50.000 abitanti. In Italia dovrebbero esserci 5.700 posti letto ce ne sono solo 500. Siamo lontano dagli standard europei richiesti.
L’importanza della prevenzione
La violenza, per essere realmente combattuta ha bisogno di un cambiamento culturale, e nessuna legge, anche la più rigorosa dal punto di vista penale, può arginare la violenza se non è accompagnata da una volontà di cambiamento nel rapporto tra i sessi e le persone. Decisivo il ruolo di prevenzione che possono svolgere le scuole, come potenti agenti di cambiamento, con iniziative di sensibilizzazione, informazione e formazione che conferiscano agli studenti autonomia e capacità d’analisi. La presenza di un referente per l’educazione alla relazione, come indicato dal disegno di legge, può sollecitare misure educative a favore delle pari opportunità tra generi e della promozione della soggettività femminile. importante anche la presenza di nuclei specializzati tra le Forze dell’ordine e nelle ASL.
La sottolineatura della prevenzione della violenza sollecita le istituzioni a farsi carico del fenomeno a 360°: ciò significa agire anche sugli uomini che la perpetrano. L’ipotesi di un lavoro con gli uomini era, fino a pochi anni fa, assolutamente non considerata, ma in questi ultimi anni è diventata evidente la necessità di lavorare anche con gli uomini, nell’ambito della lotta agli stereotipi culturali e di genere. L’articolo 5 del CEDAW sottoscritto anche dall’Italia vuole il nostro impegno in questa direzione. Tra le esperienze internazionali più interessanti c’è quella realizzata da anni in Canada: il Correctional service of Canada (CSC) nel National family violence prevention programs dell’anno 2001, che ha tracciato le linee guida di programmi riabilitativi forniti principalmente su autori di sesso maschile che sono stati violenti verso le loro partner. Anche nel Regno Unito dal 1991 è stato creato e avviato un progetto dal titolo «Domestic violence intervention project», il cui fulcro è la conduzione di gruppi di uomini con l’obiettivo di comprenderei motivi alla base della violenza e porre fine all’uso della stessa all’interno delle relazioni affettive. In Italia esistono già interessanti esperienze in tal senso a Roma e a Torino. Il disegno di legge affronta tutti questi aspetti della prevenzione; questi programmi mirati vanno sostenuti perché possono migliorare la sicurezza della vittima e concorrere ad interrompere il circuito della violenza.
Il panorama nazionale e internazionale
Una nuova cultura dei diritti umani
Dalla Quarta conferenza Internazionale sulle donne tenutasi a Pechino nel 1995 alla Conferenza mondiale di Stoccolma contro lo sfruttamento sessuale dei minori del 1996, dalle ultime iniziative dell’ONU a quelle europee, emergono una più matura elaborazione del fenomeno della violenza e una più forte assunzione di responsabilità.
Negli ultimi anni si sono infatti moltiplicate le prese di posizione, le raccomandazioni, le risoluzioni deIl’ONU, dell’UNICEF, del Parlamento e del Consiglio d’Europa.
Il filo conduttore è dato dall’innestarsi di una nuova cultura dei diritti umani, inclusiva di quelli delle donne e del bambini e bambine. Lo sguardo alla violenza diviene, allora, sempre più lo sguardo alla violazione dei loro diritti. La stessa concreta solidarietà a chi incontra la violenza, perché non rimanga -- anche se è importante in sé -- fenomeno momentaneo ed isolato, sollecita una più moderna concezione del rapporti tra donne e uomini, una più elevata visione dell’infanzia e dell’adolescenza.
L’Unione europea
Il fenomeno produce un rifiuto collettivo e un evidente allarme sociale nella cittadinanza europea. Secondo Eurobarometro, l’87 per cento dei cittadini europei condivide e appoggia le politiche dell’Unione europea contro la violenza domestica.
Il fenomeno nel suo complesso è all’attenzione nel panorama europeo e internazionale. Fra i numerosi documenti delle istituzioni europee relativi al fenomeno della violenza di genere citiamo la risoluzione del Parlamento europeo sulla violenza contro le donne e programma Daphne del 1999 (proclamato dallo stesso Parlamento «Anno europeo della lotta contro la violenza nei confronti delle donne»), che sollecita un approccio coordinato per contrastare su scala nazionale la violenza di genere, implementando strategie che coinvolgano diversi strumenti per prevenire le violenze e affrontarne le conseguenze. A questa risoluzione ha fatto seguito il Programma d’azione comunitaria sulle misure preventive intese a combattere la violenza contro i bambini, i giovani e le donne (2000-2003, programma DAPHNE), emanato dal Parlamento europeo e dal Consiglio d’Europa e la raccomandazione Rec (2002) 5 del Comitato dei Ministri agli Stati membri sulla protezione delle donne dalla violenza adottata il 30 aprile 2002. Una delle priorità indicate dalla strategia quinquennale 2010-2015 adottata dalla Commissione europea è il contrasto alla violenza di genere.
La risoluzione del Parlamento europeo del 5 aprile 2011 in materia di lotta alla violenza contro le donne [2010/2209 (INI)] riporta che il 20-25 per cento delle donne europee ha subito atti di violenza fisica almeno una volta nella vita adulta e che più del 10 per cento ha subito violenze sessuali che comportano l’uso della forza. Il Parlamento europeo indica il mezzo per ridurre significativamente il fenomeno in un insieme di azioni infrastrutturali, giuridiche, giudiziarie, esecutive, didattiche, sanitarie e di interventi nel settore dei servizi. Inoltre, la risoluzione invita commissione e Stati membri ad affrontare il problema della violenza contro le donne e la dimensione di genere delle violazioni del diritti umani sul piano internazionale. 
Fra gli strumenti internazionali esistenti per riconoscere e contrastare il fenomeno citiamo: la CEDAW del 1979, la Dichiarazione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite sull’eliminazione della violenza contro le donne del 1993, la Piattaforma per l’azione approvata dalla IV Conferenza mondiale sulla donna dell’ONU a Pechino nel 1995, per la quale il Consiglio europeo del 1995 ha stabilito la stesura di rapporti annuali sull’implementazione, che prevede un approccio integrato al fenomeno e ribadisce che i diritti umani delle donne e delle bambine sono parte inalienabile, integrale e indivisibile dei diritti umani universali, la risoluzione dell’Assemblea mondiale della sanità «Prevenzione della violenza: una priorità della sanità pubblica» del 1996, dove l’OMS riconosce la violenza come problema cruciale per la salute delle donne; la risoluzione (n. 52/86) dell’Assemblea generale dell’ONU su «Prevenzione del reati e misure di giustizia penale per eliminare la violenza contro le donne». Tutti i documenti citati concordano nel riconoscere come la violenza di genere sia generata dal contesto culturale e violi e limiti i diritti fondamentali delle donne in un quadro di grave inadeguatezza delle risposte istituzionali.
L’Organizzazione generale della Nazioni Unite
Nel 1985 anche l’Italia ha ratificato la più volte citata CEDAW adottata dall’Assemblea generale dell’ONU nel 1979, impegnandosi ad adottare «misure adeguate per garantire pari opportunità a donne e uomini in ambito sia pubblico che privato». Il monitoraggio dei risultati avviene ogni 4 anni. Gli Stati firmatari presentano un rapporto governativo con tutti gli Interventi portati avanti per raggiungere i risultati richiesti dalla CEDAW.
Le ultime raccomandazioni del comitato CEDAW al nostro Paese sono state fatte in occasione della 49ª sessione di valutazione tenutasi nel luglio 2011 presso le Nazioni Unite a New York e sono state pubblicate il 3 agosto 2011. Tra tre anni sarà la volta di un nuovo rapporto periodico, il settimo da quando esiste la Convenzione. Nelle raccomandazioni del 2011, il comitato CEDAW ha accolto con favore l’adozione del decreto-legge 23 febbraio 2009, n. 11, convertito, con modificazioni, dalla legge 23 aprile 2009, n. 38, che introduce il reato di stalking in Italia, «Il Piano di azione nazionale per combattere la violenza nei confronti delle donne e lo stalking, casi come la prima ricerca completa sulla violenza fisica, sessuale e psicologica nei confronti delle donne, sviluppata daIl’ISTAT». Azioni che, però, non bastano: «il Comitato rimane preoccupato per l’elevata prevalenza della violenza nei confronti di donne e bambine nonché per il persistere di attitudini socio-culturali che condonano la violenza domestica, oltre ad essere preoccupato per la mancanza di dati sulla violenza contro le donne e bambine migranti, Rom e Sinte». E prosegue: «Il Comitato è inoltre preoccupato per l’elevato numero di donne uccise dai propri partner o ex-partner, che possono indicare Il fallimento delle Autorità dello Stato-membro nel proteggere adeguatamente le donne, vittime del loro partner o ex-partner».
Il Rapporto Ombra, il primo Rapporto tematico sul femminicidio dell'ONU e i dati ISTAT
Oltre al rapporto governativo, in parallelo e autonomamente anche la società civile redige un proprio rapporto: il «Rapporto Ombra». Il comitato CEDAW, composto da 23 esperti provenienti da tutto il mondo, eletti dagli Stati firmatari, esamina entrambi i rapporti e formula le proprie raccomandazioni allo Stato, che è tenuto a considerarle nell’ottica dell’avanzamento delle donne nella società e a risponderne negli anni successivi.
Secondo il Rapporto Ombra elaborato dalla Piattaforma «Lavori in corsa: 30 anni CEDAW» presentato il 17 gennaio 2012 alla Camera dei deputati, insieme alle raccomandazioni del Comitato CEDAW, la violenza maschile sulle donne è la prima causa di morte per le donne in tutta Europa e nel mondo. Nel nostro continente ogni giorno sette donne vengono uccise dai propri partner o ex-partner. In Italia solo nel 2010 i casi di femminicidio sono stati 127: 116,7% in più, rispetto all’anno precedente. Di queste, 114 sono state uccise da membri della famiglia. In particolare, 68 sono state uccise dal partner e 29 dall’ex partner. Dunque, in più della metà dei casi il femmicidio è stato commesso nell’ambito di una relazione sentimentale, in corso o appena terminata, per mano del coniuge, convivente, fidanzato o ex. La maggior parte delle vittime è italiana (78%), così come la maggior parte degli uomini che le hanno uccise (79%). Solo una minima parte di questi delitti è avvenuta per mano di sconosciuti. Nella restante parte dei casi è avvenuto per mano di un altro parente della vittima o comunque di persona conosciuta. È uno degli aspetti più delicati su cui si concentra il «Rapporto Ombra» della società civile sulla condizione delle donne in Italia. I media – si legge nel Rapporto – spesso presentano i casi di femmicidio come frutto di delitti passionali, di un’azione improvvisa ed imprevedibile di uomini vittime di raptus e follia omicida. In realtà questi sono l’epilogo di un crescendo di violenza a senso unico e generalmente sono causati da un’incapacità di accettare le separazioni, da gelosie, da un sentimento di orgoglio ferito, dalla volontà di vendetta e punizione nei confronti di una donna che ha trasgredito a un modello comportamentale tradizionale. Un ruolo che in Italia è ancora relegato a quello di madre e moglie, oppure di oggetto del desiderio sessuale. Secondo il Rapporto Ombra, nel momento in cui la donna italiana cerca di uscire da questi schemi, nasce il rifiuto del partner maschile alla sua emancipazione che si trasforma in forme di controllo economico, di violenza psicologica, di violenza fisica, e che può arrivare fino all’uccisione della donna.
Il 25 giugno 2012 è stato presentato all’ONU il primo Rapporto tematico sul femminicidio, frutto del lavoro realizzato in Italia da Rashida Manjoo, preceduto nell’ottobre 2011 da un seminario convocato a New York dalla relatrice speciale. Il seminario ha coinvolto 25 esperti provenienti da diverse aree geografiche e appartenenti al mondo universitario, alle organizzazioni della società civile, ad agenzie delle Nazioni Unite, tutti con comprovate competenze tecniche e professionali in materia di femminicidio.
Si afferma nel Rapporto che il continuum della violenza nella casa si riflette nel crescente numero di vittime di femminicidio. Dall’inizio degli anni 1990, il numero di omicidi di uomini da parte di uomini è diminuito, mentre il numero delle donne uccise da uomini è aumentato. Un rapporto sul femminicidio basato sulle informazioni fornite dai media indica che nel 2010 ben 127 donne sono state assassinate da uomini. Di queste, il 78% erano italiane e anche il 79% degli autori erano italiani. Ciò contrasta con l’opinione comune che tali crimini siano commessi da uomini stranieri, percezione rinforzata dai media. Nel 54% del casi l’autore era o un partner o ex partner, solo nel 4% dei casi l’autore era sconosciuto alla vittima.
Un aspetto sottovalutato è la forza emulativa del femminicidio. I femminicidi sono stati considerati degli «eventi seriali», non perché l’omicida fosse lo stesso, ma perché gli omicidi perpetrati erano simili nel modus operandi, nelle dinamiche, nella forza evocativa. Il pericolo sociale degli stessi, pertanto, ha un impatto da non sottovalutare e per questo delle misure integrate e interdisciplinari sono e rimarranno l’unico deterrente.
Secondo la Manjoo la maggior parte delle violenze non sono denunciate perché perpetrate in un contesto culturale maschilista dove la violenza domestica non è sempre percepita come un crimine, dove le vittime sono economicamente dipendenti dai responsabili della violenza e persiste la percezione che le risposte fornite dallo Stato non sono adeguate per riconoscere il fenomeno, perseguire per via legale gli autori di tali crimini e garantire assistenza e protezione alle vittime.
Il rapporto ONU rileva che in Italia gli stereotipi di genere sono profondamente radicati e predeterminano i ruoli di uomini e donne nella società. Analizzando i dati relativi alla presenza nei media, il 46 per cento delle donne appare associato a temi quali il sesso, la moda e la bellezza e solo il 2 per cento a questioni di impegno sociale e professionale.
Iniziative italiane come il Piano di azione nazionale contro la violenza non hanno portato miglioramenti significativi. Inoltre, la mancanza di dati ufficiali disaggregati per genere, raccolti da istituzioni nazionali, impedisce di misurare accuratamente la portata del fenomeno. Si tratta di una grave mancanza del nostro Paese, che non ha ancora dato seguito alle numerose sollecitazioni da parte degli organismi internazionali che richiedono a tutti gli Stati di predisporre strumenti adeguati per il monitoraggio del fenomeno.
Conclude Rashida Manjoo, special rapporteur ONU, che l’attuale situazione politica ed economica dell’Italia non può essere utilizzata come giustificazione per la diminuzione di attenzione e risorse dedicate alla lotta contro tutte le manifestazioni della violenza su donne e bambine in questo Paese. Si tratta a tutti gli effetti di un contesto di negazione, limitazione e violazione di quei diritti fondamentali che costituiscono la base di uno Stato democratico.
In Italia
Studi accademici e autorevoli analisi dei dati raccolti dai media, da organizzazioni non governative e da numerose associazioni, indicano un aumento degli episodi di discriminazione e violenza di genere in Italia. I dati istituzionali che misurano il fenomeno della violenza contro le donne sono limitati ad anni o temi particolari, ancora non esiste un piano nazionale per le indagini in questo ambito e spesso, pur in presenza di dati disaggregati, le istituzioni non si mostrano in grado di leggerli in un’ottica di genere, trascurando così cruciali caratteristiche dei fenomeni analizzati.
I dati del Rapporto annuale ISTAT evidenziano una diminuzione generale degli omicidi nell’ultimo ventennio. Tuttavia, disaggregando i dati per genere, si nota che le variazioni nei tassi di omicidio dagli anni ’70 -- come rileva Linda Laura Sabbadini, direttore del dipartimento per le Statistiche sociali e ambientali dell’ISTAT -- sono dipese esclusivamente da variazioni nella conflittualità tra uomini: sono diminuiti gli omicidi dei maschi sui maschi e non sono stati intaccati quelli dei maschi sulle femmine. I dati -- prosegue -- parlano chiaro: la violenza più diffusa contro le donne è quella domestica, che non ti aspetti, che viene da mariti, fidanzati, ex. Lo hanno sempre detto i centri antiviolenze, lo abbiamo confermato con la nostra indagine. Nel 2011 sono state 137 le donne uccise in Italia, dieci in più dell’anno precedente, nel 2012 le donne uccise sono state 124 e nel 2013 fino ad oggi già più di 25 donne sono state uccise da uomini, spesso mariti, compagni o ex-partner.
Se oggi l’ONU, e di conseguenza l’informazione di massa, parla senza mezzi termini di femminicidio anche in relazione all’Italia, è perché ci sono state donne che da anni hanno reclamato il riconoscimento anche per le donne, in quanto donne, di quei diritti umani affermati a livello universale, ed in particolare del diritto inalienabile alla vita e all’integrità psicofisica. Il riconoscimento e il contrasto del femminicidio in Italia è un ulteriore passo fondamentale di riconoscimento degli storici sforzi delle donne per godere dei diritti fondamentali inalienabili e universali propri di ogni individuo. L’elaborazione del presente disegno di legge ha beneficiato degli apporti teorici e pratici frutto del lavoro e dell’esperienza di donne e gruppi di donne, associazioni e organizzazioni, che lavorano in tutti gli ambiti del contesto internazionale, nazionale e locale. L’obiettivo è predisporre uno strumento efficace che contribuisca a sradicare ogni forma di discriminazione e violenza contro la donna in quanto donna, evitando prospettive falsamente neutrali che non rispecchiano la realtà in questo ambito e che affronti in modo integrale un fenomeno che ostacola il raggiungimento dell’uguaglianza sostanziale della donna in tutte le dimensioni della sua vita.
Il percorso normativo
La nostra Costituzione stabilisce all’articolo 3 il ripudio di ogni forma di discriminazione e attribuisce allo Stato il dovere di «rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese». I poteri pubblici non possono, quindi, omettere di predisporre misure adeguate a contrastare un fenomeno che evidenzia lo squilibrio fra i generi ancora esistente nella nostra società e, costituisce un ostacolo al raggiungimento degli obiettivi di uguaglianza sostanziale delle donne. Negli ultimi anni lo Stato italiano ha provveduto a diversi adeguamenti della legislazione interna, oltre ad aver stabilito interventi volti ad avanzare verso il raggiungimento di un’uguaglianza sostanziale fra i generi nel godimento del diritti fondamentali. Fra le iniziative più rilevanti possiamo citare la legge 15 febbraio 1996, n. 66, «Norme contro la violenza sessuale», la direttiva del Presidente del Consiglio del ministri 27 marzo 1997, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 116 del 21 maggio 1997, «Azioni volte a promuovere l’attribuzione di poteri e responsabilità alle donne, a riconoscere e garantire libertà di scelte e qualità sociale a donne e uomini», che stabilisce di sviluppare con l’ISTAT e il Sistema statistico nazionale nuove metodologie d’indagine sui fenomeni di violenza e abusi sessuali e di procedere alla raccolta ed elaborazione di dati disaggregati per sesso e per età, la legge 3 agosto 1998, n. 269, «Norme contro lo sfruttamento della prostituzione, della pornografia, del turismo sessuale in danno di minori, quali nuove forme di riduzione in schiavitù», la legge 4 aprile 2001, n. 154, «Misure contro la violenza nelle relazioni familiari», il decreto-legge 23 febbraio 2009, n. 11, convertito, con modificazioni, dalla legge 23 aprile 2009, n. 38, «Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale, nonché in tema di atti persecutori», cosiddetta «legge anti-stalking». Questi interventi hanno avuto importanti impatti nel diversi ambiti regolati e costituiscono interventi cruciali per il raggiungimento dell’uguaglianza sostanziale fra uomini e donne.
Il 27 settembre 2012, dopo numerose sollecitazioni del Parlamento, delle associazioni e delle organizzazioni, l’Italia ha finalmente firmato la Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e il contrasto della violenza sulle donne e la violenza domestica, firmata ad Istanbul l’11 maggio 2011 da più di dieci Stati europei. Ora si deve provvedere al più presto alla relativa ratifica.
Ma soprattutto c’è bisogno di una nuova legge in materia di contrasto al femminicidio.

Il testo del disegno di legge
Riconoscendo la gravità del fenomeno del femminicidio nel nostro Paese e proponendo misure specifiche per contrastarlo, questo disegno di legge risponde alla necessità di contribuire alla risposta globale alle violenze di genere, proponendo un approccio integrale e multidisciplinare.
Al capo I si introducono le nozioni di femminicidio e discriminazione di genere.
Tra le norme di carattere preventivo il disegno di legge prevede una serie di misure volte a sensibilizzare l’opinione pubblica rispetto al fenomeno della violenza di genere e a promuovere una rappresentazione della donna come soggetto portatore di una propria soggettività e dignità da rispettare. Il disegno di legge vuole predisporre adeguati strumenti per agire su quelle che sono le principali cause del femminicidio, ovvero la rappresentazione di stereotipi sessisti nelle relazioni, tali da perpetuare determinati rapporti di potere tra sessi, che implicano la subordinazione della donna. In tal senso, ad esempio, 
al capo II (Formazione, informazione, sensibilizzazione, promozione culturale)
si prevede l’adozione di un codice di autoregolamentazione per i media, redatto secondo il modello della soft law dagli stessi operatori e dagli organi rappresentanti delle categorie interessate, trasfuso in un apposito regolamento e reso cogente dal richiamo che lo stesso disegno di legge vi effettua. Il ricorso al modello della self regulation appare particolarmente efficace in relazione a un fenomeno, quale quello in esame, le cui cause risiedono in larga parte nella rappresentazione e riproduzione di rapporti stereotipati fra i generi, spesso veicolate anche dai media. Il capo II del disegno di legge prevede inoltre, nella stessa ottica di prevenzione delle cause del femminicidio, l’istituzione nelle scuole della figura del referente per l’educazione alla relazione e inserimento nei programmi scolastici dell’educazione alla relazione, nonché protocolli d’intesa promossi dalle prefetture tra soggetti istituzionali, quali province, comuni, aziende sanitarie, consigliere di parità, uffici scolastici provinciali, Forze dell’ordine e del volontariato che operano sul territorio, al fine di contrastare efficacemente il fenomeno degli atti persecutori e della violenza contro le donne (articoli 3 e 4). Al fine di consentire un adeguato monitoraggio del fenomeno, e per rispondere alle richieste del Parlamento europeo ed altre istituzioni internazionali, si attribuisce all’ISTAT, sulla base di finanziamenti appositamente stanziati e aggiuntivi rispetto a quelli ordinari, il compito di assicurare lo svolgimento di una rilevazione statistica sulla discriminazione e la violenza di genere e sui maltrattamenti in famiglia, che ne misuri le caratteristiche fondamentali e individui i soggetti più a rischio con cadenza almeno quadriennale, istituendo un apposito Osservatorio sulla violenza nei confronti delle donne, accessibile anche agli enti impegnati in attività di ricerca.
Il capo III del disegno di legge (Tutela delle vittime di violenza) 
prevede norme per la tutela della vittima di violenze o discriminazioni di genere, volte a predisporre garanzie peculiari nel rapporto con le Forze dell’ordine al fine di evitare fenomeni di vittimizzazione secondaria. Le norme relative all’adeguamento delle strutture sanitarie prevedono la formazione di operatori specializzati e preparati ad accogliere, sostenere e soccorrere le donne vittime di tali abusi.
Per le vittime della violenza di genere si prevede una tutela peculiare anche sul piano previdenziale e lavorativo, inserendo tra i livelli essenziali delle prestazioni di accoglienza e socio-assistenziali le attività volte a fornire misure di sostegno alle donne vittime di violenza sessuale, stalking e maltrattamenti. Si sancisce il riconoscimento della possibilità di costituirsi nel giudizio penale per il centro che abbia assistito la vittima di violenza sessuale, maltrattamenti, tratta, stalking e altri delitti contro la personalità individuale o contro la famiglia o la libertà sessuale. Qualora ad essere vittime di violenza o abusi sessuali, maltrattamenti o stalking siano donne migranti, si estende a loro la sfera di applicazione del permesso di soggiorno ai sensi dell’articolo 18 del testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’Immigrazione e norme sulla condizione dello straniero di cui al decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 280. Al fine di interrompere il circuito della violenza, eliminandone le cause (molto spesso radicate in disagi psichici) si promuove l’istituzione di programmi di riabilitazione, su base volontaria, destinati agli autori della violenza. Si realizza poi un database interforze alimentato con dati di fonte giudiziaria o investigativa sulla violenza.
• Il capo IV (Case e centri delle donne) 
comprende la disciplina delle case e dei centri delle donne, quali luoghi nei quali non solo possa trovare tutela la vittima di violenza o di discriminazioni di genere, ma nei quali possa pure darsi libero corso a iniziative volte alla promozione della soggettività femminile, anche mediante azioni di solidarietà e accoglienza rivolte ai figli minori delle stesse donne, a prescindere dalla loro cittadinanza.
• Il capo V (Norme penali)
contiene appunto le norme penali si apre con la codificazione di un’aggravante comune per tutti ì delitti contro la persona commessi mediante violenza, realizzati alla presenza di minori; si qualifica poi un’aggravante specifica per il reato di maltrattamenti commesso, parimenti, alla presenza di minori (violenza assistita) e si estende il reato di maltrattamenti anche ai casi in cui la «persona di famiglia» non sia convivente (sulla scia delle indicazioni della Convenzione di Istanbul del 2011).
Si prevedono poi puntuali modifiche alla disciplina della violenza sessuale in relazione a talune fattispecie circostanziate e l’estensione dell’aggravante per lo stalking anche alle ipotesi in cui il fatto sia commesso dal coniuge, anche se separato solo di fatto. Tale modifica mira a correggere un’anomalia presente nel testo vigente, che sul piano applicativo determina l’incongrua conseguenza di dover irrogare al coniuge una pena inferiore a quella irrogabile all’ex partner della vittima ovvero di escludere la configurabilità dello stalking -- rispetto al coniuge -- riconoscendo invece sempre, in questi casi, la sussistenza del delitto di maltrattamenti in famiglia, con una sorta di interpretatio abrogans della novella di cui al citato decreto-legge n. 11 del 2009, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 38 del 2009.
Si prevede infine l’estensione delle aggravanti per discriminazione, previste tra l’altro dal decreto-legge 26 aprile 1993, n. 122, convertito, con modificazioni, dalla legge 25 giugno 1993, n. 205, la cosiddetta «legge Mancino», anche alle discriminazioni di genere. Inoltre, nella convinzione che la recidiva non possa sconfiggersi se non con un adeguato percorso di riabilitazione, si prevedono programmi specifici di questo tipo per i detenuti per reati di violenza contro le donne, al termine dei quali la magistratura si sorveglianza, valutando la frequenza e l’applicazione del detenuto, può acquisire elementi per decidere circa la concedibilità o meno di permessi penitenziari.
Il capo VI (Tutela della vittima nel procedimento penale) 
intende conferire maggiori diritti alla vittima la fase più delicata del procedimento penale, ovvero quella delle indagini, prevedendo in particolare l’obbligo di comunicazione alla persona offesa della cessazione di misure cautelari, della chiusura delle indagini preliminari o della richiesta di archiviazione (così da poter esercitare tutti i poteri riconosciuti dal codice); maggiori garanzie rispetto al sequestro conservativo anche in fase d’indagini, così da rafforzare la tutela patrimoniale della vittima; cautele analoghe a quelle previste per i minori in sede di esame dibattimentale anche per le vittime maggiorenni particolarmente vulnerabili. Al fine di consentire alle vittime di vedere nel più breve tempo possibile soddisfatti i loro diritti, si attribuisce poi carattere prioritario ai procedimenti penali per i reati sessuali o contro la personalità individuale.
• Il capo VII (Violenza economica e domestica)
al fine di contrastare quelle forme sottili di violenza consistenti nel rendere la donna economicamente dipendente o privarla delle risorse necessarie (ove dovute) per l’indipendenza, qualifica come reato proprio l’occultamento doloso delle proprie risorse patrimoniali al fine di non corrispondere quanto dovuto, a titolo dì mantenimento o di alimenti, al coniuge o ai figli. Inoltre, si estende il reato di frode processuale all’ipotesi di occultamento fraudolento delle proprie risorse patrimoniali; si prevede altresì che tale comportamento rilevi ai fini dell’affidamento e della fissazione degli obblighi di mantenimento. In materia di violenza domestica, si consente l’adozione, la modifica, la conferma ovvero la revoca degli ordini di protezione anche nell’ambito del bunale ai sensi dell’articolo 708, terzo comma, del codice di procedura civile, si estendono gli ordini di protezione anche ai non conviventi e si prevede la procedibilità d’ufficio (anziché a querela) del reato di mancata esecuzione dei provvedimenti giudiziali e, anche al fine di superare l’inammissibilità delle deposizioni de relato, si ammette la prova della violenza con ogni mezzo.
Tra le norme di carattere finanziario, si sottolinea poi l’istituzione del Fondo per il contrasto della violenza nei confronti delle donne, destinato a finanziare le iniziative previste dal presente disegno di legge e alimentato, tra l’altro, dalle sanzioni irrogate per violazione del codice di regolamentazione dei media per la promozione della soggettività femminile.

Iniziativa delle senatrici e dei senatori Puglisi, Amati, Fedeli, De Petris, Finocchiaro, Giannini, Giarrusso, Granaiola, Lanzillotta, Mussolini, Petraglia, Valentini, Bertuzzi, Bianco, Cantini, Casson, Chiti, Cirinnà, Cucca, Cuomo, De Biasi, Di Giorgi, Fabbri, Fattorini, Favero, Fornaro, Rita Ghedini, Ginetti, Lo Giudice, Manassero, Margiotta, Mattesini, Maturani, Micheloni, Mirabelli, Moscardelli, Orrù, Padua, Pagliari, Palermo, Parente, Pegorer, Pezzopane, Pignedoli, Pinotti, Puppato, Ricchiuti, Saggese, Sangalli, Santini, Scalia, Sollo, Spilabotte eTomaselli, del 29 maggio 2013