lunedì 29 aprile 2013

Tiziana Bartolini: una riflessione su secondo mandato del presidente e nuovo governo

C’è sempre una prima volta. E il secondo mandato al Quirinale per Giorgio Napolitano inaugura la possibilità di rielezione del Presidente della Repubblica, possibilità che la Costituzione non prevede ma neppure impedisce. 
Indipendentemente dalle regole sancite nella Carta un esercizio di veto lo avrebbe certo dettato il buon senso, in considerazione degli 88 anni del Presidente e della richiesta di un cambio di passo emersa chiaramente dalle recenti elezioni. Poiché la politica si esprime anche attraverso i simboli, è incontestabile che questa riconferma è la certificazione della paralisi della classe dirigente italiana, quella politica e quella che abita i palazzi dei vari poteri che compongono il sistema-paese nel suo complesso. 
Non immaginiamo un pressing di banchieri e industriali sul PdL (che ha proposto da subito il settennato-bis di Napolitano) e neppure una lobby che ha imposto al PD di affondare Marini e Prodi e di non proporre Rodotà. Non è immune dalla critica neppure il M5S, inchiodato ad un pugno di nomi da un misterioso sondaggio sul web. Sembra piuttosto che un così tanto rinnovato Parlamento si sia immediatamente adeguato ai criptici rituali del Palazzo, ai tempi lunghi della peggiore politica, ai rinvii defatiganti, alle continue prove tecniche di cambiamenti che o sono di facciata non arrivano proprio, insomma all’eterno gioco delle parti in commedia affinché nulla cambi se non con il placet dei poteri forti. Il più giovane Parlamento d’Europa, composto per circa un terzo da donne, si è impantanato al primo passaggio istituzionale, incapace di gesti di autonomia, senza orgoglio, timoroso di infrangere consuetudini, prigioniero di faide antiche o contrasti recenti che non hanno alcuna relazione con l’Italia viva e le sue gravi emergenze economiche e sociali. Senza dubbio il PD ha il primato delle colpe avendo irresponsabilmente coinvolto l’intero Paese nella sua irrisolta crisi di identità e dando prova di una arroganza indigeribile persino per i suoi più fedeli militanti ed elettori. Come potrà, ragionevolmente, riproporsi alla guida del Paese una sommatoria squallida di personalismi ed egocentrismi che non è stata in grado di auto-governarsi in un passaggio così delicato e decisivo? Cosa ha impedito la polarizzazione delle tante e positive forze rigeneratrici che pure ci sono in Parlamento e nel PD intorno ad un nome da scegliere quale simbolo (Rodotà o altro di analoga caratura e forza istituzionale) per accompagnare una nuova fase di autentico e profondo mutamento? L’occasione perduta accentua solchi già profondi e vi aggiunge l’amarezza di assistere ad una scelta imposta a Giorgio Napolitano da un’emergenza fabbricata in laboratorio con una miscela di silenzio, pavidità e cinismo. Abbiamo assistito ad una lotta i cui protagonisti - vincitori e vittime - sono stati uomini che hanno agito con logiche maschili e machiste. 
Per costoro la Repubblica e la Democrazia, che avevano (e hanno) urgenza di cura e manutenzione, possono aspettare. Aspettare che maturino i tempi per una Politica propositivamente dialettica e condivisa quando necessario. Aspettare che arrivi da chissà chi il via libera per mutare equilibri e occupare spazi decisionali. Aspettare che 290 tra senatrici e deputate elaborino strategie alternative alle regole dominanti e sbagliate. Aspettare…. il contrario esatto dell’abusato slogan ‘se non ora quando’. Il femminile legato all’idea di Rinascita e di Rigenerazione anche questa volta ha passato la mano. Il prossimo giro non tarderà molto. Conviene attrezzarci per tempo.
Tiziana Bartolini, 28 aprile 2013

lunedì 22 aprile 2013

Elena Passerini. Lettera aperta agli onorevoli della Segreteria del Pd: perché non vi siete parlati?


Le domande di questa lettera aperta (che a caldo era stata inviata a Bersani), focalizzano un tema centrale nelle relazioni umane e dunque in politica: le modalità di gestire i conflitti. Forse non è un caso che (nel frangente che ha portato i partiti a chiedere a Napolitano di accettare un secondo mandato) l'unica che una telefonata l'abbia tentata sia stata una donna. E notiamo come, il giorno dopo, un'altra donna del Pd abbia definito l'atteggiamento tenuto dal suo stesso partito, contro il nome di Rodotà, "da bambini dell'asilo" (parole testuali di Debora Serracchiani). Non sono questioni di lana caprina ma aspetti concreti da considerare per un modo nuovo modo di far politica. Ecco la lettera:   
Gentili onorevoli,
vorrei proprio capire una cosa che mi pare importante.
Al di là delle polemiche politiche sulla mancata elezione di Prodi e sulla spaccatura, del PD, vorrei una risposta precisa a una domanda molto precisa sul piano dei modi di gestire il conflitto tra le persone, ad esempio tra Bersani e Rodotà, candidato alla Presidenza della Repubblica non vincente.
Chiedo: perchè non vi siete parlati?
Rodotà si è lamentato di non aver ricevuto chiamate dal PD, se non dalla neoeletta Laura Puppato (come a dire: nemmeno lui ci ha provato).

Chiedo: perchè non avete comunicato direttamente con lui, vis a vis?
Se un movimento come il M5S, facilmente attaccabile per molti motivi, ha l'intelligenza o la fortuna di proporre un candidato come Rodotà (che per certo non è "grillino", data l'età se non altro), questo poteva essere visto come simbolo della possibile collaborazione proprio tra M5S e PD (non alleanza: ma collaborazione, per ottenere in pratica alcuni o pochi risultati concreti).

Peccato per la mancata telefonata.
Io non ho il numero di Rodotà e nemmeno voce in capitolo (però ho sempre votato alle primarie), altrimenti lo avrei chiamato 2 volte:
1. una per dirgli perchè il PD non lo voleva/poteva votare (quali ricatti o veti lo impedissero, io non lo posso dire perchè non lo so, ma è evidente che ci sono);
2. una seconda volta - dopo la quarta o quinta fumata nera, per chiedere a lui stesso di ritirarsi in favore di Prodi.
In questo caso forse lo avrebbe fatto, e forse i grillini lo avrebbero accettato se chiesto da lui, visto che erano nella stessa lista "grillina".
Ma aspettarsi che Rodotà lo facesse senza nemmeno chiederglielo, è chiedere troppo a una persona, ed è anche fallire il risultato.
Il fatto è che fare telefonate così significa passare dal "tu devi" all' "io posso".

Bisognerebbe imparare a litigare bene, soprattutto con chi ci è meno lontano, ma questa è una lunga storia...

Buona fortuna e grazie dell'attenzione

Elena Passerini, 22 aprile 2013

domenica 21 aprile 2013

Concita De Gregorio: se Berlusconi ride e Bersani piange

Sono le sei e dieci di sabato pomeriggio quando Berlusconi e Bersani rientrano in aula per essere lì nel momento in cui Laura Boldrini leggerà per la cinquecentoquattresima volta il nome di Napolitano, confine numerico della rielezione.
Berlusconi ride, giù in basso a destra. Bersani piange, in alto a sinistra. 
Applaudono, entrambi felici di essere stati riportati in vita dalla concessione del vecchio Presidente: va bene, se non trovate altro, se proprio non c’è altro modo allora accetto. Alle mie condizioni: per un tempo limitato e con un consenso ampio. Berlusconi esulta circondato dalle sue ragazze elette in Parlamento, perché se fossero passati Prodi o Rodotà sarebbe stato fuori dai giochi, dal governo prossimo venturo, da tutto. Così invece si farà un governo all’antica maniera, che sia del presidente o politico non importa: quello che importa è che Berlusconi sarà lì, protagonista di nuovo, resuscitato ancora. Sarà molto pesante, per giunta, nel nuovo governo perché senza l’appoggio di Sel la delegazione Pdl-Lega avrà anche alla Camera la maggioranza, rispetto al Pd. Amato premier Alfano vice, si dice. O forse Letta-Letta, zio e nipote, coi “saggi” dentro. Il Pdl conterà e deciderà parecchio. Bersani piange di commozione attorniato dai suoi Speranza e Gotor, da Stumpo e da tutto il gruppo dirigente di un partito dissolto in un rivolo di correnti assetate l’una del sangue dell’altra, morto nel minuto esatto di venerdì 19 in cui il fondatore Romano Prodi è stato affondato, dopo essere stato acclamato, da 101 voti occulti in dissenso. Per spregio, per vendetta, per antichi rancori personali e politici. Un segretario e un gruppo dirigente dimissionari, responsabili di una clamorosa serie di fallimenti che hanno lasciato sul selciato di questa corsa al Colle i nomi di anziani e rispettabili leader come Marini, Prodi, indirettamente Rodotà che sarebbe stato presidente se il Pd non avesse deciso di escluderlo per una ripicca ancora oggi inspiegata: doveva telefonare lui per primo, doveva dichiarare di essere uomo del Pd e non solo di Grillo, si sente dire come fosse la storia di un’amicizia contesa tra adolescenti e non invece una vecchia resa dei conti politica che ha origine nel ’92, come vedremo, e che ha sbarrato la strada ad un’alternativa di campo tutta a sinistra: Rodotà, spiega bene Vendola che da oggi con Fabrizio Barca diventa il perno dello spazio a sinistra lasciato sgombro dal Pd, avrebbe «cambiato schema di gioco, avrebbe consentito di fare un governo con le forze di questo parlamento, avrebbe tagliato fuori Berlusconi. Hanno avuto paura, sono tornati indietro invece di andare avanti. Siamo fermi a metà del 900, una restaurazione. Preferiscono governare con Alfano pur di restare vivi. Ma è un’illusione. E’ solo una proroga dell’agonia ».
Una restaurazione. Una proroga. Una scena anni Novanta che si ripete qui, in aula, oggi, mentre nel mondo fuori i circoli del Pd sono in rivolta e le piazze in ebollizione. Una foto in bianco e nero, un fermo immagine con Berlusconi e Bersani nascosti dietro la sagoma grande di Napolitano, chiamato a colmare il vuoto della politica. Nascosti dietro una figura inattaccabile, richiamata in servizio alla soglia dei 90 anni facendo leva sul suo amore per l’Italia: che ha bisogno di stabilità, di un governo, di un credito internazionale. E, ipocritamente, nascosti dietro al fatto che nessuno potrà osare dire una sola parola contro di lui, il Presidente, non una di quelle che avrebbero detto contro di loro. Come i bambini dietro al fratello grande. Salvo che si tratta appunto «di una sconfitta della politica, questo è chiaro», dice Anna Finocchiaro. Di un’ammissione di impotenza. Di un certificato di morte di partiti che non sono stati in grado di dar vita a una maggioranza parlamentare capace di esprimere un presidente prima e un governo poi. Si celebra dunque la fine della democrazia parlamentare, oggi. Dopo il funerale del Pd, le esequie di un sistema «che non rappresenta più né il Paese né se stesso – dice Roberto Morassut, pd – e si va diritti verso il presidenzialismo, sperando almeno che sia fatto con buone regole. L’elezione diretta del capo dello Stato, in effetti, ha ormai solo bisogno di norme che la sottraggano al web». Il Parlamento è impotente, paralizzato, barricato dentro le sue mura.
Sono le sei e dieci del pomeriggio, e i Cinquestelle sono i soli che restano seduti e non applaudono. Vergognatevi, alzatevi, gli gridano da destra – a destra sono in effetti i più entusiasti. Non si vergognano né si alzano. Pippo Civati, che ha votato scheda bianca e che per settimane ha fatto la spola fra i dirigenti Pd e i cinquestelle, dice: «Mi hanno mandato da loro a trattare e poi mi hanno lasciato lì come il soldato Ryan. Nessuno voleva avere notizie. A nessuno interessava niente, dei cinquestelle, in realtà. Volevano solo l’eterno ritorno dell’uguale». Alessia Rotta, neoeletta pd di Verona, dice che «i vecchi del pd hanno fatto come le murene dietro gli scogli, hanno affossato Prodi per i loro calcoli, non hanno voluto Rodotà per la loro sopravvivenza e poi hanno provato a dare la colpa a noi, dicendo che sono i giovani incontrollabili che danno retta al web, quelli eletti dalle primarie, ad aver tradito. Ma non è così, non è vero. Io ho votato Prodi, e poi Napolitano: la resa dei conti è tutta roba loro». Altre schede bianche, nel voto a Napolitano, sono arrivate da Tocci, da Antonio Decaro deputato barese che ha proprio scritto “Bianca”, il nome di sua figlia. Corradino Mineo aveva votato contro già nella riunione mattutina del gruppo, unico no.
Civati era un ragazzino, dice che se lo ricorda di quando nel ’92 Rodotà scrisse un testo durissimo contro la corruzione a Milano, contro i miglioristi del Pci lombardo. Si ricorda che poi, subito dopo, gliela fecero pagare eleggendo alla presidenza della Camera un migliorista del Pci, appunto, e non lui: l’eletto era Giorgio Napolitano. Hanno la memoria lunga, gli eredi del Pci. Racconta Laura Puppato che venerdì mattina è andata nella stanza di Bersani, al piano terra di Montecitorio, a dirgli: per quel che sento dai cinquestelle si può provare a chiedere a Rodotà di ritirarsi di fronte alla candidatura Prodi, lo vuoi chiamare tu, segretario? Bersani ha risposto no, io non lo chiamo, parlaci tu. E così nessuno degli anziani compagni di partito ha chiamato Rodotà, hanno mandato avanti la neoeletta Puppato. «Doveva essere lui a chiederci i voti», dice il “giovane turco” Matteo Orfini. Chiami tu, chiamo io, no chiama lui. Una candidatura naufragata così, le vere ragioni occultate dalle presunte buone maniere.
Una rielezione, questa di Napolitano, che nasce – dice Walter Verini, veltroniano – «dalla Capaci della politica come quella di Scalfaro nel ’92 fu determinata dalla morte di Falcone. Solo che oggi la voragine è qui dentro».
Tutta la manfrina sui nomi “divisivi” non era altro che un modo per occultare – male, tra l’altro – l’incapacità dei tre blocchi usciti dalle elezioni di allearsi alla luce del sole: Pd-Pdl era un inciucio, e così è morto Marini, Pd-Cinquestelle era una resa, e così è morto Rodotà. Prodi è stato ucciso invece per mano del Pd, che ha fatto al tempo stesso harakiri. Si torna ora alle case madri, come da anni invoca D’Alema: un partito nettamente di sinistra che vedrà protagonisti Vendola e Barca, quest’ultimo ieri tardivamente intervenuto a sostegno di Rodotà. E poi il sindaco Emiliano, e i tanti altri che dal Pd in tutta Italia hanno chiesto invano un cambio di passo. «Chiederemo di entrare nell’internazionale socialista», ha detto Vendola. Chiarissimo: saremo la sinistra in Europa. Dall’altra un partito di centro con una lieve propensione a sinistra, con Renzi alla guida. La scissione è ormai alle porte. Chi ieri ha votato “Francesco Guccini”, nell’urna, dice che «non si può andare avanti guardando all’indietro». Dice anche che quando cadono gli equilibristi, al circo, entrano in scena i clown. Ma non c'è niente da ridere, perchè «siamo come funamboli che camminano sulla fune, in bilico sul baratro, e l’idea di restare immobili fermando il film di Napolitano non può funzionare a lungo». Perché, come tutti sanno, quando si è sulla fune a restare immobili si cade. La paura paralizza, poi uccide.
Concita De Gregorio; La Repubblica, 21 aprile 2013

sabato 20 aprile 2013

Dieci saggi e il resto donne. Il resto di niente: e lo respingiamo al mittente


"I dieci saggi e il resto donne" per dare un segnale di cambiamento: è la formula sintetica che "trapela" sull'Huffington Post dai colloqui riservati fra Berlusconi, Bersani e Giorgio Napolitano. Magari non vera alla lettera, ma comunque sintomatica. 
Vera o sintomatica, la respingiamo al mittente. 
Le donne non sono il resto di niente, di una politica maschile annientata come quella che si sta sfarinando sotto i nostri occhi. 
Giá rimosse da quel triste comitato di saggezza pubblica, non avremmo in veritá gradito farne parte. Tanto meno gradiremmo, ora, esserne "il resto", né fare la parte del lato innovativo di una manovra che 'salva' la democrazia parlamentare con un'ennesima mossa emergenziale di natura presidenzialista. 
Le donne hanno nomi, cognomi, storie, biografie, posizioni politiche. Nessuna puó essere ridotta a segnale d'altro, né al resto di niente.
Maria Luisa Boccia, Elettra Deiana, Ida Dominijanni, Bianca Pomeranzi, Gabriella Bonacchi, Fiorella Cagnoni, Ornella Cioni, Maria Rosa Cutrufelli, Rosetta Stella, Francesca Cok, Marina Graziosi, Luana Zanella, Cristina Mosca, Paola Bono, Stefania Vulterini, Angela Ronga, Danila De Angelis, Rita Trasei, Marina Fiamberti, Nadia Ruggeri, Edda Billi, Giovanna Carnevali, Cristina Mecci, Cristiana Scoppa, Maria Brighi, Marisa Nicchi
Lettera aperta, 20 aprile 2013 

Fiorella De Cindio. Un appello ai grandi elettori: vi chiediamo lucidità e coraggio

Anche l'appello di Fiorella De Cindio è per votare, subito, Rodota: vi chiedo la lucidità e il coraggio di capire che oggi non c'è spazio per larghe intese - e in quel quadro nemmeno la differenza di genere può garantisce il cambiamento, sarebbe solo la foglia di fico. Ecco le parole che rivolge direttamente ai grandi elettori:
L'appello è affinché votiate già da stamattina per Stefano Rodotà. Conosco Stefano da anni per lavoro. Lo scorso 5 febbraio, quando è venuto a Milano, abbiamo passato tre ore insieme con altre cento persone, studenti di Scienze Politiche e Informatica. 
Alla fine di quell'incontro in tanti ci dicemmo che era il Presidente della Repubblica che volevamo perché sa coniugare la difesa delle fondamenta della democrazia che vengono da lontano (non solo della nostra Costituzione, ma ben prima) e la capacità di capire che la democrazia va rinnovata perchè il mondo è cambiato e non può più essere rinnovato avvalendosi solo degli strumenti conoscitivi del passato.
Vi chiedo di avere la lucidità e il coraggio di capire che oggi non c'è spazio per un Presidente di larghe intese (nel senso di derivante da un accordo PD-PdL e magari Monti) perchè quel presidente, chiunque sia  sarebbe il presidente dell'accordo con chi ha calpestato negli ultimi 20 anni tutti i principi fondamentali del vivere civile a vantaggio del suo personale profitto. 
Un accordo con Berlusconi, Formigoni, Maroni & Co non è possibile: questo matrimonio "non s'ha da fare". 
Chi lo vuole nel PD è perché ha interessi "compatibili" con quel sistema di potere, come in Lombardia sappiamo bene. 
Non cambierebbe se anche fosse una donna eletta da un simile accordo (Cancellieri, Bonino incluse): la differenza di genere in questo momento non è purtroppo la discriminante che garantisce il cambiamento, sarebbe solo la foglia di fico.

Vi chiedo di avere la lucidità e il coraggio di appoggiare il candidato che sta votando l'altro pezzo del Parlamento e che vuole l'altra parte del Paese, come confermato anche dalla piccola ma significativa consultazione fatta sul sito di Umberto Ambrosoli che trovate QUI.

Se lo fate, ora, STAMATTINA, se dite di farlo a chi vi è vicino, non è detto che Rodotà venga eletto, ma potrebbe esserlo alla prossima, se si vede che il consenso sul suo nome aumenta. 
Ho letto su qualche tweet su cui sono finita in questi giorni che votare Rodotà sarebbe arrendersi a Grillo: paradossale.
Il PD ha caratterizzato l'ultima campagna elettrale con lo slogan: Italia Bene Comune. 
Un concetto - quello dei beni comuni - che nasce dalla commissione parlamentare istituita dal governo Prodi e presieduta da Rodotà.
Ci sono tanti in questo Paese che vogliono provare a costruire una nuova Italia, dipende anche da voi renderlo possibile.
Grazie dell'attenzione
Fiorella De Cindio, 20 aprile 2013

Femminicidio che barba

Scrive oggi Natalia Aspesi che la strage delle donne "sta diventando una notizia qualsiasi, anche un po’ ripetitiva, quindi sempre meno interessante, basta prima pagina e titoloni, quasi sempre sensazionali e sbagliati, inutili i commenti, tanto ormai si è detto tutto... Ne hanno ammazzato un’altra e un’altra ancora, una si sono accontentati di sfigurarla, e avanti così. È come se fosse diventata un’abitudine farlo e subirlo, e una barba venirne informati. Ci indigniamo? Riempiamo le piazze? Chiediamo giustizia? Pretendiamo che non succeda più? Mah, ci si è logorati anche a protestare. E poi, mentre si è lì a dire la nostra, con cartelloni e cori, ecco che da qualche parte ne ammazzano un’altra. Per le istituzioni era un impiccio prima, figuriamoci adesso, c’è ben altro da pensare con il casino politico sempre più contorto". 
Oggi anche Dacia Maraini ne parlalei, a Genova fino a domenica con "la storia in piazza", per portare il suo atto unico "Per proteggerti meglio figlia mia", e per parlare delle "Identità sessuali", ci ricorda che la strada per raggiungere una vera parità passa per la trasformazione culturale - e che solo quella può superare anche le violenze e il femminicidio.
Si, qualcuno ancora ne parla. Ma noi forse non leggiamo più. Invece per farla, questa trasformazione culturale, è necessario che non smettiamo di crederci, e abituarsi, accettare, non fa parte di questo.
Ecco perché lo ricordiamo oggi, mentre stanno avvenendo "cose più importanti" - e dove? là dove i nostri politici inetti non riescono a trovare l'accordo che potrebbe farci uscire da una catastrofe che include anche lo scempio culturale in atto - che ci sta donando perfino gli attacchi con l'acido!! 
Ecco dunque come continua la Aspesi:
Certo col famoso rinnovamento, che per ora si è accasciato, si troverà forse il tempo di buttar lì un volonteroso pensiero: ma intanto chissà, persino in quella folla di italiani pro o contro Marini o Prodi o chiunque altro, che fuori da Montecitorio brucia la tessera pd, sventola bandiere pdl, mostra cartelli grillineschi, magari c’è uno, c’è una, che prossimamente, in un momento di sospensione per la passione civile, torneranno ad essere solo un uomo e una donna, e l’uomo sarà accecato da una più funesta passione e taglierà la gola alla donna che ne è la causa. Perché si sta chiarendo il fatto che gli uomini che ammazzano o tentano di ammazzare mogli, ex mogli, fidanzate, ex fidanzate, ragazzine spensierate e pure prostitute, non appartengono a mondi separati dal nostro, non sono pazzi, poveracci, immigrati, o comunque gente lontana: non è solo il vecchio miserabile marito che, in un tugurio di Kabul, si risveglia dal coma e si getta sulla giovane bellissima moglie, nel meraviglioso film dell’afgano Rahimi, “Come pietra paziente”.
I codici del comportamento feroce e vendicativo maschile non conoscono classi, né culturali né economiche: così una delle ultime vittime di questi giorni è un’avvocatessa di 35 anni, che a Pesaro è stata sfregiata con acido solforico e, oltre ad avere il viso distrutto, rischia la cecità. Per ora è andato in prigione un avvocato che era stato suo compagno sino a due anni fa, accusato di essere il mandante di un sicario prezzolato, per provocare non la morte, ma la cancellazione del viso che lo ossessionava, il viso di un nemico colpevole di non appartenergli più. L’uomo si dice innocente, ma per ora non gli credono, e comunque la vittima non è, come ci si ostina a voler credere, una donna delle periferie sociali, ma una persona nota nella sua città, in un ambiente professionale e borghese. Pensi: ma in questi giorni di sconquasso politico e di disastro economico, l’interesse sarà tutto per quello che sta succedendo, perché è la vita di tutti noi che è in gioco. E invece c’è chi la vita la rifiuta, e non gliene importa niente di quel che succede a Montecitorio o nel paese: è chiuso nella sua disperazione e impotenza come a Roma la guardia giurata che non poteva certo perder tempo ad ascoltare di elezioni e di disoccupazione, o magari manifestare come tanti davanti al Parlamento, quel che contava era punire la moglie che non lo voleva più. Lei stava scappando, lui stava inseguendola, tutti e due in macchina, zigzagando pericolosamente come in un thriller. Lui l’ha raggiunta, dal finestrino le ha sparato sei colpi con la pistola di ordinanza, poi si è sparato: lei morta, lui in fin di vita.
Ma qui da noi non si perde tempo, i codici dell’onore e della vendetta hanno fretta: così lo stesso giorno a Montebelluna tutto il corpo e l’anima e l’immaginazione di un rappresentante di materassi quarantenne è bloccato sul corpo, sull’anima, sull’immaginazione dell’ex fidanzata di 22 anni, segretaria nello studio di un commercialista: per riconquistarla lui aveva persino comprato un’intera pagina del Gazzettino di Treviso per dirle: «Sono pazzo di te». Poi si era fatto sempre più aggressivo e Denise lo sveva denunciato per molestie ai carabinieri: i quali lo avevano diffidato, sai quanto gliene importa a uno che non è genericamente pazzo, ma pazzo della preda che gli è sfuggita e che non se lo deve permettere. Ha aspettato che uscisse dall’ufficio e le ha sparato alla nuca, poi si è sparato. Escono libri a decine (e l’ultimo è L’ho uccisa perché l’amavo di Loredana Lipperini e Michela Murgia), si fanno spettacoli di grande successo che girano l’Europa (“Ferite a morte” di Serena Dandini): li leggono in tanti, li vanno a vedere in tanti, e ne discutono, donne e soprattutto uomini, deprecando. Se la ricordassero tutti, quell’emozione, quell’indignazione provata con quelle storie vere. Soprattutto gli uomini, anche quando la loro donna non vuole più essere loro: il dolore si può sopportare. E si svegliassero anche le forze dell’ordine che pure hanno già tanto lavoro: se una donna denuncia molestie, è perché ha un probabile futuro di vittima; magari non accontentarsi di una diffida, fare una piccola indagine…


Natalia Aspesi, 20 aprile 2013, La Repubblica

giovedì 18 aprile 2013

Gabriella Luccioli non sarà Primo Presidente di Cassazione: l'ennesima delusione

E' per tutte le donne una sconfitta, e l'ennesima delusione, apprendere che la candidatura di Gabriella Luccioli a Primo Presidente della Corte di Cassazione è stata prontamente sacrificata. In vista della scadenza del mandato di Ernesto Lupo, a 50 anni dalla legge n. 66/1963 che aboliva l'ignobile divieto di accesso delle donne alla magistratura, fra gli 8 candidati alla prossima elezione figurava per la prima volta anche una donna. Una donna dall'indiscusso profilo professionale, che aveva tutti i titoli per ricoprire l’incarico. Protagonista di alcune sentenze note e altre meno note: dalla sentenza Englaro a quella (molto impropriamente) definita come "apertura ai figli nelle coppie gay", a quella che ha recentemente ristabilito l'ordine nella più brutta storia recente di bambini contesi
Una candidatura femminile di valore che era finalmente l’occasione - come giustamente sottolineava una lettera di donne rivolta al Presidente della Repubblica lo scorso 8 marzo, per dare concretezza al processo da tempo in atto nella società civile e nelle istituzioni democratiche per la piena realizzazione della parità tra donne e uomini - che costituisce principio fondamentale della Unione europea; e per assicurare ai livelli più alti della giurisdizione l’apporto culturale e il sapere giuridico delle donne e per rispondere alle diffuse aspettative di cambiamento espresse dalla società civile
Ma purtroppo anche un'altra lettera è arrivata a Napolitano - dei più autorevoli maschi Gasparri e Giovanardi. E non sarà certamente una questione di lettere... ma di pressioni forse si. E fatto sta che questa candidatura era una straordinaria e preziosa opportunità, e anche questa volta l'abbiamo persa. 
Non c'è niente da fare! di cambiamento.. tutti ne parlano, ma nessuno lo fa.
Quali i nomi in lizza, invece? Su tutti Giorgio Santacroce. E vediamo su quest'ultimo cosa scrive Liana Milella:
Venerdì appena passato è corso un brivido al Csm nel leggere l'intervista a Repubblica di Berlusconi. Laddove parla della Suprema corte e dice: «Alla fine ci sono gli integerrimi giudici della Cassazione che mi hanno sempre assolto. Un giudice a Berlino l'ho sempre trovato». All'improvviso, sulla nomina del primo presidente della Corte che il Csm deve fare entro i primi giorni di maggio, s'è acceso un potente riflettore.
C'è chi si è chiesto se le parole di Berlusconi, che deve fare i conti con l'esito di ben tre processi, fossero un caso o un segnale ben preciso visto che, neanche a farlo apposta, la prossima settimana sarà decisiva per il primo voto. È vero che avviene in commissione e poi ci sarà il plenum, ma quel passaggio conta molto e lì ecco che spunta, come probabile vincitore, giusto un magistrato che nel suo passato conta una frequentazione, documentata nei processi Sme e Imi-Sir, con Cesare Previti. È Giorgio Santacroce, attuale presidente della Corte d'appello di Roma, sponsorizzato da Unicost, da Magistratura indipendente, dai laici del centrodestra. Lui, un penalista, batterebbe due civilisti, Gabriella Luccioli, nota per la sentenza Englaro, che avrebbe potuto essere la prima donna per una poltrona che conta quanto un ministero, e Luigi Rovelli, esperto di diritto commerciale, in buoni rapporti con il cardinal Bagnasco. 
Ernesto Lupo lascia il 13 maggio. Per quella data il nuovo presidente va nominato. Non c'è molto tempo. 
E dopo le parole di Berlusconi una corsa già complicata è diventata tutta in salita. Perché è ovvio che la dote di un primo presidente dev'essere l'adamantina trasparenza nella vita e nella carriera. In quella di Santacroce si staglia l'ombra di Previti. 
Per carità, come vedremo dalle carte, nessun addebito, solo quello che Santacroce stesso, nell'aula del processo Sme, ha ammesso il 18 marzo del 2001, quando a interrogarlo, alle 15 e 15, fu il pm Ilda Boccassini. «Lei conosce Previti?» chiede. Lui risponde: «Sì». E precisa: «L'ho visto pochissime volte, è un avvocato e l'ho conosciuto in questa veste, ma non ho mai avuto cause in comune». 
Bisogna ricordarli quei processi Sme e Imi-Sir. Scaturiti dalle rivelazioni di Stefania Ariosto, l'ex fidanzata di Vittorio Dotti, che rivelò la rete delle assidue frequentazioni tra l'allora braccio destro di Berlusconi, nonché ex ministro della Difesa, e i magistrati del Porto delle nebbie. Squillante, Verde, Sammarco, Izzo, Vinci, Napolitano, Priore, Marvasi. Il famoso gruppo che a spese di Previti nell'88 andò a Washington per la kermesse della Niaf. In udienza Santacroce precisa. «A Gherardo Colombo ho detto che non ricordo esattamente quando ho conosciuto Previti. Io avevo un complesso musicale, ho sempre pensato di averlo conosciuto in una di quelle occasioni con la moglie». Poi, con voce sottile: «L'ho visto tre o quattro volte in tutta la mia vita». Chiede Boccassini: «È stato a casa di Previti?». Risposta: «Ho preso parte a una cena nello studio di via Cicerone». Lei incalza: «C'erano altri?». Lui, vago: «Credo di sì, uno o due, ma non ricordo chi erano». 
Il resto della deposizione riguarda il suo rapporto con la Niaf. Conosce «da ragazzo» il vice presidente Franco Nicotra, che invita le toghe segnalate da Previti e per cui lui paga viaggio e soggiorno. 
Santacroce no, è a spese di Niaf. Va in Usa dall'83 per conferenze sul terrorismo. «Le spese di viaggio erano addebitate a lei o erano fifty fifty?» chiede Boccassini. Lui: «Non potevo certo andare a spese mie per fare una conferenza».
Certo non si può ridurre a questo il ritratto di Santacroce, l'alto magistrato che ha fatto pulizia nella sezione fallimentare di Roma e che il 26 gennaio, aprendo l'anno giudiziario, ha tuonato contro «i magistrati che si propongono di redimere il mondo, quelli convinti che la spada della giustizia sia sempre senza fodero, pronta a colpire o a raddrizzare le schiene ».
Sono i giorni di Ingroia candidato e Santacroce dice: «Questi magistrati parlano molto di sé anche fuori delle aule giudiziarie, senza rendersi conto che per dimostrare quell'imparzialità che è la nostra sola divisa, non bastano frasi a effetto». 
Ma neppure andare a casa di Previti, la cui storia giudiziaria tutti conosciamo, è un buon viatico per sedersi sulla poltrona del magistrato più alto in grado d'Italia. Su questo, con preoccupazione, s'interrogano in queste ore al Csm.

mercoledì 17 aprile 2013

Perfino il partito del ditomedio lo capisce, ma la "sinistra" ancora no.

Ringrazio questo blog per l'ospitalità che vorrà dare (anche) al mio pensiero, ancorché non autorevole. In fondo, sono solo un'oca. Però non mi è sfuggito che (come dice bene anche questo altro post appena uscito, sempre su Politica Femminile), gli italiani l'hanno detto chiaro e tondo, e in tutte le salse: per una volta a fare il Presidente avrebbero voluto vederci una donna. Eppure il fastidioso richiamo dell'elettorato femminile viene sempre scansato come una mosca, una ininfluente scocciatura: essono cose da uòmmini! smettela di disturbare
A meno che.. a meno che! la donna indicata non sia mandata avanti dal raìs (maschio) del partito di turno: qualcuno che, nel caso, abbia capito che la carta donna è ora di giocarsela. La sinistra si sa, di marketing non capisce niente, così l'idea viene nientedimeno che al capo del partito del dito medio, quello che ha scelto a proprio simbolo lo stupro anale: la Lega vota un suo candidato al Colle - ed è una donna (figura di punta della Lega stessa, ovviamente). Complimenti! condannate a restare inascoltate, ci ritroviamo però "candidate donne" scelte dai campioni del maschilismo. 
Anche io ho apprezzato questo video:


al quale non ho potuto fare a meno di commentare: "... metà donne ovunque. Ma se si desse per un po' il mondo in mano alle donne in modo impari (come lo è da millenni solo in mano agli uomini), sono certa che potrebbe anche rimettersi in sesto - cosa ora impossibile. Avete presente l'uomo medio quando vive da solo, cosa diventano la sua casa e la sua vita? ecco, allora niente di strano cosa hanno fatto diventare il pianeta"Insomma, io nelle donne ci spero veramente.. Ma che non siano scelte dai Maroni!
Vi prego, vi prego. Almeno questo ci venga risparmiato.
Superficaoca, 17 aprile 2013

Ma in testa c'è ancora la Bonino: gli italiani vogliono una donna

Una Repubblica presidenziale da tele/web voto. L’italica fantasia al potere per un Presidente on demand, che affianca a nomi probabili, improbabili desideri. Manca solo (inaccettabile discriminazione!) quello del  vicino di casa.
Un fantasioso  frullatore umano che terminerà mercoledì 18, quando parlamentari e grandi elettori, gli unici abilitati a farlo in una Repubblica Parlamentare, inizieranno a deporre il loro voto nell’urna, con buona pace dei tanti partecipanti a scegli il tuo Presidente. Insomma il voto-petizioni non mi convince. Eppure qualche osservazione socio-politica ce la offre. 
Una su tutte: in testa sempre donne.
E allora ne vorremo tenere conto?
Il voto del Movimento5stelle (poco controllato e trasparente del duo macho Grillo- Casaleggio) ha scelto una donna, Milena Gabanelli, giornalista stimata e apprezzata per la serietà con cui svolge la sua professione, da cane da guardia della democrazia e del potere. Che è tutt’altra cosa, per fortuna, dell’orrenda Repubblica delle manette sognata da alcuni e da Grillo. 
E nei sondaggi di giornali e tv, c’è sempre in testa Emma Bonino, di gran lunga preferita agli Amato, Prodi e pure il gettonato Rodotà.
Personalmente tifo per Emma Bonino, anche se molte altre candidature femminili sarebbero all’altezza del ruolo (basta col mito misogino che non ci sono donne e loro, i maschi, devono sacrificarsi!).
Le donne e molte associazioni, anche quando non esprimono un nome e si limitano a una preferenza di genere, che è anche di rappresentanza, hanno denunciato quest’anomala esclusione che la Repubblica si trascina dalla sua nascita: mai una donna Presidente della Repubblica e, aggiungo, Presidente del Consiglio
Ma come le donne la pensano anche molti uomini che hanno partecipato al toto-Quirinale.
E’ forse con questo sentimento diffuso che gli elettori veri del Presidente dovranno misurarsi e fare i conti. Perché è questa la richiesta davvero unanime: rompere le tradizionali liturgie, di una classe dirigente, politica e non, che riesce a riprodurre sempre e solo sé stessa, grazie a un tourbillon di incarichi e cariche, per soli maschi, possibilmente avanti nell’età. Dal curriculum ricco e impeccabile, perché mai hanno mollato un posto, accaparrandosi quanto possibile più poltrone.
Eppure, Emma Bonino sembra fuori gioco, relegata al ruolo di perenne testimonianza, sia per i partiti che per i media che pure la danno in testa nelle preferenze dei cittadini. Quanto alla candidatura di Milena Gabanelli, al di là delle sagge parole pronunciate da lei stessa, non sembra crederci neanche Grillo che, subito dopo i risultato del voto-web, è pronto ad archiviarla per Rodotà.
Un parlarsi tra maschi per decidere dove piazzare un altro maschio.
Nella speranza di essere smentita, c’è posto solo per un augurio: se per forza maschio deve essere - perché questa classe dirigente sembra aver innescato il bottone dell’autodistruzione (speriamo la loro e non del Paese) - che sia almeno il nuovo Presidente in sintonia con il Paese. 
Ricordandosi che i nomi delle donne – per fortuna molte – che sarebbero state delle ottime Presidenti, possano essere ora preziosi suggerimenti per le nomine che spettano al Capo dello Stato, dalle senatrici a vita ai giudici costituzionali.
Cinzia Romano, 17 aprile 2013

lunedì 15 aprile 2013

Voglio una donna al Quirinale

Sono solo cinque parole, ma hanno un peso specifico notevole.
Sono pronunciate come un mantra, con intonazioni varie e diverse, come diversi tra loro sono i volti, le età, le storie, gli orientamenti culturali e le attività delle donne delle oltre 50 tra associazioni, gruppi, categorie lavorative e realtà femministe italiane che hanno pensato al video dove di colorato ci sono le insegne e i loghi dai quali ciascuna parla: sono giornali femminili e femministi, gruppi impegnati contro la violenza, storiche associazioni politiche, siti online, blog.


Rappresentano una piccola parte della ricchezza caleidoscopica e faticosa da tenere insieme, talvolta litigiosa e irriconoscente verso le sue stesse simili, che in questo paese è costituita dalle centinaia di migliaia di donne che ogni giorno fanno attivismo politico, culturale e sociale, dando vita al movimento delle donne italiano.
Questa volta, su questo specifico obiettivo, questa moltitudine si esprime con chiarezza, senza dubbio, in una frase limpida: “Voglio una donna al Quirinale”, dicono tutte.

Pochi giorni fa sulla rete è circolato anche il video di un gruppo di attori e attrici che si sono esposti per Emma Bonino presidente, ed è inevitabile che, sebbene l’appello tutto femminile non pronunci un nome, il pensiero corra verso questa opzione, pure molto appezzata nei vari gruppi e movimenti femministi.
Emma Bonino è, al di là di scelte che possono essere state nella storia politica recente anche fortemente contestate, una tra le più preziose e tenaci attiviste che si è battuta in prima persona, e senza mai pentirsi né arretrare, per l’ottenimento dei diritti civili delle donne, e questo non è in discussione. Senza di lei, senza Adele Faccio e Adelaide Aglietta questo paese sarebbe meno libero e meno laico di quanto purtroppo tuttora non sia.
Difficilmente tra donne ci sarà un nome che possa ottenere un consenso plebiscitario, ma non è questo il punto, adesso.
La questione, oggi, è la fine di un monopolio patriarcale che non è solo simbolico, ma è anche concreto e pesante circa la palese inviolabilità da parte di una donna in Italia di accedere alla carica più autorevole delle istituzioni.
Da tempo le bambine non rispondono più, alla domanda ‘cosa vuoi fare da grande’: “Il presidente della Repubblica, o  l’avvocato, l’astronauta, il vigile del fuoco”.
Ai miei tempi, quelli per intenderci di Dalla parte delle bambine di Elena Gianini Belotti  era più frequente, paradossalmente, rispetto ai nostri, nei quali le aspirazioni verso l’età adulta hanno subìto, in questo ventennio sciagurato, una discesa in picchiata verso ruoli più tradizionali, ancillari e rassicuranti per la stabilità del patriarcato. 
Bello sarebbe se al Quirinale andasse una donna, e le bambine italiane potessero finalmente mettere insieme grammatica e realtà, e dire, a ragion veduta: ”Da grande voglio fare LA presidente della Repubblica”.
di Monica Lanfranco



domenica 14 aprile 2013

giovedì 11 aprile 2013

Tenetevi i vostri Davide Serra. Noi vogliamo Vandana Shiva

Ieri a Ballarò sono emerse amare verità: e chi ha orecchie per intenderle le intenda. 
Il conduttore ha pensato bene di mettere a confronto due figure di caratura non proporzionale. Da un lato Vandana Shiva: studiosa e attivista in prima linea nei più recenti indirizzi per un nuovo paradigma di pensiero ed economico, nota economista di formazione ambientalista, nonché fisica quantistica, nonché autorevolissima teorica dell’ecologia sociale, riconosciuta in tutto il mondo per le sue ricerche e i suoi scritti. Vedi Wiki En, o WIki Italia, oppure QUI.
Dall'altro Davide Serra. Chi è? «Aria da bravo ragazzo e gergo anglofinanziario di rigore (il rialzo è “upside”, lo stipendio la “compensation”, si punta su un titolo perché c’è “high conviction”), nessuna indulgenza sartoriale se non i gemelli sulla camicia azzurra, al posto del Rolex d’ordinanza un Polar di plastica con cardiofrequenzimetro (“lo uso per correre, del resto corro sempre”), un passato da giocatore di pallavolo in A2 (“là alzavo la palla perché ero troppo basso per schiacciare, ora con Algebris, scherza, ho le dimensioni adatte per fare le schiacciate”)» (Davide Serra, biografia).
In breve un finanziere supporter di Matteo Renzi (che l'ha finanziato per ben 100.000 euro).
Bene; costui ha guardato alla sua autorevole interlocutrice come a una mentecatta - liquidandola come tale, o forse come... una donnetta che mette il becco a sproposito nelle cose da uomini.
E lei risponde, in sostanza, che se è questo il pensiero di chi finanzia Renzi, allora Renzi è un problema.
O potremmo anche dire: il problema dell'Italia (e del mondo) è che prevalgano dirigenti (o aspiranti tali) che si affidano a questo pensieroRenzi, nel caso.


Ora.. alle Primarie per il centrosinistra qualcuno che si presentava guardando a un'altra idea di mondo c'era; ed era una donna. Ma molti non se ne sono accorti: la nostra informazione ha contrapposto il "vecchio" e il "nuovo" facendoli rappresentare dai due maschi dominanti in lizza, Bersani e Renzi. Lei, la donnetta, saltata a pié pari, con tutti i suoi puerili contenuti da donnetta.
Ma quei contenuti fanno pensare che le "Vandana Shiva" non siano sono solo un fenomeno folcloristico che viene dai paesi poveri. Sono voci della politica femminile, anche vicine, vicinissime a noi - ancorché non ascoltate.
Ed ecco l'amara verità: se è il pensiero dei Davide Serra che nutre i Renzi, e se Renzi rappresenta per tanti il nuovo che avanza, il solo nuovo che ci si prospetta è vecchio, stantio e senza sbocchi. Insomma, il nuovo è già vecchio. Praticamente quanto il "vecchio" che si vuole rottamare, ma più furbo e sottile.

PS - Su quanto il pensiero di Vandana sia, ai nostri occhi, pura politica femminile - quella nuova e di cui abbiamo disperato bisogno - ci siamo già espresse; qui. Su quanto, e come, anche nelle "nuove" visioni per un'altra idea di mondo, esistano declinazioni al maschile e al femminile - e di come privilegiamo la seconda, anche: QUI.
E a queste riflessioni vi rimandiamo.

Mila Spicola: l'elezione del Presidente questione di competenza si, ma anche di rappresentanza

L’elezione del Presidente della Repubblica non è una questione di genere ma di competenza. 
"Vero, concordo", scrive oggi Mila Spicola; ma poi ci racconta una cosa: 
In una delle mie classi, un paio di anni fa, le ragazze erano 19 e i ragazzi 10. Dovevano eleggere il rappresentante e giustamente Mario disse: “Se io mi candido voi mi votate anche se son maschio e voi femmine siete di più?” 
Il dibattito fu accesissimo e le proposte molteplici. Tra cui persino l’ipotesi di proporre alla preside di riequilibrare il numero di ragazzi e ragazze nella classe. Si addivenne a una rosa di candidati proporzionale al genere e poi al criterio, in seno a quella rosa, della libera scelta. Era una seconda media, età dei ragazzi e delle ragazze 12/13 anni sulla carta, ma come saggezza di proposizione del problema molti ma molti di più. Una piccola e normale classe di saggi, non sempre saggi attenzione, perchè in fondo sempre ragazzini erano e vari e mutevoli come ciascuna categoria dell’umano consesso. 
Ma in quell’occasione la domanda di Mario mi stupì, tanto che avevo deciso di farne azione didattica e di dedicar alle loro discussioni un’ora intera delle mie misere due settimanali, con richiesta alla collega dell’ora successiva di farli continuare.

Dunque l’elezione del Presidente della Repubblica non è una questione di genere ma di competenza.
Vero concordo. Ma di rappresentanza sì, sembrerebbe, per quanto sollevò Mario in classe. 
Vediamo di capire come è composta e con quali criteri la rosa degli elettori del Presidente.
Ad oggi persino la parte criminale del paese sembrerebbe rappresentata da alcuni inquisiti nominati tra i grandi elettori. Non so se equamente, ma c’è. Le donne invece, che devono per forza e ovviamente essere limpidissime e cristallinissime e che sono il 52% del paese, hanno addirittura una presenza di 5 donne su 58 componenti. 
Ma che volete che sia? 
Maria non sa dove alzar la mano per essere ascoltata per fare, al femminile, la domanda di Mario.
Tutti gli uomini son stati scelti col solito criterio: ci devono stare. 
Perché il meccanismo e la regola di selezione portano a loro la maggioranza. Le 5 donne con lo stesso criterio risultano minoranza. Criterio maggiorato da una clausola tacita: purché siano wonder woman.
Ovviamente questo non vuol dir nulla. L’elezione del Presidente non sarà una scelta di genere, ma assolutamente di competenza. Certo, come no. E persino a 58 uomini può capitare che, insieme a tutti i parlamentari, sceglieranno per assurdo una donna. Per assurdo, lo riscrivo.
Un politico uomo vota una donna non so quanto per le sue reali e vere competenze, come farebbe una donna con un’altra donna, ma perché per adesso fa politicamente corretto scegliere una donna, crea consenso e fa figo e nuovo.
Sapete che c’è? Fosse solo questo il motivo dei componenti uomini per scegliere una donna, e ho il fondato sospetto che solo per questo motivo saran “costretti” a sceglierla, tanto meglio.
Dopo 80 anni di Presidenti uomini e non tutti all’altezza, scegliere una Donna Presidente andrebbe bene per i prossimi 80. Valida, ovviamente. Alle donne non sia mai e poi mai perdonato di non essere all’altezza, tanto quanto lo si perdona a taluni impresentabili uomini. Anche su questo ci sarebbe molto da dire e da fare, affinché non venga perdonato nemmeno agli impresentabili, che comunque ci ritroviamo sempre là con scarsi moti di vergogna.

PS Non so se fu incredibile, casuale o normale, o cosa, ma in quella seconda venne eletto come rappresentate un ragazzo e come vice rappresentante un altro ragazzo. Salvo poi dimettersi entrambi dopo qualche mese per dare spazio alle due compagne dietro di loro e dopo qualche mese di nuovo dimissioni e rotazione. 
Alla fine dell’anno, tornando stanchi da una gita a Marsala, discutemmo in pullmann della cosa, che aveva avuto i pro e i contro, e conclusero, tra una canzone e un ci fermiamo che dobbiamo andare in bagno,  che “Comunque, sa prof? Anche questi compagni maschi son bravi!”
E ripartirono le discussioni… La vita, l’Italia, fuori da quella classe, in cui difendo con le mani e i denti i miei piccoli uomini e le mie piccole donne, è davvero un altro mondo, almeno finora e assisteremo a un altro romanzo, quello in cui, “Sai che c’è? Persino le compagne femmine son brave.” E sarà meglio di “la votiamo perché è una donna”.
Mila Spicola, 11 aprile 2013 Fonte: Donne da romanzo quirinale

sabato 6 aprile 2013

Morire di recessione. Ci sia chi muore di rimorso

Un biglietto sul cruscotto di un’amica: Guarda nello sgabuzzino


Nello sgabuzzino ci sono Romeo e Annamaria: un uomo e una donna suicidi. Poi, il giorno dopo, Giuseppe, il fratello di lei, li segue: gettandosi in mare. 
Scusateci per quello che abbiamo fatto, hanno lasciato scritto.

Perdonano tutti e a tutti chiedono perdono, questa volta, quelli che hanno deciso di andarsene, semplicemente gettare la spugna, di fronte a una realtà non più sopportabile, fatta dell'addizione infinita di difficoltà senza soluzione. Morti di recessione, e non sono i primi. 
Ci chiediamo, ora, com'è possibile che qualcuno non muoia di rimorso.
Per avere condotto il paese a "misure" che hanno lasciati intatti i loro privilegi. Per avere voluto e avallato lo strozzinaggio di milioni di altri, gente che ai loro occhi non conta niente - numeri. Per avere pensato a come sfruttarli ancora un po', senza mai pensare a intaccare le proprie certezze. Per spendere ogni giorno, in un giorno, quello che in troppi non hanno nemmeno per l'intero mese. 
La politica orrenda che ci ha condotto fino qui faccia non uno, ma cento passi indietro. 
E il nuovo che avanza? La politica nuova, che oggi resta inerte in questo disastro, impegnata in ininterrotti bracci di ferro su chi deve tenere il mazzo e su come tenerlo, si svegli immediatamente. O crepi di rimorso anche lei.

mercoledì 3 aprile 2013

Politica, sostantivo femminile. In vista del prossimo seminario di Altradimora

Appunti in preparazione del seminario di Officine del pensiero femminista ad Altradimora
6/7/8 settembre 2013
Forse, quando nel settembre 2012, all’ultimo seminario di Altradimora su Storia delle donne/storia di donne, abbiamo deciso che l’appuntamento del 2013 sarebbe stato sulla politica eravamo, al solito, preveggenti. Ma credo che una situazione così complessa, difficile e a tratti inquietante, almeno per alcune di noi, non era attesa. Riporto di seguito alcuni brani di un articolo di Ilvo Diamanti, che mi ha colpito perché, nelle pieghe della mutazione antropologica, sociale  e politica nella quale siamo immerse, penso sia molto importante lo spostamenti del linguaggio e quindi della comunicazione che inevitabilmente in-forma anche i contenuti.
I politici della Prima Repubblica. Erano incomprensibili. Il linguaggio era fatto apposta per non essere compreso. Se non da loro. Al loro interno. Messaggi cifrati. Obliqui. Paralleli. I cittadini, d'altronde, non se ne occupavano troppo. I discorsi politici e dei politici: non li interessavano. Tuttavia, la società non era estranea al contesto politico. "Con-testo", appunto. Un "testo" condiviso. Perché la politica è rappresentanza e rappresentazione. I "rappresentanti" riflettono la società e la società vi si riflette. Almeno in parte. E il linguaggio ne era lo specchio. Così, le persone parlavano in modo "educato". In pubblico. Le parolacce non erano ammesse. Quando scappavano, il responsabile veniva guardato con un sorriso tirato, di riprovazione. Sui giornali e sui media, poi, guai. Quel "Cazzo!", pronunciato sapientemente da Zavattini, nel 1976, fece rumore. Anzi, fragore. Mentre quando Benigni in tv, ospite della Carrà, recitò tutti i sinonimi della "passerottina" (dalla chitarrina alla vulva...), sollevò grandi risate, ma molto meno clamore. Era il 1991. Il muro di Berlino era caduto. E stava travolgendo anche il sistema politico italiano. Seppellendo, insieme alla Prima Repubblica, una civiltà formalista e un po' ipocrita. Dove il distacco tra società e politica era riprodotto dall'impossibilità di comprendere quel che avveniva "in alto". I politici non erano apprezzati né, tanto meno, stimati. Anche prima di Tangentopoli. Venivano considerati disonesti. Inattendibili. Disinteressati ai problemi della "gente comune". Eppure non ci si faceva troppo caso. Tutti votavano sempre. Allo stesso modo.. 
..Oggi, anzi, da almeno vent'anni: la scena è cambiata. I politici sono impopolari come prima, più di prima. Ma nessuno si fa scrupolo a dirlo. Neppure i politici. I quali si fanno schifo e se lo dichiarano reciprocamente. Non c'è nessuno, d'altronde, che sia disposto ad ammetterlo. Di essere un politico. Neppure i dirigenti di partito, i parlamentari, i senatori. Tutti im-politici. Il vetro che separava i politici dalla società e la società dai politici: si è rotto. Certamente, almeno, dal punto di vista della comunicazione e del linguaggio. L'alto e il basso. Chi sta in alto, i rappresentanti, insegue chi sta in basso, i rappresentati. E scende più in basso possibile. Tutti leader e tutti follower. Gli "eletti" fingono di essere come il "popolo". Per imitare il "volgo" cercano di essere "volgari". E ci riescono perfettamente. Senza fatica. Perché spesso sono peggio di loro. Nei comportamenti e nelle parole. Hanno trasformato il Parlamento e la scena politica in un luogo dove non esistono limiti né regole. Ai discorsi, al linguaggio. Fra i rappresentanti e i rappresentati, è un gioco di specchi infinito. Così l'esibizione di chi "ce l'ha duro" si alterna al grido di "Forza gnocca". Mentre si sviluppano relazioni internazionali tra "Cavalieri arrapati" e "Culone inchiavabili". Di recente, infine, nelle piazze, nei palazzi e sui media echeggiano i "vaffanculo", ripetuti all'infinito. Da chi rifiuta di dialogare con i "morti-che-parlano-e-camminano". Con i "padri puttanieri della Patria". Che sono già morti. E, comunque, "devono morire". Il più presto possibile. Per cambiare davvero il Paese.
È il clima del tempo. Il linguaggio del tempo. (Ben riassunto nel Dizionario della Seconda Repubblica, scritto da Lorenzo Pregliasco e di prossima pubblicazione per gli Editori Riuniti). Contamina tutto e tutti. Anche gli artisti più gentili. Perfino lui, l'Artista a cui mi rivolgevo nei momenti più concitati. Quando vivevo "strani giorni". Mi rassicurava, sussurrando: "avrò cura di te". Anche lui, divenuto "politico", descrive il Parlamento come un luogo affollato di "troie disposte a tutto". E, allora, perché resistere? Perché rivolgersi, ancora, agli altri in modo educato? Perché chiedere rispetto: tra genitori e figli, professori e studenti, autorità e cittadini, immigrati e residenti, vicini e lontani, amici, conoscenti e sconosciuti. Perché? E perché limitarsi alle parole e non passare alle vie di fatto? D'altra parte, la distanza è breve. Le parole sono fatti.”

Parto da queste considerazioni, fatte da un uomo, perché una delle difficoltà più grandi, a mio parere, che ha incontrato l’analisi sulla politica di molti gruppi e singole femministe è stata quella di parlare spesso una lingua lontana e criptica, e di sottovalutare che da oltre due decenni non era più chiara, nella realtà come nella percezione di essa, la differenza tra la politica e i partiti.
Personalmente me ne sono accorta con sgomento in due occasioni: negli anni in cui ho insegnato all’Università di Parma e quando facemmo il video Giovani femministe.
In entrambi i casi alla parola politica veniva attribuito un significato negativo da parte dei e delle giovani, sovrapposto fastidiosamente alla cattiva reputazione che stigmatizzava i partiti: come a dire che se affermavi di essere una attivista femminista e quindi facevi politica eri sospetta di stare portando acqua al mulino di qualche odioso partito.
Per questo non risultava neppure chiaro a chi non era nei gruppi e nei movimenti  che la critica ai partiti e alla politica maschile non era una demolizione della politica nel suo senso originario.
Una delle parole, e dei concetti, maggiormente usate dal fraseggio femminista è stataestraneità:
un atteggiamento chiarissimo e puntuale, che però ha contribuito a isolare le femministe e le attiviste, facendo emergere da una parte soggettività femminili neutre (a destra ma anche a sinistra) e dall’altra spingendo l’onda che sembrava riemersa con Snoq, (dopoUsciamo dal silenzio e il ritorno in pista dell’Udi), nella risacca del trasversalismo, propugnando la sacrosante presenza femminile in ogni dove, ma senza dire quale segno di femminile e di politica femminile fosse necessario.
Rispetto ad altri paesi europei è sembrata impossibile anche solo da pensare e da ragionare la proposta di una lista solo di donne (e di femministe), anche senza configurarsi come un partito, o comunque rompendo la logica del legame stretto e necessitante con le strutture tradizionali: al grande incontro di Pestum, che poteva essere uno dei luoghi dove ragionarne, non è emerso molto su questo.
Ora, con l’imperare della antipolitica come sinonimo del rifiuto rabbioso non tanto dei partiti, ma della politica stessa come luogo dove si  elaborano insieme le priorità, i bisogni e i desideri delle donne e degli uomini che abitano e danno corpo alla cittadinanza,  l’emergenza è quella di ritrovare senso. 
Intanto di tornare a fare e a dire della politica come politica delle donne.
Trovare ponti verso le donne, anche più giovani ma non solo, che oggi sono dentro alla politica (nei movimenti come nelle istituzioni)  ma che non hanno la percezione dell’importanza della differenza di genere, e sono formidabili portatrici d’acqua nel mare della neutralità.
Ponti per arginare l’ennesima cancellazione non solo delle donne come corpi, ma come intelligenze e visioni lontane e antitetiche a quelle del patriarcato.
Ponti, iniziative e pratiche che formino, anche, le e i giovani alle priorità della politica: non solo, giustamente, diminuzioni di stipendio al parlamento, ma anche rinarrazione sistematica della storia dei diritti e delle analisi dei femminismi.
Né estranee, né cooptate, né indifferenti, né escluse dalla politica. 
L’incontro di Altradimora vorrei che rimettesse al centro visioni, strumenti e progetti politici con ottica di genere che ci mettessero tutte in grado, chi da fuori chi da dentro le istituzioni, di non indebolire l’azione comune e di non cancellare, con il disconoscimento per ignoranza e incuria, la ricchezza prodotta da quattro generazioni di donne.   
Monica Lanfranco